La parola che più rapidamente mi è affiorata alla mente durante e dopo la visione del film è stata "angosciante".
Non saprei dire quale elemento abbia contribuito di più a farmi salire dentro questa sensazione d'angoscia. Forse l'atmosfera di quella Milano degli anni Settanta, i cui grigi sono accentuati da una pellicola finto-scolorita che inevitabilmente ci richiama alla mente certe fotografie della nostra infanzia.
O forse quegli ambienti sociali in cui, negli stessi anni, cominciavano a girare grandi quantità di soldi, cocaina e belle ragazze, generando un intreccio mortale tra malavita nata dai bassifondi e losche dinamiche governate dall'alto; ambienti nei quali lo stato d'animo più comune risultava essere un'esaltazione effimera e un po' sopra le righe e, al contempo, una costante insoddisfazione, una conflittualità perennemente strisciante.
O forse ad angosciarmi di più è stata la parabola di quest'uomo, Renato Vallanzasca, detto "Renatino" o "il bel Renè", capo di una banda che in quegli anni fu protagonista di una serie di rapine, sequestri, estorsioni.
Mi angoscia il fatto che qualcuno possa scegliere una vita la cui spirale di autodistruzione e di violenza è ineluttabile. Eh sì, perché Renato Vallanzasca, dalla cui autobiografia Il fiore del male è tratta la sceneggiatura del film, dichiara di non essere il prodotto di un ambiente familiare povero e degradato, bensì di aver scelto di fare il ladro, di essere nato per questo tipo di vita.
Renato sembra interpretare la sua vita all'interno di uno scenario classico da "guardie e ladri", o "indiani e sceriffi", in cui lui ha scelto di stare dalla parte dei "cosiddetti" cattivi, e la cui principale ragione dell'azione criminale non è semplicemente accumulare soldi e diventare ricco, bensì sfidare le istituzioni, gabbare il potere costituito, metterne in luce limiti e debolezze, dimostrare di essere sempre e comunque il più coraggioso, il più furbo, il più intelligente e, in fondo, il più magnanimo.
Da qui probabilmente le critiche al film, da alcuni accusato di essere troppo compiacente nei confronti di Vallanzasca, quasi giustificandone l'operato ovvero facendone emergere il lato più positivo e quasi eroico.
Non si deve, però, dimenticare che la fonte dichiarata è l'autobiografia del bandito, ma soprattutto non si può isolare il protagonista da tutto ciò che accade intorno a lui. Al di là delle intenzioni e dell'atteggiamento a tratti fors'anche un po' infantile di Vallanzasca, che sembra aborrire la violenza gratuita e cercare il massimo risultato con l'astuzia dei metodi, risulta evidente che - se di gioco si tratta - è un gioco più grosso di lui, ben al di fuori del controllo di un singolo.
Il fascino che Renato emana (e di cui rimasero vittime molte donne e uomini) e i tratti un po' epici che lo caratterizzano sono sminuiti, se non annullati, dallo sfacelo che lui stesso provoca - o comunque non può impedire - intorno a sé, infelicità, violenza, morte, sfruttamento.
Renato Vallanzasca finisce per essere un uomo solo, perennemente in fuga, destinato ad assistere alla morte o al tradimento degli amici, condannato a reiterare per tutta la vita la sfida con lo stato, anche quando le dinamiche intorno a lui stanno cambiando. E la società pure.
Bravissimo Kim Rossi Stuart a trasmettere l'anima "grigia" di quest'uomo. Bravo Michele Placido a tenere alta l'adrenalina per più di due ore, nonostante qualche indugio un po' eccessivo sul dettaglio splatter.
Notevoli anche le interpretazioni dei comprimari (tra tutti Filippo Timi), così come la colonna sonora dei Negramaro.
In conclusione, un film che non si propone di far luce su alcuna vicenda o mistero italiano, bensì sceglie di raccontare una storia attraverso gli occhi del suo protagonista, con tutti i limiti che questo può comportare.
Voto: 3,5/5
lunedì 31 gennaio 2011
martedì 18 gennaio 2011
Titignano e dintorni
L'Umbria. Quella regione incuneata nell'Appennino e quasi inghiottita tra la Toscana, le Marche e il Lazio. Quella regione con i paesini arrocati su collinette dai versanti scoscesi. Con una campagna bella, ma vissuta. Rigogliosa, ma non leccata.
Quella regione che ancora - per fortuna - non è costruita a immagine e somiglianza dell'aspettativa dei turisti.
L'ho riscoperta grazie al provvidenziale consiglio di un'amica (grazie C.!), che mi suggerisce Titignano per una breve vacanza post-natalizia.
