Era da un po' che non andavo al cinema. Le ultime settimane (per non dire mesi) sono state parecchio pesanti e il tempo e la voglia per il cinema si erano ridimensionati.
Decido dunque di ritornare in sala per un film effervescente, senza essere superficiale, ossia Wild nights with Emily, con cui la regista Madeleine Olnek, anche a partire da alcuni lavori di ricerca che sono stati condotti sull'enorme corpus delle lettere, ha voluto restituire verità storica alla figura a lungo malintesa della grande poetessa Emily Dickinson.
In questo film Emily (argutamente interpretata da Molly Shannon) non è la donna autoreclusa in casa, sola e pessimista che la tradizione - o almeno una parte di essa - ci ha voluto tramandare, bensì una donna che nella vita ha amato ed è stata riamata, in particolare dall'amica e poi cognata Susan Gilbert.
A lei la Dickinson scrisse oltre 300 lettere e dedicò molteplici poesie, ma la storia e il film raccontano che Mabel Todd, la donna che aveva una relazione con il fratello di Emily e che insieme a Higginson per prima pubblicò le sue poesie, intervenne personalmente a cancellare il nome di Sue dalle carte e contribuì in maniera significativa a costruire l'immagine di una donna infelice, isolata e non interessata a far conoscere la sua opera.
È proprio a partire dalle lettere e dalle poesie che la regista del film racconta - non senza una certa ironia - non solo la lunga relazione tra Emily e Sue, nonché le gelosie e gli allontanamenti (tutti sentimenti vissuti nello spazio ristretto delle due case contigue che le due abitavano), ma anche il ruolo giocato da Mabel Todd che certamente contribuì alla fortuna letteraria postuma della Dickinson ma anche alla costruzione di un'immagine della stessa quanto meno inesatta.
Guardando il film si ride e si sorride di quest'America puritana in cui le apparenze erano così lontane dalla realtà, e si riflette anche sul destino di una poetessa totalmente incompresa dai suoi contemporanei (solo pochissime delle sue poesie furono pubblicate mentre era in vita, nonostante il desiderio di Emily di vedere riconosciuto il suo talento). Il confronto con le poetesse riconosciute tali al tempo fa spiccare in maniera incontrovertibile la modernità senza tempo della poesia di Emily, che - come accade ai grandi geni - era troppo proiettata in avanti per poter essere compresa.
Il film della Olnek è una commedia divertita e a tratti un pochino confusa, che però ci restituisce empatia per questa donna e colloca finalmente i suoi versi immortali in una narrazione più completa e tridimensionale. La sua visione in un certo senso ci rasserena anche sul fatto che si può essere straordinari talenti senza essere necessariamente condannati all'infelicità, ma avendo vissuto una vita imperfetta certo, ma a suo modo piena di affetto e di affetti.
Voto: 3,5/5
giovedì 23 giugno 2022
martedì 21 giugno 2022
Ti amo / Hanne Ørstavik
Ti amo / Hanne Ørstavik; trad. di Ingrid Basso. Milano: Ponte alle Grazie, 2021.
Hanne Ørstavik è una scrittrice norvegese venuta a vivere in Italia per stare insieme all'uomo con cui aveva costruito una storia d'amore e che poi sarebbe diventato suo marito, Luigi Spagnol.
In questo breve scritto la Ørstavik ci racconta l'esperienza dolorosa e intraducibile rappresentata dallo stare insieme a un uomo che scopre di aver un cancro allo stato terminale e di stare per morire.
Ti amo è l'espressione che Hanne e Luigi si scambiano frequentemente, racchiudendo al suo interno tutto quello che non sono capaci di dirsi, né di dire a sé stessi. Luigi evita in ogni modo il discorso della morte, o forse davvero cerca di non pensarci o non ci pensa, ma la morte è una presenza costante cui Hanne non riesce a sottrarsi e che si infila rapidamente in ogni meandro della loro esistenza.
Cosa vuol dire stare con un uomo che non riesce più a fare tutto quello che ha sempre amato, che sta perdendo rapidamente quell'energia vitale che è stata il collante della coppia? Cosa vuol dire continuare ad amare quest'uomo, attenuando anche la propria di energia vitale per poter essere al passo con lui e non lasciarlo indietro?
