Sono andata a vedere l’ultimo film di Pietro Marcello un po’ prevenuta, perché ricordavo chiaramente la sensazione di spaesamento e di parziale insoddisfazione che avevo provato all’uscita dal cinema dopo la visione di Martin Eden.
Questo film, come ci dice nell’incontro al termine della proiezione il regista in persona - che si definisce primariamente archivista e documentarista, prestato in alcune occasioni alla fiction - , segue lo stesso metodo del precedente e sostanzialmente di tutti i suoi film.
I punti di continuità con Martin Eden sono numerosi: innanzitutto l’ispirazione che arriva da un testo letterario (in questo caso l’ancor meno conosciuta novella omonima di Aleksandr Grin, scrittore russo vissuto a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento); in secondo luogo la scelta di riadattare il testo sia in riferimento all’ambientazione (siamo in Piccardia, Francia, e non in Russia) sia rispetto alla narrazione, certamente modernizzata nel linguaggio e anche parzialmente nella trama; ancora, nelle scelte tecniche, in particolare la mescolanza di immagini di repertorio e di girato contemporaneo che vengono quasi fusi l’uno nell’altro, nonché l’uso della pellicola con l’effetto grana grossa nell’immagine e il formato 4:3; infine, nelle scelte visive che anche in questo caso risultano intrinsecamente pittoriche.
Dalla novella di Grin Pietro Marcello tira fuori la storia di una donna, Juliette (Juliette Jouan), rimasta orfana di madre, che cresce in una strana famiglia ricomposta, formata dal padre tornato dalla guerra, Raphaël (Raphaël Thierry, un volto e delle mani straordinarie) , dalla vedova Adeline (Noémie Lvovsky) e dalla famiglia del fabbro che vive nella stessa fattoria. La ragazza dovrà affrontare lo scherno e i pregiudizi della gente del villaggio che guarda con sospetto questo strano nucleo “familiare”, in cui Adeline è sospettata di praticare arti magiche, e Raphaël, nonostante le sue qualità di artigiano, è continuamente espulso dalla comunità. Sarà un ragazzo della città, Jean (Louis Garrel), pilota di aerei e avventuriero, a conquistare il cuore della ragazza, ma – in un chiaro capovolgimento di una fiaba classica – è Juliette a salvare lui e non il contrario.
All’interno di questo impianto fiabesco, in cui anche la musica ha un posto centrale (Juliette compone, suona e canta), tanti temi sociali trovano posto, non ultimo una specie di femminismo ante litteram, che – ci dice il regista – non è stato voluto per fare del film un manifesto, ma semplicemente perché è totalmente interno alla sua poetica e al suo modo di vedere le cose.
Gli attori, soprattutto Juliette Jouan e Raphaël Thierry, bucano davvero lo schermo, e la storia è leggera ma al contempo profonda e commovente, cosicché ci accompagna senza fatica nel suo svolgimento.
A questo giro – e nonostante il mio voto finale sia uguale a quello per Martin Eden – la mia promozione di Pietro Marcello è molto più convinta.
Voto: 3,5/5
lunedì 30 gennaio 2023
venerdì 27 gennaio 2023
Ferito a morte / Raffaele La Capria; regia di Roberto Andò. Teatro Argentina, 12 gennaio 2023
La morte di Raffaele La Capria risale al giugno 2022, quando lo scrittore aveva quasi cento anni e alle spalle una lunghissima carriera nell'ambito della letteratura e della sceneggiatura. Uno dei primi e più significativi momenti della sua carriera è stata la scrittura del romanzo Ferito a morte, per la cui pubblicazione La Capria si rivolse a più riprese all'editore Bompiani, fino a quando Valentino non solo accettò di pubblicare il testo entusiasta ma gli disse di accelerare i tempi per partecipare al Premio Strega di quell'anno, che poi effettivamente La Capria vinse.
È a questo primo grande successo che Roberto Andò ha deciso di tornare con questo lavoro teatrale, affidandosi a Emanuele Trevi per l'adattamento del testo, a una compagnia di attori di grande qualità e alle scene e luci di Gianni Carluccio.
L'allestimento è effettivamente di grande impatto visivo: palco "abitato" - in alcuni passaggi - sia al piano di sotto che al piano di sopra, rappresentanti ambientazioni differenti, stanze e ambienti che si aprono e avanzano dal retro del palco, specchi a terra e sul "soffitto" del palco su cui vengono proiettate delle immagini, in particolare quella dello sciabordio delle onde sulla spiaggia, creando un effetto molto suggestivo. Per non parlare della scena iniziale che crea l'impressione che tutto sia sotto l'acqua.
Sul palco il protagonista del romanzo, Massimo, ormai adulto (Andrea Renzi), che dalla stanza della città dove ora vive ricorda i tempi della giovinezza a Napoli con i suoi amici borghesi e sbruffoni.
Siamo nel dopoguerra, la città è ancora piena di macerie, ma questi giovani pensano a divertirsi e sembrano rifuggire all'idea di diventare adulti e di assumersi le loro responsabilità.
Dopo un mio iniziale tentativo di seguire la narrazione, dopo non molto mi perdo tra i personaggi e le chiacchiere tra di loro e faccio fatica a seguire. Di tanto in tanto vengo catturata da qualche personaggio (gli attori sono tutti bravissimi), o da qualche invenzione scenica, ma non riesco più a riacchiappare il filo del discorso se non nella parte finale. Non riesco nemmeno a capire bene le distanze temporali tra i vari momenti, che per me potrebbero essere abbastanza lontani nel tempo o ravvicinati.
Solo leggendo la trama del romanzo, riesco a posteriori a dare un senso a quello che ho visto.
Non ho letto Ferito a morte e posso dunque ipotizzare che neppure il libro abbia una struttura fortemente narrativa ma punti invece al ritratto sociale di tipo impressionistico. E da questo punto di vista l'impressione visiva che Andò suggerisce, quella di guardare dei pesci che si muovono più o meno disordinatamente in un acquario (ossia in un luogo autoreferenziale) è estremamente precisa ed evocativa. Posso però immaginare quanto difficile sia stato in generale tradurlo in un linguaggio diverso e sicuramente più rigido rispetto alla parola scritta come è il teatro.
Non sono del tutto in grado di dire se la scommessa sia stata vinta oppure no. Io ne sono uscita un pochettino frastornata.
Voto: 3/5
È a questo primo grande successo che Roberto Andò ha deciso di tornare con questo lavoro teatrale, affidandosi a Emanuele Trevi per l'adattamento del testo, a una compagnia di attori di grande qualità e alle scene e luci di Gianni Carluccio.
L'allestimento è effettivamente di grande impatto visivo: palco "abitato" - in alcuni passaggi - sia al piano di sotto che al piano di sopra, rappresentanti ambientazioni differenti, stanze e ambienti che si aprono e avanzano dal retro del palco, specchi a terra e sul "soffitto" del palco su cui vengono proiettate delle immagini, in particolare quella dello sciabordio delle onde sulla spiaggia, creando un effetto molto suggestivo. Per non parlare della scena iniziale che crea l'impressione che tutto sia sotto l'acqua.
Sul palco il protagonista del romanzo, Massimo, ormai adulto (Andrea Renzi), che dalla stanza della città dove ora vive ricorda i tempi della giovinezza a Napoli con i suoi amici borghesi e sbruffoni.
Siamo nel dopoguerra, la città è ancora piena di macerie, ma questi giovani pensano a divertirsi e sembrano rifuggire all'idea di diventare adulti e di assumersi le loro responsabilità.
Dopo un mio iniziale tentativo di seguire la narrazione, dopo non molto mi perdo tra i personaggi e le chiacchiere tra di loro e faccio fatica a seguire. Di tanto in tanto vengo catturata da qualche personaggio (gli attori sono tutti bravissimi), o da qualche invenzione scenica, ma non riesco più a riacchiappare il filo del discorso se non nella parte finale. Non riesco nemmeno a capire bene le distanze temporali tra i vari momenti, che per me potrebbero essere abbastanza lontani nel tempo o ravvicinati.
Solo leggendo la trama del romanzo, riesco a posteriori a dare un senso a quello che ho visto.
Non ho letto Ferito a morte e posso dunque ipotizzare che neppure il libro abbia una struttura fortemente narrativa ma punti invece al ritratto sociale di tipo impressionistico. E da questo punto di vista l'impressione visiva che Andò suggerisce, quella di guardare dei pesci che si muovono più o meno disordinatamente in un acquario (ossia in un luogo autoreferenziale) è estremamente precisa ed evocativa. Posso però immaginare quanto difficile sia stato in generale tradurlo in un linguaggio diverso e sicuramente più rigido rispetto alla parola scritta come è il teatro.
Non sono del tutto in grado di dire se la scommessa sia stata vinta oppure no. Io ne sono uscita un pochettino frastornata.