Titignano è un piccolo borgo tra Orvieto e Todi, che fu fondato nel X secolo da un discendente dei Montemarte (come si legge in moltissime iscrizioni) e acquisì l'attuale configurazione (un palazzo signorile che domina una corte su cui si sviluppano la chiesa e le altre case in pietra viva) durante il XVII secolo. Passato alla famiglia Corsini di Firenze nell'800, il borgo è oggi un'ambientazione quasi magica, un'oasi di silenzio, di tramonti sul lago di Corbara e di oscurità illuminata dalla luna e dalle stelle (tranne quando orde di persone provenienti dalla città la invadono per gustare l'ormai nota cucina del ristorante dell'agriturismo).
Il primo giorno arriviamo con la luce di un pomeriggio freddo, ma assolato e con un cielo tersissimo e subito ci facciamo consegnare le piccole mappe con annesse istruzioni per le passeggiate nei boschi e nelle campagne circostanti. Iniziamo con un breve giro che dalla pineta ci porterà nel bosco di querce e lecci, sulle tracce dei cinghiali, infine sulla strada bianca che ci riconduce al borgo. Giusto in tempo per vedere il sole tramontare sul lago di Corbara e le luci accendersi nella piazza del borgo, creando una suggestiva atmosfera.
La cena è oltre le aspettative, tanto più che il contesto è quello del salone di rappresentanza della casa padronale, con l'enorme camino a dominare lo spazio. Tra i salumi della zona, le fettuccine fatte in casa, la gallina al forno e una specie di mousse di yoghurt ai frutti di bosco (il tutto innaffiato dal buon vino prodotto dalla fattoria) torniamo "nei nostri appartamenti" con palato e pancia soddisfatti.
Un'occhiata alle stelle dalle finestre e poi subito a dormire il sonno dei giusti.
Il giorno dopo contiamo di smaltire la cena facendo una passeggiata verso il lago di Corbara (tempo stimato: 4 ore, con circa 400 metri di dislivello). Sulla riva del lago non ci arriveremo mai (le indicazioni della nostra cartina non sono chiare) e nei boschi non è facile capire a quale "secolare quercia" bisogna svoltare a sinistra sulla "carrareccia". In compenso, il divertimento è assicurato dall'incontro con una buffa femmina di maremmano, che vive in un podere che incontriamo sul cammino e che decide di accompagnarci nella passeggiata. Prima, spavalda, ci precede di diversi metri, si inoltra nel sottobosco, spaventa e fa volare le anatre che scova negli anfratti; poi sempre più cauta, mi si appiccica al sedere scegliendomi come affidabile capobranco. Chissà poi perché.
A volte seguiamo quello che pensiamo essere il suo senso dell'orientamento, ma evidentemente il suo senso dell'orientamento - se ne ha uno - non ci porta al lago. Sentiamo scorrere dell'acqua, procediamo speranzose in questa direzione, ma è solo un rivoletto in cui la nostra amica pelosa farà un bel bagnetto prima di infilarsi nella peggiore fanghiglia sulla strada del ritorno.
Ogni tanto la perdiamo di vista e pensiamo che sia tornata a casa. In un certo senso la cosa ci solleva, ma quando ricompare da dietro un cespuglio facciamo fatica a nascondere la contentezza. Una volta al suo podere, le facciamo molte feste e la ringraziamo della compagnia. Macché, è ancora dietro di noi mentre facciamo l'ultima salita fino a Titignano.
Alla fine, abbiamo fatto più di 5 ore di cammino... ma l'adrenalina ormai in circolo fa sì che - fatta una doccia - ci dirigiamo con la "nostra" Pandina nera (in realtà è a noleggio) verso la vicina Todi. Non ci accorgiamo che possiamo prendere un comodo ascensore fino ai giardini Oberdan e così scaliamo a piedi il centro storico fino alla bella piazza del Popolo, illuminata a festa.
È tardo pomeriggio. Ovunque si vendono vini e salumi della zona, e ci viene una certa acquolina in bocca. Purtroppo, nessuna enoteca all'orizzonte. Grazie alla valida collaborazione di un "locale", troviamo il nostro posto dell'aperitivo, l'Enoteca Oberdan (esattamente il posto dove saremmo sbucati prendendo il comodo ascensore!). Riapre alle 18. Mancano 10 minuti. Fa freddo, ma resisteremo. Sono le 18,10. Elsa, la proprietaria, non arriva, ma ha lasciato il suo numero di cellulare sulla vetrina...
Pazientiamo e intanto esploriamo la zona circostante, che offre altre interessanti proposte da sperimentare i giorni successivi. Ogni giovane donna che ci passa davanti potrebbe essere Elsa. Alla fine, proprio quando componiamo il numero sul cellulare, ecco Elsa che infila la chiave nella toppa! Evviva!
Il posto all'interno è piccolo, ma molto caldo e curato... Un disordine studiato ed accogliente, in cui tutto trasmette amore per il vino e per il buon bere (e mangiare). Primo bicchiere di Montefalco accompagnato da frittata e salumi serviti su una rustica striscia di legno; secondo bicchiere di sagrantino con secondo piatto di salumi e formaggi.