Sono domande che Hanne si fa e che forse non hanno risposte univoche, o forse che è la vita stessa con la sua potenza ad imporre anche contro la nostra volontà.
Personalmente ho sentito sotto la pelle la sofferenza della scrittrice, i suoi sensi di colpa, il suo amore e la lotta quotidiana per mantenersi in piedi, e inevitabilmente sono uscita da questa lettura provata e con un peso sul cuore di cui ho fatto fatica a liberarmi nei giorni seguenti.
Non so se questo libro per la Ørstavik sia stato una ineludibile necessità da scrittrice che non ha altro che la scrittura e le parole per affrontare le cose troppo grandi oppure una specie di calvario parallelo a quello di Luigi, cui si è voluta volontariamente sottoporre per sentirsi più vicina a lui e anche per dare un senso a quanto le è successo.
Una lettura dolorosa e non facile, da non affrontare a cuor leggero come ho fatto io.
Un appunto finale: qualche refuso di troppo in un libro come questo mi ha generato un pochino di fastidio.
Voto: 3,5/5
Hanne Ørstavik è una scrittrice norvegese venuta a vivere in Italia per stare insieme all'uomo con cui aveva costruito una storia d'amore e che poi sarebbe diventato suo marito, Luigi Spagnol.
In questo breve scritto la Ørstavik ci racconta l'esperienza dolorosa e intraducibile rappresentata dallo stare insieme a un uomo che scopre di aver un cancro allo stato terminale e di stare per morire.
Ti amo è l'espressione che Hanne e Luigi si scambiano frequentemente, racchiudendo al suo interno tutto quello che non sono capaci di dirsi, né di dire a sé stessi. Luigi evita in ogni modo il discorso della morte, o forse davvero cerca di non pensarci o non ci pensa, ma la morte è una presenza costante cui Hanne non riesce a sottrarsi e che si infila rapidamente in ogni meandro della loro esistenza.
Cosa vuol dire stare con un uomo che non riesce più a fare tutto quello che ha sempre amato, che sta perdendo rapidamente quell'energia vitale che è stata il collante della coppia? Cosa vuol dire continuare ad amare quest'uomo, attenuando anche la propria di energia vitale per poter essere al passo con lui e non lasciarlo indietro?
Sono domande che Hanne si fa e che forse non hanno risposte univoche, o forse che è la vita stessa con la sua potenza ad imporre anche contro la nostra volontà.
Personalmente ho sentito sotto la pelle la sofferenza della scrittrice, i suoi sensi di colpa, il suo amore e la lotta quotidiana per mantenersi in piedi, e inevitabilmente sono uscita da questa lettura provata e con un peso sul cuore di cui ho fatto fatica a liberarmi nei giorni seguenti.
Non so se questo libro per la Ørstavik sia stato una ineludibile necessità da scrittrice che non ha altro che la scrittura e le parole per affrontare le cose troppo grandi oppure una specie di calvario parallelo a quello di Luigi, cui si è voluta volontariamente sottoporre per sentirsi più vicina a lui e anche per dare un senso a quanto le è successo.
Una lettura dolorosa e non facile, da non affrontare a cuor leggero come ho fatto io.
Un appunto finale: qualche refuso di troppo in un libro come questo mi ha generato un pochino di fastidio.
Voto: 3,5/5
venerdì 17 giugno 2022
Giorni felici / Zuzu
Giorni felici / Zuzu. Roma: Coconino Press - Fandango, 2021.
Dell'ultimo graphic novel di Zuzu (al secolo Giulia Spagnulo, giovane fumettista salernitana) avevo sentito parlare in ogni dove, cosicché mi sono detta che dovevo assolutamente leggerlo. Così, in un sonnacchioso e addivanato pomeriggio pasquale ho dunque preso in mano il tomone e l'ho letto tutto d'un fiato.