Voto: 3/5
mercoledì 25 gennaio 2023
Niente di vero / Veronica Raimo
Niente di vero / Veronica Raimo. Torino: Einaudi, 2022.
Molte persone mi avevano parlato del libro di Veronica Raimo, vincitore del Premio Strega Giovani nel 2022. In particolare, diversi amici - a cui avevo raccontato un episodio che un po’ fortuitamente mi aveva messo in contatto con Christian Raimo e che mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca - mi avevano consigliato di leggere questa autobiografia familiare della sorella, perché in essa non solo la stessa Veronica prende corpo e definizione, ma anche gli altri componenti della famiglia, il fratello Christian, la madre e il padre (morto diversi anni fa).
Da più parti avevo avuto riscontri sul fatto che si trattasse di un libro esilarante, e anche l’endorsement di Zerocalcare, presente nella copertina, andava in questa direzione.
Non posso dire che il libro non mi sia piaciuto. La famiglia Raimo e più in generale il mondo che ruota intorno a Veronica vengono tratteggiati con perizia, e soprattutto in modo divertito e divertente, ma al contempo intelligente. Ma forse il limite di questo libro sta proprio qui.
I brevi capitoli che lo compongono (e che sono i pezzi di una narrazione non necessariamente sequenziale ma che procede per ricordi o sensazioni o episodi) sembrano una sequenza di lunghi post di Facebook (dico Facebook perché mi pare - ma non sono un'esperta - che sia rimasto ormai uno dei pochi social network che si incentra ancora sulla parola). Non so se voi avete qualche amico così nella vostra bacheca: io ne ho almeno un paio. Persone che scrivono benissimo, che sanno trasformare eventi e vicende della loro vita e della loro famiglia in piccoli racconti esilaranti che, anche quando sono parecchio lunghi, ti spingono a leggerli fino all’ultima riga. Quel tipo di post sotto i quali non puoi non mettere un “mi piace”, un cuore, un lol, a seconda dei casi. Quel tipo di post che però nel tempo tende a creare assuefazione rispetto a una certa modalità narrativa, e che a un certo punto quasi disturba per il fatto di voler essere troppo smart, di ricercare l’effetto sorpresa o l’elemento esilarante.
Ebbene, il libro della Raimo mi ha fatto esattamente questo effetto. Man mano che andavo avanti nella lettura dei capitoli perdevo interesse e le situazioni raccontate non mi facevano più ridere né mi colpivano particolarmente. Però capisco che il libro possa essere piaciuto e piacere molto ai giovani: è una lettura relativamente semplice, che crea empatia, e il rispecchiamento può essere a tratti molto forte, oltre al fatto che è un tipo di scrittura cui i giovani sono parecchio abituati.
Per me alla fine questo suo essere facile e non richiedere alcun tipo di sforzo nella lettura (che mi ha permesso di leggerlo in un periodo in cui arrivavo a sera stanchissima) non è un pregio, ma un limite, interpretazione che è certamente frutto di quella cultura novecentesca in cui sono immersa e che mi rende un po’ allergica al nuovo (sarà certamente anche la vecchiaia!).
Voto: 3/5
Molte persone mi avevano parlato del libro di Veronica Raimo, vincitore del Premio Strega Giovani nel 2022. In particolare, diversi amici - a cui avevo raccontato un episodio che un po’ fortuitamente mi aveva messo in contatto con Christian Raimo e che mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca - mi avevano consigliato di leggere questa autobiografia familiare della sorella, perché in essa non solo la stessa Veronica prende corpo e definizione, ma anche gli altri componenti della famiglia, il fratello Christian, la madre e il padre (morto diversi anni fa).
Da più parti avevo avuto riscontri sul fatto che si trattasse di un libro esilarante, e anche l’endorsement di Zerocalcare, presente nella copertina, andava in questa direzione.
Non posso dire che il libro non mi sia piaciuto. La famiglia Raimo e più in generale il mondo che ruota intorno a Veronica vengono tratteggiati con perizia, e soprattutto in modo divertito e divertente, ma al contempo intelligente. Ma forse il limite di questo libro sta proprio qui.
I brevi capitoli che lo compongono (e che sono i pezzi di una narrazione non necessariamente sequenziale ma che procede per ricordi o sensazioni o episodi) sembrano una sequenza di lunghi post di Facebook (dico Facebook perché mi pare - ma non sono un'esperta - che sia rimasto ormai uno dei pochi social network che si incentra ancora sulla parola). Non so se voi avete qualche amico così nella vostra bacheca: io ne ho almeno un paio. Persone che scrivono benissimo, che sanno trasformare eventi e vicende della loro vita e della loro famiglia in piccoli racconti esilaranti che, anche quando sono parecchio lunghi, ti spingono a leggerli fino all’ultima riga. Quel tipo di post sotto i quali non puoi non mettere un “mi piace”, un cuore, un lol, a seconda dei casi. Quel tipo di post che però nel tempo tende a creare assuefazione rispetto a una certa modalità narrativa, e che a un certo punto quasi disturba per il fatto di voler essere troppo smart, di ricercare l’effetto sorpresa o l’elemento esilarante.
Ebbene, il libro della Raimo mi ha fatto esattamente questo effetto. Man mano che andavo avanti nella lettura dei capitoli perdevo interesse e le situazioni raccontate non mi facevano più ridere né mi colpivano particolarmente. Però capisco che il libro possa essere piaciuto e piacere molto ai giovani: è una lettura relativamente semplice, che crea empatia, e il rispecchiamento può essere a tratti molto forte, oltre al fatto che è un tipo di scrittura cui i giovani sono parecchio abituati.
Per me alla fine questo suo essere facile e non richiedere alcun tipo di sforzo nella lettura (che mi ha permesso di leggerlo in un periodo in cui arrivavo a sera stanchissima) non è un pregio, ma un limite, interpretazione che è certamente frutto di quella cultura novecentesca in cui sono immersa e che mi rende un po’ allergica al nuovo (sarà certamente anche la vecchiaia!).
Voto: 3/5
lunedì 23 gennaio 2023
Aftersun
Siamo negli anni Novanta. Sophie (Frankie Corio) ha 11 anni e sta partendo per una vacanza con il padre Calum (Paul Mescal), che a sua volta ne sta per compiere 30. I due trascorreranno questi giorni insieme in un resort low budget in una località di mare della Turchia, circondati quasi esclusivamente da turisti britannici. Molti momenti della loro vacanza saranno immortalati con una piccola videocamera digitale, quella che lascerà le tracce che - come scopriremo presto - la Sophie di oggi, trentenne anche lei e madre, cerca di ricombinare con i suoi ricordi a formare un quadro nel complesso coerente, ma inevitabilmente frammentario, i cui buchi vengono colmati dall’interpretazione dei fatti che solo il tempo offre ma che comunque non è necessariamente corretta ovvero completa.
Quello di Charlotte Wells, giovane regista scozzese al suo esordio nel lungometraggio con una storia dal sapore squisitamente autobiografico come Aftersun, è principalmente un film sulla memoria, la sua forza emotiva e la sua labilità, ma è anche un film su una bambina che si affaccia all'adolescenza e comincia a porsi domande da adulta, ma che non ha ancora tutti gli strumenti per comprendere la complessità del mondo circostante, a partire dallo stato di malessere che suo padre cerca in tutti i modi di tenere fuori dal rapporto con lei ma che inevitabilmente trapela di tanto in tanto.
Non conosciamo la storia pregressa di Sophie e Calum: ne scopriamo man mano alcuni dettagli, ma tante informazioni restano ignote, forse perché la regista non ha voluto o non ha potuto ricostruirle. Conoscendo le età dei due protagonisti sappiamo che Calum è diventato padre molto giovane (qualcuno durante la vacanza lo scambia per il fratello), e sappiamo che è separato dalla moglie e che Sophie vive prevalentemente con la madre. Calum all’inizio del film ha un braccio ingessato, ma non sappiamo perché, e man mano che la narrazione di questi giorni - che vogliono e devono essere spensierati - va avanti capiamo che Calum si porta dentro un qualche grande dolore, non meglio specificato. Lo vediamo spesso fare Tai Chi, ha con sé dei libri di meditazione, dice di non essersi sentito mai a suo agio nel suo luogo di origine e che presumibilmente non vi farà più ritorno, racconta alla figlia come al suo undicesimo compleanno nessuno dei genitori se ne fosse ricordato, e quando incita la figlia a raccontargli sempre tutto le dice sostanzialmente che lui la potrà sempre capire perché nella vita tutto ha provato. Alla fine di una giornata intensa, di fronte a Sophie che denuncia una strana malinconia appare fin troppo partecipe e cerca di cambiare immediatamente discorso.