Al centro del racconto c'è Claudia, una giovane donna nel cui passato c'è un amore assoluto ma tossico con Giorgio, informatico e bassista parecchio più grande di lei, e nel cui presente c'è invece l'amore sincero e pacifico di Piero, un coetaneo che vive ancora con i genitori. Quando Claudia parte per andare a Roma a fare un provino nel quale reciterà una parte del monologo Giorni felici di Samuel Beckett, l'incontro casuale con Giorgio riporta tutto a galla e costringe la ragazza a fare i conti con quello che è stato e a cercare dentro di sé una composizione.
Zuzu - come molti altri fumettisti italiani - attinge al proprio vissuto per raccontare una storia che vuole però andare al di là del particolare e del soggettivo e diventare capace di parlare a tutti.
La giovane fumettista salernitana lo fa in maniera originale, sia dal punto di vista delle scelte grafiche (con un tratto quasi naif e l'uso di colori pastello acceso che ricordano quasi il fauvismo) sia dal punto di vista narrativo (la protagonista è una specie di freak, dal momento che di fronte alle emozioni più forti si trasforma in un essere parzialmente animalesco, dotato di coda, artigli, zanne e ali).
Quella raccontata da Zuzu - pur essendo una storia se vogliamo tutto sommato ordinaria da tanti punti di vista - riesce a conquistare il lettore per l'incisività con cui tratteggia sentimenti e stati d'animo, sostenuti non solo dalla scelta grafica ma anche dal tipo di inquadrature e dal "montaggio" delle tavole.
Il "lieto fine" in cui si stemperano tutte le tensioni della narrazione, pur riconciliante anche per il lettore, appare narrativamente un po' affrettato e non regge il confronto con il ritmo della narrazione che per tutto il libro si prende tutto il tempo che ritiene necessario.
Non ho ancora letto il primo graphic novel dell'autrice, Cheese (la sua tesi di laurea allo IED), pare fortemente influenzato dal tratto di Gipi, l'autore che - attraverso La mia vita disegnata male - ha determinato l'agnizione di Giulia nei confronti del fumetto.
Dell'ultimo graphic novel di Zuzu (al secolo Giulia Spagnulo, giovane fumettista salernitana) avevo sentito parlare in ogni dove, cosicché mi sono detta che dovevo assolutamente leggerlo. Così, in un sonnacchioso e addivanato pomeriggio pasquale ho dunque preso in mano il tomone e l'ho letto tutto d'un fiato.
Al centro del racconto c'è Claudia, una giovane donna nel cui passato c'è un amore assoluto ma tossico con Giorgio, informatico e bassista parecchio più grande di lei, e nel cui presente c'è invece l'amore sincero e pacifico di Piero, un coetaneo che vive ancora con i genitori. Quando Claudia parte per andare a Roma a fare un provino nel quale reciterà una parte del monologo Giorni felici di Samuel Beckett, l'incontro casuale con Giorgio riporta tutto a galla e costringe la ragazza a fare i conti con quello che è stato e a cercare dentro di sé una composizione.
Zuzu - come molti altri fumettisti italiani - attinge al proprio vissuto per raccontare una storia che vuole però andare al di là del particolare e del soggettivo e diventare capace di parlare a tutti.
La giovane fumettista salernitana lo fa in maniera originale, sia dal punto di vista delle scelte grafiche (con un tratto quasi naif e l'uso di colori pastello acceso che ricordano quasi il fauvismo) sia dal punto di vista narrativo (la protagonista è una specie di freak, dal momento che di fronte alle emozioni più forti si trasforma in un essere parzialmente animalesco, dotato di coda, artigli, zanne e ali).
Quella raccontata da Zuzu - pur essendo una storia se vogliamo tutto sommato ordinaria da tanti punti di vista - riesce a conquistare il lettore per l'incisività con cui tratteggia sentimenti e stati d'animo, sostenuti non solo dalla scelta grafica ma anche dal tipo di inquadrature e dal "montaggio" delle tavole.
Il "lieto fine" in cui si stemperano tutte le tensioni della narrazione, pur riconciliante anche per il lettore, appare narrativamente un po' affrettato e non regge il confronto con il ritmo della narrazione che per tutto il libro si prende tutto il tempo che ritiene necessario.
Non ho ancora letto il primo graphic novel dell'autrice, Cheese (la sua tesi di laurea allo IED), pare fortemente influenzato dal tratto di Gipi, l'autore che - attraverso La mia vita disegnata male - ha determinato l'agnizione di Giulia nei confronti del fumetto.
Se dunque Cheese è fortemente debitore nei confronti del fumettista toscano, con Giorni felici Zuzu trova un'ispirazione molto più personale sia nella storia che nel disegno.
Nel tempo sono diventata un po' allergica ai racconti un po' ombelicali che spesso trovano spazio in fumetti e graphic novel; devo però dire che Zuzu con la sua capacità al contempo di trasfigurare il reale e di rimanerci attaccata riesce a parlare una lingua nuova e certamente molto meno autoreferenziale di quanto non accada spesso con questo tipo di storie, affacciandosi davvero sul confine del linguaggio della letteratura (a fumetti in questo caso).
Voto: 3,5/5
Nel tempo sono diventata un po' allergica ai racconti un po' ombelicali che spesso trovano spazio in fumetti e graphic novel; devo però dire che Zuzu con la sua capacità al contempo di trasfigurare il reale e di rimanerci attaccata riesce a parlare una lingua nuova e certamente molto meno autoreferenziale di quanto non accada spesso con questo tipo di storie, affacciandosi davvero sul confine del linguaggio della letteratura (a fumetti in questo caso).
Voto: 3,5/5
mercoledì 15 giugno 2022
Nella solitudine dei campi di cotone / Bernard-Marie Koltès. Teatro India, 24 maggio 2022
Di Bernard-Marie Koltès io e F. avevamo visto a suo tempo la messa in scena de La notte prima delle foreste, magnificamente interpretato da Pierfrancesco Favino. Già allora, su un testo che avevo apprezzato e che mi aveva preso abbastanza, avevo notato quanto la scrittura di Koltès sia fiorita e sovrabbondante, non necessariamente in senso negativo.
Non a caso i testi di Koltès sono occasioni per importanti prove attoriali, e dunque non mi meraviglia che il bravissimo Lino Musella abbia deciso di accettare questa sfida.
Sul palco insieme a lui Federica Rosellini; il regista Andrea De Rosa ha scelto infatti - in maniera inconsueta - di far interpretare il ruolo del venditore (protagonista, insieme al compratore, del testo di Koltès) a una donna.
Questa è vestita con un abito di scena (tipo da spettacolo in costume), mentre il compratore è vestito in abiti contemporanei, e il dialogo tra i due comincia quando il compratore è fuori dal palco. Nelle interviste, Andrea De Rosa spiega che ha scelto di reinterpretare la merce misteriosa di cui venditore e compratore parlano tra di loro come il teatro stesso, "merce" negata durante il lungo periodo della pandemia e certamente ora oggetto di una nuova contrattazione tra attori/registi e spettatori.
Non so dire se, senza la spiegazione di De Rosa, avrei compreso la lettura data dal regista al testo. Non c'è dubbio però che il testo di Koltès si presti a molte interpretazioni. Di fondo si tratta di una schermaglia verbale tra due persone più che intorno a un oggetto specifico intorno al concetto stesso di desiderio. Venditrice e compratore si cercano, si inseguono, si scambiano i ruoli, si seducono, si manipolano reciprocamente, quasi come fossero su un campo di battaglia in cui nessuno dei due vuole risultare perdente.
Nell'interpretazione di De Rosa alla fine un qualche scambio avviene, e i due protagonisti - contrapposti per tutto lo spettacolo - alla fine sono dallo stesso lato del palco. Che il teatro abbia conquistato ancora una volta il suo pubblico? È ovviamente un auspicio che personalmente condivido.
Nella solitudine dei campi di cotone è un testo complesso - come spesso quelli di Koltès - e non è facile seguirlo con attenzione per l'intera durata dello spettacolo, travolti dal profluvio di parole e dal botta e risposta fulmineo. Resta comunque un'esperienza interessante e consigliabile.
Voto: 3/5
Non a caso i testi di Koltès sono occasioni per importanti prove attoriali, e dunque non mi meraviglia che il bravissimo Lino Musella abbia deciso di accettare questa sfida.