A parte questi punti oscuri il rapporto tra padre e figlia è raccontato con una naturalezza e una immediatezza al contempo sorprendenti e commoventi. C’è intimità, tenerezza, ma anche quei piccoli momenti di frizione, di incomprensione e di disallineamento che tutti conosciamo come propri di una vacanza a due con un genitore, tanto più se si è dei pre-adolescenti in procinto di fare il salto dall’alveo familiare al mondo esterno.
Sicuramente questo è l’aspetto narrativo che la regista può raccontare con maggiori dettagli, anche se tutta quella vacanza – proprio perché filtrata attraverso la memoria a distanza di circa vent’anni e tanto più perché riletta alla luce di eventi successivi che non conosciamo del tutto, sebbene possiamo immaginare che quella sia stata l’ultima volta che Sophie ha incontrato suo padre – sembra immersa in una sostanza densa che sfoca le immagini e ne modifica i contorni. Non a caso moltissima parte delle immagini passa o attraverso lo schermo della videocamera oppure attraverso altri schermi (vetri, acqua, superfici riflettenti, buchi della serratura, porte semi-aperte ecc), dando in entrambi i casi il senso della parzialità di quel racconto: o perché resta fuori dal girato o perché reso incerto dalla memoria. E tutto quello che né il video né la memoria hanno potuto registrare è proiezione della protagonista adulta, che in un certo senso si rispecchia nel Calum di allora e infine – dentro le luci stroboscopiche di quella che sembra una discoteca (Calum amava ballare e le luci stroboscopiche sono anche simboliche rispetto a una memoria che illumina alcune cose e affonda nel buio altre) - lo accoglie e lo prende su di sé.
Un esordio coi controfiocchi. Da vedere.
Voto: 4/5
Quello di Charlotte Wells, giovane regista scozzese al suo esordio nel lungometraggio con una storia dal sapore squisitamente autobiografico come Aftersun, è principalmente un film sulla memoria, la sua forza emotiva e la sua labilità, ma è anche un film su una bambina che si affaccia all'adolescenza e comincia a porsi domande da adulta, ma che non ha ancora tutti gli strumenti per comprendere la complessità del mondo circostante, a partire dallo stato di malessere che suo padre cerca in tutti i modi di tenere fuori dal rapporto con lei ma che inevitabilmente trapela di tanto in tanto.
Non conosciamo la storia pregressa di Sophie e Calum: ne scopriamo man mano alcuni dettagli, ma tante informazioni restano ignote, forse perché la regista non ha voluto o non ha potuto ricostruirle. Conoscendo le età dei due protagonisti sappiamo che Calum è diventato padre molto giovane (qualcuno durante la vacanza lo scambia per il fratello), e sappiamo che è separato dalla moglie e che Sophie vive prevalentemente con la madre. Calum all’inizio del film ha un braccio ingessato, ma non sappiamo perché, e man mano che la narrazione di questi giorni - che vogliono e devono essere spensierati - va avanti capiamo che Calum si porta dentro un qualche grande dolore, non meglio specificato. Lo vediamo spesso fare Tai Chi, ha con sé dei libri di meditazione, dice di non essersi sentito mai a suo agio nel suo luogo di origine e che presumibilmente non vi farà più ritorno, racconta alla figlia come al suo undicesimo compleanno nessuno dei genitori se ne fosse ricordato, e quando incita la figlia a raccontargli sempre tutto le dice sostanzialmente che lui la potrà sempre capire perché nella vita tutto ha provato. Alla fine di una giornata intensa, di fronte a Sophie che denuncia una strana malinconia appare fin troppo partecipe e cerca di cambiare immediatamente discorso.
A parte questi punti oscuri il rapporto tra padre e figlia è raccontato con una naturalezza e una immediatezza al contempo sorprendenti e commoventi. C’è intimità, tenerezza, ma anche quei piccoli momenti di frizione, di incomprensione e di disallineamento che tutti conosciamo come propri di una vacanza a due con un genitore, tanto più se si è dei pre-adolescenti in procinto di fare il salto dall’alveo familiare al mondo esterno.
Sicuramente questo è l’aspetto narrativo che la regista può raccontare con maggiori dettagli, anche se tutta quella vacanza – proprio perché filtrata attraverso la memoria a distanza di circa vent’anni e tanto più perché riletta alla luce di eventi successivi che non conosciamo del tutto, sebbene possiamo immaginare che quella sia stata l’ultima volta che Sophie ha incontrato suo padre – sembra immersa in una sostanza densa che sfoca le immagini e ne modifica i contorni. Non a caso moltissima parte delle immagini passa o attraverso lo schermo della videocamera oppure attraverso altri schermi (vetri, acqua, superfici riflettenti, buchi della serratura, porte semi-aperte ecc), dando in entrambi i casi il senso della parzialità di quel racconto: o perché resta fuori dal girato o perché reso incerto dalla memoria. E tutto quello che né il video né la memoria hanno potuto registrare è proiezione della protagonista adulta, che in un certo senso si rispecchia nel Calum di allora e infine – dentro le luci stroboscopiche di quella che sembra una discoteca (Calum amava ballare e le luci stroboscopiche sono anche simboliche rispetto a una memoria che illumina alcune cose e affonda nel buio altre) - lo accoglie e lo prende su di sé.
Un esordio coi controfiocchi. Da vedere.
Voto: 4/5
venerdì 20 gennaio 2023
Godland - Nella terra di Dio
Lucas (Elliott Crosset Hove) è un giovane prete protestante danese che alla fine dell'Ottocento viene mandato in Islanda per costruire una chiesa nei fiordi orientali, allo scopo non solo di evangelizzare ma anche di conoscere la comunità locale e inserirsi al suo interno.
La prima parte del film di Pálmason racconta del lungo viaggio verso la destinazione, prima per mare e poi per terra, con una carovana di cavalli guidati da un mandriano islandese di nome Ragnar (il sempre bravo Ingvar Eggert Sigurðsson, visto già in A white white day), mentre la seconda parte si concentra sulla costruzione della chiesa e la relazione con la comunità locale.
Alla base di tutto c'è la difficilissima relazione tra islandesi e danesi, tant'è che il film è recitato nelle due lingue, usate spesso in veri e propri duelli verbali, in cui ciascuno utilizza orgogliosamente la propria lingua come elemento identitario e consapevole del fatto di rendere la comprensione impossibile. Anche il titolo è in entrambe le lingue (Vanskabte Land in danese, e Volaða land), e il suo significato non corrisponde al titolo internazionale, in quanto la traduzione è "terra deformata", che certamente meglio si adatta al punto di vista del protagonista verso l'Islanda.
Certamente è importante sapere che l'Islanda è vissuta sotto il dominio danese dal 1397 fino al 1944, anno in cui, dopo un referendum che votò a favore della secessione, il Parlamento islandese proclamò finalmente la repubblica. Furono i danesi a imporre la Riforma protestante in Islanda nel XVI secolo, sebbene la popolazione fosse fino a quel momento prevalentemente cattolica. La somma delle confische e dei saccheggi operati dai danesi - e in generale dagli stranieri - e delle difficilissime condizioni climatiche e ambientali fecero sì che a più riprese la popolazione islandese dovesse affrontare carestie e povertà estrema e si decimasse. Per tutti questi motivi il dominio danese e il tentativo di colonizzazione sono ancora oggi una ferita aperta per gli islandesi.
Senza queste premesse è difficile, o comunque meno agevole, cogliere appieno lo spirito e il senso del film di Pálmason, che prende spunto dal presunto ritrovamento, nelle province orientali dell'Islanda, di alcune fotografie al collodio accanto al cadavere di un prete. Il prete danese protagonista del film si mette infatti in viaggio con tutta la sua pesante attrezzatura fotografica e i suoi libri e decide di approdare in nave lontano dal luogo dove costruirà la chiesa, perché vuole conoscere l'Islanda e il suo popolo - o almeno questo dice a chi glielo chiede. In realtà Lucas dimostra fin dal principio di essere uno strano mix di ingenuità e senso di superiorità, che farà sì che egli rimanga sempre un corpo estraneo rispetto all'Islanda e agli islandesi, e persino ai suoi stessi connazionali trapiantati in Islanda: osserva e fotografa ma non comprende, vuole piegare la natura alla sua volontà ma ne risulterà piegato lui stesso fino quasi a morirne, si sente superiore culturalmente e moralmente (entrando in conflitto in primis con Ragnar, personificazione del modo di essere islandese, a sua volta testardo e oppositivo), ma finirà per dimostrarsi non dissimile dagli altri esseri umani, islandesi o danesi che siano, in termini di istinti, sentimenti ed emozioni. E in fondo non dissimile da tutti gli altri esseri viventi che - nessuno escluso - in Islanda sono alla mercé di una natura soverchiante e tutto sommato indifferente ai loro dolori, amori, conflitti, passioni, violenze, e che risponde invece solo al trascorrere del tempo e al susseguirsi inesorabile delle stagioni, che tutto ingloba e assorbe nel ventre della terra, come i timelapse con telecamera fissa attraverso le stagioni portano all'evidenza.