Sul palco insieme a lui Federica Rosellini; il regista Andrea De Rosa ha scelto infatti - in maniera inconsueta - di far interpretare il ruolo del venditore (protagonista, insieme al compratore, del testo di Koltès) a una donna.
Questa è vestita con un abito di scena (tipo da spettacolo in costume), mentre il compratore è vestito in abiti contemporanei, e il dialogo tra i due comincia quando il compratore è fuori dal palco. Nelle interviste, Andrea De Rosa spiega che ha scelto di reinterpretare la merce misteriosa di cui venditore e compratore parlano tra di loro come il teatro stesso, "merce" negata durante il lungo periodo della pandemia e certamente ora oggetto di una nuova contrattazione tra attori/registi e spettatori.
Non so dire se, senza la spiegazione di De Rosa, avrei compreso la lettura data dal regista al testo. Non c'è dubbio però che il testo di Koltès si presti a molte interpretazioni. Di fondo si tratta di una schermaglia verbale tra due persone più che intorno a un oggetto specifico intorno al concetto stesso di desiderio. Venditrice e compratore si cercano, si inseguono, si scambiano i ruoli, si seducono, si manipolano reciprocamente, quasi come fossero su un campo di battaglia in cui nessuno dei due vuole risultare perdente.
Nell'interpretazione di De Rosa alla fine un qualche scambio avviene, e i due protagonisti - contrapposti per tutto lo spettacolo - alla fine sono dallo stesso lato del palco. Che il teatro abbia conquistato ancora una volta il suo pubblico? È ovviamente un auspicio che personalmente condivido.
Nella solitudine dei campi di cotone è un testo complesso - come spesso quelli di Koltès - e non è facile seguirlo con attenzione per l'intera durata dello spettacolo, travolti dal profluvio di parole e dal botta e risposta fulmineo. Resta comunque un'esperienza interessante e consigliabile.
Voto: 3/5
mercoledì 8 giugno 2022
Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia / Enrico Macioci
Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia / Enrico Macioci. Bari: Terrarossa, 2022.
Il dramma di Alfredo Rampi, bambino di 6 anni caduto in un pozzo artesiano il 10 giugno 1981 (ormai 40 anni fa) nella zona di Vermicino e morto qualche giorno dopo a causa del fallimento dei tentativi di salvataggio, è un evento che certamente ha segnato un’epoca, in quanto è stato il primo fatto di cronaca seguito dalla televisione in diretta praticamente 24 ore su 24 con inviati sul posto e trasformato fin dal principio nel racconto di un’emozione collettiva, a partire dallo stesso uso del diminutivo per far riferimento al bambino.
Forse anche per questo, e considerato che le persone della mia generazione a quell’epoca avevano un’età non molto diversa da quella di Alfredo (io avevo 8 anni), che è anche un’età in cui si comincia a fare i conti con le proprie paure, questa vicenda è rimasta nella nostra memoria e nelle nostre viscere come una specie di trauma collettivo, che ancora oggi suscita in tutti noi incubi con cui fare i conti. Si pensi a questo proposito all’inquietante libro di Giuseppe Genna, che pure da quell’evento prende le mosse per raccontare l’orrore dell’Italia post anni Ottanta e contemporanea.
Ebbene, Enrico Macioci parte proprio da questa constatazione per raccontare una storia di fantasia, che all’interno della cornice della vicenda di Alfredo, parla di un altro bambino di sei anni, Francesco, e del suo amico Christian, che in quegli stessi giorni – dopo aver giocato con lui – sparisce nel nulla.
Mentre dunque il bambino è bombardato dalle dirette televisive che gli fanno scoprire che anche a 6 anni il destino può metterti davanti la possibilità di morire, Francesco deve fare i conti con la sparizione di Christian e con quello che può essergli accaduto, mentre il mondo degli adulti da un lato si rivolge a lui in cerca di lumi in quanto ultimo testimone, dall’altro non lo prende veramente sul serio. Destino questo piuttosto tipico per i bambini, oggetto di mille attenzioni, ma anche talvolta di scarsa considerazione, se non addirittura sottovalutati o ignorati.