Dentro un formato quasi quadrato (con rapporto 1.37:1, il formato cosiddetto Academy) con i bordi gentilmente arrotondati e attraverso una scelta di colori che proprio alle fotografie al collodio di fine ottocento si ispira, la natura islandese - sempre maestosa - risulta più claustrofobica che estetizzante, così come le persone appaiono chiuse nella loro incapacità di comunicare. È il movimento circolare a 360° della telecamera oppure i suoi spostamenti dal paesaggio al dettaglio che restituisce ampiezza alle immagini (si veda la ripresa dalle montagne attraverso l'erba fino al volto morente di Lucas che segna lo stacco tra la prima e la seconda parte del film, o anche la scena del ballo al matrimonio), sebbene il regista lo faccia con una lentezza a volte esasperante, quasi a fare da contrasto con i timelapse della parte finale del film (che sia anche un modo di far emergere la relatività del tempo, e la abissale differenza percettiva tra il tempo umano e quello della terra?).
Un'ultima notazione: mi ha colpito moltissimo la centralità che nel film hanno i cavalli, con i quali gli islandesi sembrano avere un rapporto quasi viscerale, elementi insostituibili del paesaggio islandese, compagni di lavoro, di fatica e di viaggio indispensabili per sopravvivere in una terra tanto ostile, e da cui non separarsi mai, perché loro sì che sono capaci di sopravvivere adattandosi. Non a caso Ragnar è un mandriano, il traduttore muore nel fiume perché non si tiene stretto al suo cavallo, il padre del venditore di fieno che la carovana incontra per strada è ossessionato dall'idea che i cavalli non sono in vendita, ogni persona sembra avere il suo cavallo, compresi i componenti della famiglia di danesi presso cui viene costruita la chiesa. Lucas in fondo è l'unico che dimostra fin dal principio di non avere dimistichezza con i cavalli e di non essere in grado di gestirli, segno inequivocabile della sua estraneità al contesto.
Voto: 3,5/5
La prima parte del film di Pálmason racconta del lungo viaggio verso la destinazione, prima per mare e poi per terra, con una carovana di cavalli guidati da un mandriano islandese di nome Ragnar (il sempre bravo Ingvar Eggert Sigurðsson, visto già in A white white day), mentre la seconda parte si concentra sulla costruzione della chiesa e la relazione con la comunità locale.
Alla base di tutto c'è la difficilissima relazione tra islandesi e danesi, tant'è che il film è recitato nelle due lingue, usate spesso in veri e propri duelli verbali, in cui ciascuno utilizza orgogliosamente la propria lingua come elemento identitario e consapevole del fatto di rendere la comprensione impossibile. Anche il titolo è in entrambe le lingue (Vanskabte Land in danese, e Volaða land), e il suo significato non corrisponde al titolo internazionale, in quanto la traduzione è "terra deformata", che certamente meglio si adatta al punto di vista del protagonista verso l'Islanda.
Certamente è importante sapere che l'Islanda è vissuta sotto il dominio danese dal 1397 fino al 1944, anno in cui, dopo un referendum che votò a favore della secessione, il Parlamento islandese proclamò finalmente la repubblica. Furono i danesi a imporre la Riforma protestante in Islanda nel XVI secolo, sebbene la popolazione fosse fino a quel momento prevalentemente cattolica. La somma delle confische e dei saccheggi operati dai danesi - e in generale dagli stranieri - e delle difficilissime condizioni climatiche e ambientali fecero sì che a più riprese la popolazione islandese dovesse affrontare carestie e povertà estrema e si decimasse. Per tutti questi motivi il dominio danese e il tentativo di colonizzazione sono ancora oggi una ferita aperta per gli islandesi.
Senza queste premesse è difficile, o comunque meno agevole, cogliere appieno lo spirito e il senso del film di Pálmason, che prende spunto dal presunto ritrovamento, nelle province orientali dell'Islanda, di alcune fotografie al collodio accanto al cadavere di un prete. Il prete danese protagonista del film si mette infatti in viaggio con tutta la sua pesante attrezzatura fotografica e i suoi libri e decide di approdare in nave lontano dal luogo dove costruirà la chiesa, perché vuole conoscere l'Islanda e il suo popolo - o almeno questo dice a chi glielo chiede. In realtà Lucas dimostra fin dal principio di essere uno strano mix di ingenuità e senso di superiorità, che farà sì che egli rimanga sempre un corpo estraneo rispetto all'Islanda e agli islandesi, e persino ai suoi stessi connazionali trapiantati in Islanda: osserva e fotografa ma non comprende, vuole piegare la natura alla sua volontà ma ne risulterà piegato lui stesso fino quasi a morirne, si sente superiore culturalmente e moralmente (entrando in conflitto in primis con Ragnar, personificazione del modo di essere islandese, a sua volta testardo e oppositivo), ma finirà per dimostrarsi non dissimile dagli altri esseri umani, islandesi o danesi che siano, in termini di istinti, sentimenti ed emozioni. E in fondo non dissimile da tutti gli altri esseri viventi che - nessuno escluso - in Islanda sono alla mercé di una natura soverchiante e tutto sommato indifferente ai loro dolori, amori, conflitti, passioni, violenze, e che risponde invece solo al trascorrere del tempo e al susseguirsi inesorabile delle stagioni, che tutto ingloba e assorbe nel ventre della terra, come i timelapse con telecamera fissa attraverso le stagioni portano all'evidenza.
Dentro un formato quasi quadrato (con rapporto 1.37:1, il formato cosiddetto Academy) con i bordi gentilmente arrotondati e attraverso una scelta di colori che proprio alle fotografie al collodio di fine ottocento si ispira, la natura islandese - sempre maestosa - risulta più claustrofobica che estetizzante, così come le persone appaiono chiuse nella loro incapacità di comunicare. È il movimento circolare a 360° della telecamera oppure i suoi spostamenti dal paesaggio al dettaglio che restituisce ampiezza alle immagini (si veda la ripresa dalle montagne attraverso l'erba fino al volto morente di Lucas che segna lo stacco tra la prima e la seconda parte del film, o anche la scena del ballo al matrimonio), sebbene il regista lo faccia con una lentezza a volte esasperante, quasi a fare da contrasto con i timelapse della parte finale del film (che sia anche un modo di far emergere la relatività del tempo, e la abissale differenza percettiva tra il tempo umano e quello della terra?).
Un'ultima notazione: mi ha colpito moltissimo la centralità che nel film hanno i cavalli, con i quali gli islandesi sembrano avere un rapporto quasi viscerale, elementi insostituibili del paesaggio islandese, compagni di lavoro, di fatica e di viaggio indispensabili per sopravvivere in una terra tanto ostile, e da cui non separarsi mai, perché loro sì che sono capaci di sopravvivere adattandosi. Non a caso Ragnar è un mandriano, il traduttore muore nel fiume perché non si tiene stretto al suo cavallo, il padre del venditore di fieno che la carovana incontra per strada è ossessionato dall'idea che i cavalli non sono in vendita, ogni persona sembra avere il suo cavallo, compresi i componenti della famiglia di danesi presso cui viene costruita la chiesa. Lucas in fondo è l'unico che dimostra fin dal principio di non avere dimistichezza con i cavalli e di non essere in grado di gestirli, segno inequivocabile della sua estraneità al contesto.
Voto: 3,5/5
mercoledì 18 gennaio 2023
Close
Leo (lo strepitoso Eden Dambrine) e Remi (l'altrettanto bravo Gustav De Waele) sono due tredicenni, vicini di casa (nella campagna belga), amici di giochi e di confidenze. Mentre i genitori di Leo si dedicano alla raccolta dei fiori che coltivano, i due ragazzini si godono la loro ultima estate dell'infanzia prima del salto alla scuola superiore tra corse nei campi e gare in bicicletta, giochi di ruolo, sogni sul futuro, esercizi all'oboe (suonato da Remi), risate, momenti di tristezza, e notti passate insieme a casa dell'uno o dell'altro.
All'inizio dell'anno scolastico Leo e Remi si ritrovano in classe insieme e nulla sembra essere cambiato. Però una domanda posta in maniera un po' maliziosa da alcune compagne di classe e gli atteggiamenti da bulli di altri gettano ombra sulla loro amicizia. È soprattutto Leo, il più forte dei due, a entrare in crisi e a cambiare atteggiamento con l'amico, senza riuscire a verbalizzare il proprio confuso stato d'animo. Nel corso dell'anno scolastico il mondo dell'infanzia diventerà un ricordo lontano e si compirà un traumatico coming of age, destinato a lasciare segni profondi.