Il narratore di questa storia, che è lo stesso Francesco ormai adulto, ricorda quei giorni angoscianti della sua infanzia, l’incontro con la paura e con la morte, la presa di coscienza di non potersi fidare degli adulti, e le numerose domande che – anche dopo il ritrovamento di Christian – non troveranno risposta né nell’immediato né parecchio tempo dopo.
Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia è la frase che Alfredino, già delirante prima di morire, aveva pronunciato più volte, ma in fondo – come ci dice il narratore – è una inconsapevole metafora di molto altro, e certamente di quella fase della vita che rappresenta il passaggio spesso traumatico tra l’infanzia ‘beata’ e il primo incontro con la durezza e la complessità del mondo.
Che dire? Ho letto il libro di Macioci tutto d’un fiato in un viaggio A/R da Roma a Napoli, e mi è rimasto appiccicato addosso per la pastosità della scrittura e la forza del tema, dentro il quale c’è la grande capacità dello scrittore di interpretare i sentimenti di un sé (per quanto di finzione) bambino.
Un libro certamente da leggere.
Voto: 4/5
Il dramma di Alfredo Rampi, bambino di 6 anni caduto in un pozzo artesiano il 10 giugno 1981 (ormai 40 anni fa) nella zona di Vermicino e morto qualche giorno dopo a causa del fallimento dei tentativi di salvataggio, è un evento che certamente ha segnato un’epoca, in quanto è stato il primo fatto di cronaca seguito dalla televisione in diretta praticamente 24 ore su 24 con inviati sul posto e trasformato fin dal principio nel racconto di un’emozione collettiva, a partire dallo stesso uso del diminutivo per far riferimento al bambino.
Forse anche per questo, e considerato che le persone della mia generazione a quell’epoca avevano un’età non molto diversa da quella di Alfredo (io avevo 8 anni), che è anche un’età in cui si comincia a fare i conti con le proprie paure, questa vicenda è rimasta nella nostra memoria e nelle nostre viscere come una specie di trauma collettivo, che ancora oggi suscita in tutti noi incubi con cui fare i conti. Si pensi a questo proposito all’inquietante libro di Giuseppe Genna, che pure da quell’evento prende le mosse per raccontare l’orrore dell’Italia post anni Ottanta e contemporanea.
Ebbene, Enrico Macioci parte proprio da questa constatazione per raccontare una storia di fantasia, che all’interno della cornice della vicenda di Alfredo, parla di un altro bambino di sei anni, Francesco, e del suo amico Christian, che in quegli stessi giorni – dopo aver giocato con lui – sparisce nel nulla.
Mentre dunque il bambino è bombardato dalle dirette televisive che gli fanno scoprire che anche a 6 anni il destino può metterti davanti la possibilità di morire, Francesco deve fare i conti con la sparizione di Christian e con quello che può essergli accaduto, mentre il mondo degli adulti da un lato si rivolge a lui in cerca di lumi in quanto ultimo testimone, dall’altro non lo prende veramente sul serio. Destino questo piuttosto tipico per i bambini, oggetto di mille attenzioni, ma anche talvolta di scarsa considerazione, se non addirittura sottovalutati o ignorati.
Il narratore di questa storia, che è lo stesso Francesco ormai adulto, ricorda quei giorni angoscianti della sua infanzia, l’incontro con la paura e con la morte, la presa di coscienza di non potersi fidare degli adulti, e le numerose domande che – anche dopo il ritrovamento di Christian – non troveranno risposta né nell’immediato né parecchio tempo dopo.
Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia è la frase che Alfredino, già delirante prima di morire, aveva pronunciato più volte, ma in fondo – come ci dice il narratore – è una inconsapevole metafora di molto altro, e certamente di quella fase della vita che rappresenta il passaggio spesso traumatico tra l’infanzia ‘beata’ e il primo incontro con la durezza e la complessità del mondo.
Che dire? Ho letto il libro di Macioci tutto d’un fiato in un viaggio A/R da Roma a Napoli, e mi è rimasto appiccicato addosso per la pastosità della scrittura e la forza del tema, dentro il quale c’è la grande capacità dello scrittore di interpretare i sentimenti di un sé (per quanto di finzione) bambino.
Un libro certamente da leggere.
Voto: 4/5
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