Dopo il bellissimo Girl, Lukas Dhont sembra continuare la sua personale riflessione sul tema dell'identità di genere, in particolare declinato rispetto a quella delicata età della vita che è l'adolescenza, e lo fa nei modi cui già ci ha abituati: una fotografia di grande qualità estetica, un girato formalmente impeccabile, degli attori straordinari che parlano anche con sguardi e silenzi.
Qualcuno parla infatti di un manierismo di cui Dhont sembrerebbe essere vittima già dopo pochi film (in cui rientrerebbero anche presunti scimmiottamenti malickiani) e di una narrazione a tratti incompiuta, soprattutto quando si esce dallo stretto ambito del rapporto tra i due protagonisti.
Per quanto mi riguarda ho amato Close in ogni scena e inquadratura e sono stata risucchiata nella sua tensione emotiva in maniera totale, sentendo sotto la pelle tutta la felicità, la tenerezza, e poi tutto il dolore e il senso di colpa. E non è sempre vero che un film che ci fa piangere è un film che vuole nascondere i suoi limiti sfruttando strumentalmente l'elemento melodrammatico.
Dentro il film di Dhont io ci ho visto tantissime cose, che vanno molto al di là del tema dell'identità di genere: ad esempio la rappresentazione di un'amicizia infantile la cui innocenza sta nel totale disinteresse verso lo sguardo esterno e nell'essere perfettamente compiuta in sé stessa; lo sguardo altrui come elemento centrale del passaggio dall'infanzia all'adolescenza, che porta con sé la necessità di essere accettati, di omologarsi, di corrispondere alle aspettative; la cesura emotiva e verbale che l'io adolescente vive e che all'improvviso lo costringe a rivedere i propri sentimenti sotto una nuova luce togliendogli completamente le parole per raccontarsi a sé stesso e agli altri; l'affacciarsi del senso di colpa e del peso della responsabilità, nonché del dolore, e la difficoltà di farsene carico e di accettarli, che è la sfida cui continuamente siamo chiamati in età adulta. In questo senso nel film c'è una forte cesura tra i coetanei di Leo e Remi, 'emotivamente inetti' nei modi più vari, e gli adulti (a partire dal fratello di Leo fino ad arrivare ai genitori di Remi, in particolare la madre Sophie) che inevitabilmente hanno dovuto imparare con l'età a fare i conti con dolore, dubbi e imperfezioni.
Non è dunque importante se Leo e Remi sono gay e se la loro amicizia non è un'amicizia, ma qualcos'altro. Loro non se lo chiedono fino a quando non sono gli altri a chiederglielo. Dhont ci spinge ancora una volta a riflettere sul fatto che noi per primi iniziamo a chiedercelo e a osservare morbosamente solo quando diventiamo spettatori - e non partecipi - delle vite degli altri.
Alla fine quella di Close è una rappresentazione al contempo lirica e drammatica di un coming of age, in cui più che l'orgoglio della crescita c'è l'infinito dolore del distacco dall'infanzia, non necessariamente spensierata ma emotivamente istintiva, uno strappo che è come quello dei fiori che ogni estate la famiglia di Leo coglie nei campi, dopo averli amorevolmente piantati e coltivati e prima che vengano rimossi dal terreno per prepararlo a una nuova semina. Il fuggevole sguardo indietro di Leo prima di andare avanti nell'ultima sequenza del film è metafora di un tempo che per ciascuno di noi scorre solo in avanti, pur funzionando in cicli di eterno ritorno.
Voto: 4/5
All'inizio dell'anno scolastico Leo e Remi si ritrovano in classe insieme e nulla sembra essere cambiato. Però una domanda posta in maniera un po' maliziosa da alcune compagne di classe e gli atteggiamenti da bulli di altri gettano ombra sulla loro amicizia. È soprattutto Leo, il più forte dei due, a entrare in crisi e a cambiare atteggiamento con l'amico, senza riuscire a verbalizzare il proprio confuso stato d'animo. Nel corso dell'anno scolastico il mondo dell'infanzia diventerà un ricordo lontano e si compirà un traumatico coming of age, destinato a lasciare segni profondi.
Dopo il bellissimo Girl, Lukas Dhont sembra continuare la sua personale riflessione sul tema dell'identità di genere, in particolare declinato rispetto a quella delicata età della vita che è l'adolescenza, e lo fa nei modi cui già ci ha abituati: una fotografia di grande qualità estetica, un girato formalmente impeccabile, degli attori straordinari che parlano anche con sguardi e silenzi.
Qualcuno parla infatti di un manierismo di cui Dhont sembrerebbe essere vittima già dopo pochi film (in cui rientrerebbero anche presunti scimmiottamenti malickiani) e di una narrazione a tratti incompiuta, soprattutto quando si esce dallo stretto ambito del rapporto tra i due protagonisti.
Per quanto mi riguarda ho amato Close in ogni scena e inquadratura e sono stata risucchiata nella sua tensione emotiva in maniera totale, sentendo sotto la pelle tutta la felicità, la tenerezza, e poi tutto il dolore e il senso di colpa. E non è sempre vero che un film che ci fa piangere è un film che vuole nascondere i suoi limiti sfruttando strumentalmente l'elemento melodrammatico.
Dentro il film di Dhont io ci ho visto tantissime cose, che vanno molto al di là del tema dell'identità di genere: ad esempio la rappresentazione di un'amicizia infantile la cui innocenza sta nel totale disinteresse verso lo sguardo esterno e nell'essere perfettamente compiuta in sé stessa; lo sguardo altrui come elemento centrale del passaggio dall'infanzia all'adolescenza, che porta con sé la necessità di essere accettati, di omologarsi, di corrispondere alle aspettative; la cesura emotiva e verbale che l'io adolescente vive e che all'improvviso lo costringe a rivedere i propri sentimenti sotto una nuova luce togliendogli completamente le parole per raccontarsi a sé stesso e agli altri; l'affacciarsi del senso di colpa e del peso della responsabilità, nonché del dolore, e la difficoltà di farsene carico e di accettarli, che è la sfida cui continuamente siamo chiamati in età adulta. In questo senso nel film c'è una forte cesura tra i coetanei di Leo e Remi, 'emotivamente inetti' nei modi più vari, e gli adulti (a partire dal fratello di Leo fino ad arrivare ai genitori di Remi, in particolare la madre Sophie) che inevitabilmente hanno dovuto imparare con l'età a fare i conti con dolore, dubbi e imperfezioni.
Non è dunque importante se Leo e Remi sono gay e se la loro amicizia non è un'amicizia, ma qualcos'altro. Loro non se lo chiedono fino a quando non sono gli altri a chiederglielo. Dhont ci spinge ancora una volta a riflettere sul fatto che noi per primi iniziamo a chiedercelo e a osservare morbosamente solo quando diventiamo spettatori - e non partecipi - delle vite degli altri.
Alla fine quella di Close è una rappresentazione al contempo lirica e drammatica di un coming of age, in cui più che l'orgoglio della crescita c'è l'infinito dolore del distacco dall'infanzia, non necessariamente spensierata ma emotivamente istintiva, uno strappo che è come quello dei fiori che ogni estate la famiglia di Leo coglie nei campi, dopo averli amorevolmente piantati e coltivati e prima che vengano rimossi dal terreno per prepararlo a una nuova semina. Il fuggevole sguardo indietro di Leo prima di andare avanti nell'ultima sequenza del film è metafora di un tempo che per ciascuno di noi scorre solo in avanti, pur funzionando in cicli di eterno ritorno.
Voto: 4/5
lunedì 16 gennaio 2023
Il corsetto dell’imperatrice
Tra i film recuperati durante le festività natalizie c’è l’ultimo lavoro di Marie Kreutzer, dedicato a Elisabetta di Baviera, la famosa Sissi, moglie di Francesco Giuseppe d’Austria.
Tutti noi abbiamo conosciuto Sissi attraverso la serie di film interpretati da Romy Schneider e ce ne siamo fatti l’idea di una imperatrice di grande bellezza, eleganza e generosità.
Il personaggio di Elisabetta però – a quanto ci tramandano le fonti storiche – è molto più controverso e complesso di quanto i film con la Schneider ci abbiano trasmesso.
È proprio in questi spazi di complessità che si colloca il film della Kreutzer che dunque ci restituisce un’immagine di Elisabetta molto più sfaccettata e volutamente anacronistica nella sua modernità.
Un po’ come nel film Miss Marx della Nicchiarelli, la Kreutzer applica alla realtà storica elementi (del contesto ambientale e psicologici) che non appartengono a quell’epoca per portare all’evidenza alcuni aspetti simbolici di questa figura e proporre una “ennesima” riflessione sul ruolo delle donne, in particolare in posizioni apicali ma subalterne come nel suo caso.
Dico “ennesima” perché appunto non molto prima di questo film e con intenti in qualche modo similari si sono visti il già citato Miss Marx e Spencer di Larraìn. E inevitabilmente durante la visione del film della Kreutzer il pensiero va inevitabilmente agli altri.
Ciò detto, Il corsetto dell’imperatrice è un film ben fatto e decisamente affascinante. Parte del merito va a Vicky Krieps, splendida interprete di Elisabetta, che ben riesce a condensare la sofferenza, il fastidio, le ossessioni, gli umori altalenanti dell’imperatrice ormai quarantenne e inevitabilmente avviata sulla via della “vecchiaia”, secondo gli standard dell’epoca.
Elisabetta non vuole rinunciare alla sua magrezza (ai limiti dell’anoressia) e agli apprezzamenti per la sua bellezza, che cura fino allo sfinimento. Ma la sofferenza va oltre l’ossessione per l’aspetto fisico e per l’età che avanza, e riguarda anche da un lato la marginalità rispetto alla gestione dell’impero, il desiderio di conoscere e impegnarsi attivamente negli affari interni, dall’altro la relazione con il marito Francesco Giuseppe, il ruolo di madre, il rapporto con la sorella, con il cugino Ludwig e con le cortigiane. Elisabetta sa essere estremamente generosa ed empatica, ma anche profondamente manipolatrice e irrispettosa della vita degli altri.
Il finale – assolutamente antistorico – è il suggello che la Kreutzer pone alla vita di una donna divisa tra dovere e piacere, e rispetto alla quale il corsetto ch’ella desidera sempre più stretto è simbolo della contraddizione profonda che la caratterizza.
Le musiche di Camille (in particolare la bellissima She was) – anch’esse totalmente estranee al periodo storico e pienamente moderne – sono però perfette nell’aggiungere pathos e senso a una vita che, come quella di molte altre donne nella storia, ha dovuto adeguarsi alle imposizioni e alle regole del tempo.
Voto: 3,5/5
Tutti noi abbiamo conosciuto Sissi attraverso la serie di film interpretati da Romy Schneider e ce ne siamo fatti l’idea di una imperatrice di grande bellezza, eleganza e generosità.
Il personaggio di Elisabetta però – a quanto ci tramandano le fonti storiche – è molto più controverso e complesso di quanto i film con la Schneider ci abbiano trasmesso.
È proprio in questi spazi di complessità che si colloca il film della Kreutzer che dunque ci restituisce un’immagine di Elisabetta molto più sfaccettata e volutamente anacronistica nella sua modernità.
Un po’ come nel film Miss Marx della Nicchiarelli, la Kreutzer applica alla realtà storica elementi (del contesto ambientale e psicologici) che non appartengono a quell’epoca per portare all’evidenza alcuni aspetti simbolici di questa figura e proporre una “ennesima” riflessione sul ruolo delle donne, in particolare in posizioni apicali ma subalterne come nel suo caso.
Dico “ennesima” perché appunto non molto prima di questo film e con intenti in qualche modo similari si sono visti il già citato Miss Marx e Spencer di Larraìn. E inevitabilmente durante la visione del film della Kreutzer il pensiero va inevitabilmente agli altri.
Ciò detto, Il corsetto dell’imperatrice è un film ben fatto e decisamente affascinante. Parte del merito va a Vicky Krieps, splendida interprete di Elisabetta, che ben riesce a condensare la sofferenza, il fastidio, le ossessioni, gli umori altalenanti dell’imperatrice ormai quarantenne e inevitabilmente avviata sulla via della “vecchiaia”, secondo gli standard dell’epoca.
Elisabetta non vuole rinunciare alla sua magrezza (ai limiti dell’anoressia) e agli apprezzamenti per la sua bellezza, che cura fino allo sfinimento. Ma la sofferenza va oltre l’ossessione per l’aspetto fisico e per l’età che avanza, e riguarda anche da un lato la marginalità rispetto alla gestione dell’impero, il desiderio di conoscere e impegnarsi attivamente negli affari interni, dall’altro la relazione con il marito Francesco Giuseppe, il ruolo di madre, il rapporto con la sorella, con il cugino Ludwig e con le cortigiane. Elisabetta sa essere estremamente generosa ed empatica, ma anche profondamente manipolatrice e irrispettosa della vita degli altri.
Il finale – assolutamente antistorico – è il suggello che la Kreutzer pone alla vita di una donna divisa tra dovere e piacere, e rispetto alla quale il corsetto ch’ella desidera sempre più stretto è simbolo della contraddizione profonda che la caratterizza.
Le musiche di Camille (in particolare la bellissima She was) – anch’esse totalmente estranee al periodo storico e pienamente moderne – sono però perfette nell’aggiungere pathos e senso a una vita che, come quella di molte altre donne nella storia, ha dovuto adeguarsi alle imposizioni e alle regole del tempo.
Voto: 3,5/5
giovedì 12 gennaio 2023
The Fabelmans
Premessa: sono andata a vedere il film di Spielberg doppiato, ma voi per favore non fatelo! Significa perdersi metà del piacere. Ciò detto, superato lo shock iniziale del doppiaggio, mi sono tuffata dentro The Fabelmans con grandi aspettative ma senza aver letto niente di specifico, per non rovinarmi la sorpresa.
Sapevo che si tratta di un omaggio al cinema, ma ho scoperto solo guardando il film che si tratta di un’autobiografia del regista, in particolare del modo in cui ha intrapreso la strada del cinema.
Dopo le due ore e mezza di film (che - dirò la verità - avrebbero potuto anche essere parzialmente alleggerite) ho solo un pensiero in testa: si tratta del film di un “vecchio” regista per il quale è arrivato quel momento – a cui pochissimi riescono a sfuggire – in cui fare i conti con il proprio passato, ricordare da dove si viene e rendere omaggio a coloro che hanno avuto un ruolo nella nostra vita.
L’alter ego di Spielberg nel film è Sam Fabelman (interpretato nella fase dell’adolescenza da Gabriel La Belle), figlio di un ingegnere molto dotato, Burt (Paul Dano), e di una pianista che ha rinunciato alla carriera per la famiglia, Mitsi (Michelle Williams). In famiglia altre tre sorelle, e un amico del padre, Benny (Seth Rogen), che i bambini chiamano zio per la sua onnipresenza nella vita familiare.
Sapevo che si tratta di un omaggio al cinema, ma ho scoperto solo guardando il film che si tratta di un’autobiografia del regista, in particolare del modo in cui ha intrapreso la strada del cinema.
Dopo le due ore e mezza di film (che - dirò la verità - avrebbero potuto anche essere parzialmente alleggerite) ho solo un pensiero in testa: si tratta del film di un “vecchio” regista per il quale è arrivato quel momento – a cui pochissimi riescono a sfuggire – in cui fare i conti con il proprio passato, ricordare da dove si viene e rendere omaggio a coloro che hanno avuto un ruolo nella nostra vita.
L’alter ego di Spielberg nel film è Sam Fabelman (interpretato nella fase dell’adolescenza da Gabriel La Belle), figlio di un ingegnere molto dotato, Burt (Paul Dano), e di una pianista che ha rinunciato alla carriera per la famiglia, Mitsi (Michelle Williams). In famiglia altre tre sorelle, e un amico del padre, Benny (Seth Rogen), che i bambini chiamano zio per la sua onnipresenza nella vita familiare.
Tutto comincia quando Burt e Mitsi portano Sam al cinema per la prima volta a vedere il film Il più grande spettacolo del mondo, durante la visione del quale il bambino resta impressionato dalla scena dell’incidente tra i due treni e la macchina, cosicché quando gli verrà regalato un trenino elettrico e una prima cinepresa Sam comincerà a ricostruire l’incidente su pellicola per superare il trauma psicologico.
Da qui in poi la passione di Sam per il cinema procede in parallelo con la storia della sua famiglia, nella quale il padre scienziato riceve sempre più promozioni costringendo la famiglia a spostarsi prima in Arizona poi in California, mentre Mitsi si fa sempre più sofferente perché costretta nel ruolo di moglie e madre fino alla deflagrazione seguita al trasferimento in California, dove l’amico Benny non può seguirli.
Sarà proprio Sam, nel montare un filmino di un campeggio, ad accorgersi che tra la madre e Benny c’è di più di un’amicizia e che la sofferenza della madre è fondamentalmente dovuta all’allontanamento dall’uomo, segreto che pare Spielberg abbia conservato fin qui e non abbia mai rivelato a nessuno prima della morte della madre avvenuta nel 2017.
All’interno di questa storia familiare trovano poi posto molte cose, in certi casi in maniera fin troppo didascalica: l’apprendistato di Sam nella realizzazione dei primi film amatoriali e la sua capacità tecnica e creativa nel raccontare con le immagini in movimento storie sempre più elaborate, l’antisemitismo di cui è vittima soprattutto negli anni del college in California, il conflitto interno alla sua famiglia tra la tecnologia e l’arte (rappresentate rispettivamente da suo padre e sua madre in primis, ma non solo da loro) e la difficoltà di Sam a far riconoscere quello che suo padre e altri vedono come un hobby come una carriera e un lavoro per la vita in cui in fondo tecnica e creatività si fondono. C'è poi il tema sempre presente della costruzione filmica come forma di narrazione che può manipolare e in alcuni casi persino modificare la realtà delle cose. Sicuramente ne viene fuori un film emozionante e per molti versi divertente: soprattutto le parti in cui ci viene raccontato come Sam realizza i primi film amatoriali e come ottiene con soluzioni fantasiose e creative effetti realistici sullo schermo sono davvero godibili. Per altri versi però il film risulta intriso di quella nostalgia un po' retorica che è tipica di una fase avanzata della vita, e finisce per essere inevitabilmente autocelebrativo, trovando il suo apice nell’incontro finale tra Sam e John Ford che – pur giocato in modo ironico – vien presentato come un ideale passaggio di consegne tra i due.
Un film fatto con la solita maestria di Spielberg, grande regista di attori – soprattutto bambini - che per il tono e lo spirito mi ha ricordato parecchio l’ultimo di Branagh, Belfast.
Sicuramente questo film aggiunge un tassello più personale e sentito alla ricca e variegata filmografia del maestro, senza però spostare il giudizio complessivo sulla sua carriera, realmente innovativa soprattutto in altri precedenti e primordiali lavori.
Voto: 3,5/5
Da qui in poi la passione di Sam per il cinema procede in parallelo con la storia della sua famiglia, nella quale il padre scienziato riceve sempre più promozioni costringendo la famiglia a spostarsi prima in Arizona poi in California, mentre Mitsi si fa sempre più sofferente perché costretta nel ruolo di moglie e madre fino alla deflagrazione seguita al trasferimento in California, dove l’amico Benny non può seguirli.
Sarà proprio Sam, nel montare un filmino di un campeggio, ad accorgersi che tra la madre e Benny c’è di più di un’amicizia e che la sofferenza della madre è fondamentalmente dovuta all’allontanamento dall’uomo, segreto che pare Spielberg abbia conservato fin qui e non abbia mai rivelato a nessuno prima della morte della madre avvenuta nel 2017.
All’interno di questa storia familiare trovano poi posto molte cose, in certi casi in maniera fin troppo didascalica: l’apprendistato di Sam nella realizzazione dei primi film amatoriali e la sua capacità tecnica e creativa nel raccontare con le immagini in movimento storie sempre più elaborate, l’antisemitismo di cui è vittima soprattutto negli anni del college in California, il conflitto interno alla sua famiglia tra la tecnologia e l’arte (rappresentate rispettivamente da suo padre e sua madre in primis, ma non solo da loro) e la difficoltà di Sam a far riconoscere quello che suo padre e altri vedono come un hobby come una carriera e un lavoro per la vita in cui in fondo tecnica e creatività si fondono. C'è poi il tema sempre presente della costruzione filmica come forma di narrazione che può manipolare e in alcuni casi persino modificare la realtà delle cose. Sicuramente ne viene fuori un film emozionante e per molti versi divertente: soprattutto le parti in cui ci viene raccontato come Sam realizza i primi film amatoriali e come ottiene con soluzioni fantasiose e creative effetti realistici sullo schermo sono davvero godibili. Per altri versi però il film risulta intriso di quella nostalgia un po' retorica che è tipica di una fase avanzata della vita, e finisce per essere inevitabilmente autocelebrativo, trovando il suo apice nell’incontro finale tra Sam e John Ford che – pur giocato in modo ironico – vien presentato come un ideale passaggio di consegne tra i due.
Un film fatto con la solita maestria di Spielberg, grande regista di attori – soprattutto bambini - che per il tono e lo spirito mi ha ricordato parecchio l’ultimo di Branagh, Belfast.
Sicuramente questo film aggiunge un tassello più personale e sentito alla ricca e variegata filmografia del maestro, senza però spostare il giudizio complessivo sulla sua carriera, realmente innovativa soprattutto in altri precedenti e primordiali lavori.
Voto: 3,5/5
lunedì 9 gennaio 2023
Le verdi colline dell'Africa / con Sabina Guzzanti e Giorgio Tirabassi. Teatro Ambra Jovinelli, 15 dicembre 2022
Quello di Guzzanti e Tirabassi è uno spettacolo in cui si svela la finzione teatrale, facendo finta di superarla, nella consapevolezza - esplicitata - che qualunque cosa accada su un palco è una recita.
Il tutto presentato con un titolo, Le verdi colline dell'Africa, che subito ci viene detto non essere l'oggetto dello spettacolo, mentre invece la Guzzanti dichiara di ispirarsi a un testo classico del teatro, che è Insulti al pubblico di Peter Handke. E del resto tutto comincia prima che il sipario si apra, con i due attori che chiacchierano (sonorizzati) dietro le quinte, sostanzialmente parlando male del pubblico.
Detto così, potrebbe essere un esperimento interessante, e il tutto potrebbe prestarsi a una lettura raffinata e sottile.
Peccato che poi il risultato sia tutto fuorché raffinato e sottile. È chiaro che si tratta di una scelta. Però personalmente mi sento autorizzata a dire che in definitiva lo spettacolo non solo non ci dice nulla di nuovo, persino nelle sue divagazioni oltre che nel suo concetto essenziale, ma anche quello che di vecchio ha da dire lo dice secondo me in maniera sciatta e poco interessante.
Ogni tanto si ride, ma le finte reazioni e voci del pubblico producono forme di straniamento (probabilmente volute) e l'interazione tra Guzzanti e Tirabassi sul palco appare faticosa e poco credibile.
Il mio giudizio finale non è dunque positivo, ma come sapete tendo a mantenermi cauta, perché non sono una professionista di nulla e quindi mantengo sempre il dubbio che mi sia sfuggito qualcosa.
Voto: 2/5
Il tutto presentato con un titolo, Le verdi colline dell'Africa, che subito ci viene detto non essere l'oggetto dello spettacolo, mentre invece la Guzzanti dichiara di ispirarsi a un testo classico del teatro, che è Insulti al pubblico di Peter Handke. E del resto tutto comincia prima che il sipario si apra, con i due attori che chiacchierano (sonorizzati) dietro le quinte, sostanzialmente parlando male del pubblico.
Detto così, potrebbe essere un esperimento interessante, e il tutto potrebbe prestarsi a una lettura raffinata e sottile.
Peccato che poi il risultato sia tutto fuorché raffinato e sottile. È chiaro che si tratta di una scelta. Però personalmente mi sento autorizzata a dire che in definitiva lo spettacolo non solo non ci dice nulla di nuovo, persino nelle sue divagazioni oltre che nel suo concetto essenziale, ma anche quello che di vecchio ha da dire lo dice secondo me in maniera sciatta e poco interessante.
Ogni tanto si ride, ma le finte reazioni e voci del pubblico producono forme di straniamento (probabilmente volute) e l'interazione tra Guzzanti e Tirabassi sul palco appare faticosa e poco credibile.
Il mio giudizio finale non è dunque positivo, ma come sapete tendo a mantenermi cauta, perché non sono una professionista di nulla e quindi mantengo sempre il dubbio che mi sia sfuggito qualcosa.
Voto: 2/5
giovedì 5 gennaio 2023
Furore / dal romanzo di John Steinbeck, di e con Massimo Popolizio. Teatro Argentina, 13 dicembre 2022
Insisto ad andare a vedere gli spettacoli di Popolizio perché continuo a considerarlo una fonte pressoché inesauribile di proposte e idee che hanno l'indubitabile merito di portare - o riportare, a seconda dei casi - all'attenzione del pubblico testi importanti, contemporanei e non.
Nel caso di Furore di Steinbeck, l'interesse di Popolizio risale indietro nel tempo e negli ultimi due anni il regista e attore si è dedicato alla messa a punto di uno spettacolo che per brevità descriverò come una lettura drammatizzata e sonorizzata.
Popolizio riparte dall'indagine giornalistica che lo stesso Steinbeck portò avanti per conto del San Francisco News sul tema dell'esodo di massa verso la California dei contadini dell'Ohio e dell'Oklahoma dopo le alluvioni di sabbia che avevano colpito le loro case e le loro terre. Fu infatti proprio a partire da questa indagine che l'autore ebbe poi l'idea di scrivere il romanzo diventato un classico della letteratura mondiale.
La lettura di Popolizio - che si avvale dell'adattamento per la scena del bravissimo Emanuele Trevi - è valorizzata da un lato dalla sonorizzazione dal vivo di Giovanni Lo Cascio (in particolare con l'uso delle percussioni ma non solo) e dall'altro dalla proiezione sul fondo dello schermo delle fotografie dell'epoca e di brevi video (credo in parte almeno tratti dal film di John Ford). Le parole di Steinbeck diventano così suoni e immagini, e acquistano una tridimensionalità e una pastosità che si appiccicano addosso all'ascoltatore.
Tutto ciò di per sé stesso basterebbe. Anche perché alla base c'è un testo potentissimo nel quale i richiami alle migrazioni del tempo presente, alle storture del capitalismo e della finanza, alle superficialità della politica si sprecano.
A Popolizio però tutto questo non basta e ci mette del suo. L'inizio della lettura è quasi scioccante per quanto è caricata al massimo grado, poi via via ci si fa l'abitudine, ma - almeno per quanto mi riguarda - resta l'impressione che sia troppo e che meno sarebbe andato benissimo. Ma Popolizio non è contento se non può fare Popolizio (qui talvolta sembra un po' Lucio Dalla, altre volte un po' Paolo Conte), e anche quando sale sul palco per ringraziare il pubblico sembra stare ancora recitando. Il che probabilmente vuol dire che ormai il confine tra recita e vita è diventato in lui sempre più labile.
Ciò detto, lo spettacolo è bello, il testo è grandiosamente adattato, oltre a essere potente di suo, la costruzione è interessante. E dunque anche questa volta Popolizio lo si perdona ;-)
Poi dopo lo spettacolo si può anche vedere la mostra fotografica delle immagini realizzate con grande empatia da Walker Evans, Dorothea Lange e altri su questo esodo dei contadini, immagini stampate a partire dalle collezioni fotografiche della Library of Congress di Washington.
Voto: 3,5/5
Nel caso di Furore di Steinbeck, l'interesse di Popolizio risale indietro nel tempo e negli ultimi due anni il regista e attore si è dedicato alla messa a punto di uno spettacolo che per brevità descriverò come una lettura drammatizzata e sonorizzata.
Popolizio riparte dall'indagine giornalistica che lo stesso Steinbeck portò avanti per conto del San Francisco News sul tema dell'esodo di massa verso la California dei contadini dell'Ohio e dell'Oklahoma dopo le alluvioni di sabbia che avevano colpito le loro case e le loro terre. Fu infatti proprio a partire da questa indagine che l'autore ebbe poi l'idea di scrivere il romanzo diventato un classico della letteratura mondiale.
La lettura di Popolizio - che si avvale dell'adattamento per la scena del bravissimo Emanuele Trevi - è valorizzata da un lato dalla sonorizzazione dal vivo di Giovanni Lo Cascio (in particolare con l'uso delle percussioni ma non solo) e dall'altro dalla proiezione sul fondo dello schermo delle fotografie dell'epoca e di brevi video (credo in parte almeno tratti dal film di John Ford). Le parole di Steinbeck diventano così suoni e immagini, e acquistano una tridimensionalità e una pastosità che si appiccicano addosso all'ascoltatore.
Tutto ciò di per sé stesso basterebbe. Anche perché alla base c'è un testo potentissimo nel quale i richiami alle migrazioni del tempo presente, alle storture del capitalismo e della finanza, alle superficialità della politica si sprecano.
A Popolizio però tutto questo non basta e ci mette del suo. L'inizio della lettura è quasi scioccante per quanto è caricata al massimo grado, poi via via ci si fa l'abitudine, ma - almeno per quanto mi riguarda - resta l'impressione che sia troppo e che meno sarebbe andato benissimo. Ma Popolizio non è contento se non può fare Popolizio (qui talvolta sembra un po' Lucio Dalla, altre volte un po' Paolo Conte), e anche quando sale sul palco per ringraziare il pubblico sembra stare ancora recitando. Il che probabilmente vuol dire che ormai il confine tra recita e vita è diventato in lui sempre più labile.
Ciò detto, lo spettacolo è bello, il testo è grandiosamente adattato, oltre a essere potente di suo, la costruzione è interessante. E dunque anche questa volta Popolizio lo si perdona ;-)
Poi dopo lo spettacolo si può anche vedere la mostra fotografica delle immagini realizzate con grande empatia da Walker Evans, Dorothea Lange e altri su questo esodo dei contadini, immagini stampate a partire dalle collezioni fotografiche della Library of Congress di Washington.
Voto: 3,5/5
martedì 3 gennaio 2023
La California
Nel non tantissimo che offre il cinema nella prima metà di dicembre io e S. decidiamo di andare a vedere questo - tutto sommato piccolo - film italiano, anzi sarebbe meglio dire modenese, visto che La California del titolo è una frazione del comune modenese di Castelfranco Emilia.
Il film di Cinzia Bomoll è un piccolo thriller: racconta la storia di due sorelle gemelle, Ester e Alice (Silvia e Giulia Provvedi, per me sconosciute, ma che ho scoperto avere vari trascorsi musicali e soprattutto televisivi), figlie avute da una madre troppo giovane e destinata alla depressione (Eleonora Giovanardi) e da un padre eterno punk adolescente (Lodo Guenzi). Le due bambine, poi ragazze si muovono all'interno di questo piccolissimo paese di provincia con quei sentimenti contraddittori che tipicamente caratterizzano le persone che abitano quei posti che sono al contempo molto protettivi ma anche molto chiusi, e da cui si vuole scappare, ma a cui si è anche visceralmente legati. L'arrivo in paese di un cileno fuggito dalla dittatura e del suo giovane figlio innesca una catena di eventi che non potrà che avere un esito tragico, come del resto non era difficile prevedere fin dalle prime battute della voce narrante (Piera Degli Esposti), figura fantasmatica coperta di nero che compare nei momenti cruciali della narrazione.
Il film ha un sicuro merito: quello di riuscire a rendere perfettamente l'atmosfera immobile della provincia e l'inquietudine della comunità che la abita. In provincia esiste la stessa varietà di situazioni che abita altri luoghi, ma con la differenza che qui è sotto gli occhi di tutti e viene masticata collettivamente fino a risultare componente non anomala del tessuto sociale, anche lì dove venga sbeffeggiata o stigmatizzata.
Da questo punto di vista molti elementi del film sono credibili e colpiscono nel segno.
Narrativamente però il film risulta un po' debole, e alcune trovate registiche appaiono quasi scolastiche, così come la recitazione di alcuni degli attori, ad esempio le due ragazze, risulta davvero legnosa e a tratti fastidiosa.
Un film che certamente non ha grandi ambizioni e non vuole essere pretenzioso, ma che fa egregiamente il suo, pur con qualche riconoscibile e forse inevitabile limite.
Voto: 3/5
Il film di Cinzia Bomoll è un piccolo thriller: racconta la storia di due sorelle gemelle, Ester e Alice (Silvia e Giulia Provvedi, per me sconosciute, ma che ho scoperto avere vari trascorsi musicali e soprattutto televisivi), figlie avute da una madre troppo giovane e destinata alla depressione (Eleonora Giovanardi) e da un padre eterno punk adolescente (Lodo Guenzi). Le due bambine, poi ragazze si muovono all'interno di questo piccolissimo paese di provincia con quei sentimenti contraddittori che tipicamente caratterizzano le persone che abitano quei posti che sono al contempo molto protettivi ma anche molto chiusi, e da cui si vuole scappare, ma a cui si è anche visceralmente legati. L'arrivo in paese di un cileno fuggito dalla dittatura e del suo giovane figlio innesca una catena di eventi che non potrà che avere un esito tragico, come del resto non era difficile prevedere fin dalle prime battute della voce narrante (Piera Degli Esposti), figura fantasmatica coperta di nero che compare nei momenti cruciali della narrazione.
Il film ha un sicuro merito: quello di riuscire a rendere perfettamente l'atmosfera immobile della provincia e l'inquietudine della comunità che la abita. In provincia esiste la stessa varietà di situazioni che abita altri luoghi, ma con la differenza che qui è sotto gli occhi di tutti e viene masticata collettivamente fino a risultare componente non anomala del tessuto sociale, anche lì dove venga sbeffeggiata o stigmatizzata.
Da questo punto di vista molti elementi del film sono credibili e colpiscono nel segno.
Narrativamente però il film risulta un po' debole, e alcune trovate registiche appaiono quasi scolastiche, così come la recitazione di alcuni degli attori, ad esempio le due ragazze, risulta davvero legnosa e a tratti fastidiosa.
Un film che certamente non ha grandi ambizioni e non vuole essere pretenzioso, ma che fa egregiamente il suo, pur con qualche riconoscibile e forse inevitabile limite.
Voto: 3/5
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