Usciamo felici e satolle. Ma ci aspetta la cena a Titignano. Impavida, guido fino al borgo lungo i numerosi tornanti. Arriviamo sane e salve, ma non usciremo altrettanto salve dalla cena, che ci dà la botta finale. La nottata, nonostante la tisana preparata in camera con il bollitore che provvidenzialmente ci siamo portate da casa, è ormai definitivamente compromessa.
La mattina seguente scegliamo un percorso più semplice, quello che auspicabilmente ci farà arrivare alla Roccaccia, le rovine di un castello (o di un avamposto) che guarda sulle gole del Forello. Passiamo a vedere se al podere c'è la nostra amica maremmana, ma - lacrimuccia - non c'è. Così ci avviamo per la nostra esplorazione in solitaria.
Questa volta l'itinerario è segnato. Non ci possiamo perdere. E infatti non ci perdiamo. In agilità arriviamo alla Roccaccia da cui c'è una vista mozzafiato sulle gole da una terrazza naturale, il cui muro protettivo originario deve essere crollato. Lo strapiombo è impressionante e la mia leggera vertigine mi tiene a debita distanza, con la scusa di dover fotografare la bellissima flora circostante!
Si torna indietro. Stasera niente aperitivi stroncanti, ché la cena è più che sufficiente allo scopo. Tanto più che domani si parte e abbiamo già adocchiato un'osteria dove pranzare prima del rientro a Roma...
Eccoci in piedi. È il giorno della Befana. Al borgo ci sono un sacco di macchine. Gente arrivata per il pranzo. La vista dalla finestra questa mattina è splendida. La nebbiolina rende le colline magnifiche e misteriose.
Si riparte, ma prima di tornare a Todi, al lago questa volta ci vogliamo arrivare. In macchina. Beh, in fondo, visto dalla riva non era un granché.
Ultimo giro turistico a Civitella del Lago, bel centro storico recuperato, una foto alla cisterna, un altro belvedere sul lago. E via. Si torna a Todi.
L'altra sera ci è caduto l'occhio sull'Osteria Pane e Vino, segnalata dalla Guida Osterie d'Italia di Slow Food. Che, ce la vogliamo perdere questa occasione? Certo che no. Per sicurezza abbiamo pure prenotato.
Il posto è decisamente all'altezza delle aspettative. Pancetta all'aceto, carpaccio con tartufo, zuppa di orzo con verdure, risotto con zucca e zafferano, anatra arrosto e verdurine ripassate. Per finire, cuor di polenta: biscotti di mais con la crema calda. Slurp!!! Non dirò nemmeno del vino. Buonissimo.
Questa volta per fortuna abbiamo preso l'ascensore e con quello torniamo al parcheggio dove c'è la "nostra" macchinina. Eccoci di ritorno a Roma. Peccato. Si stava così bene in Umbria! Certo, un giorno di più e gli sforzi fatti negli ultimi 8 mesi per perdere qualche chilo sarebbero stati irrimediabilmente compromessi...
Comunque, un salamino di cinghiale me lo sono portato dietro! ;-)
Quella regione che ancora - per fortuna - non è costruita a immagine e somiglianza dell'aspettativa dei turisti.
L'ho riscoperta grazie al provvidenziale consiglio di un'amica (grazie C.!), che mi suggerisce Titignano per una breve vacanza post-natalizia.
Titignano è un piccolo borgo tra Orvieto e Todi, che fu fondato nel X secolo da un discendente dei Montemarte (come si legge in moltissime iscrizioni) e acquisì l'attuale configurazione (un palazzo signorile che domina una corte su cui si sviluppano la chiesa e le altre case in pietra viva) durante il XVII secolo. Passato alla famiglia Corsini di Firenze nell'800, il borgo è oggi un'ambientazione quasi magica, un'oasi di silenzio, di tramonti sul lago di Corbara e di oscurità illuminata dalla luna e dalle stelle (tranne quando orde di persone provenienti dalla città la invadono per gustare l'ormai nota cucina del ristorante dell'agriturismo).
Il primo giorno arriviamo con la luce di un pomeriggio freddo, ma assolato e con un cielo tersissimo e subito ci facciamo consegnare le piccole mappe con annesse istruzioni per le passeggiate nei boschi e nelle campagne circostanti. Iniziamo con un breve giro che dalla pineta ci porterà nel bosco di querce e lecci, sulle tracce dei cinghiali, infine sulla strada bianca che ci riconduce al borgo. Giusto in tempo per vedere il sole tramontare sul lago di Corbara e le luci accendersi nella piazza del borgo, creando una suggestiva atmosfera.
La cena è oltre le aspettative, tanto più che il contesto è quello del salone di rappresentanza della casa padronale, con l'enorme camino a dominare lo spazio. Tra i salumi della zona, le fettuccine fatte in casa, la gallina al forno e una specie di mousse di yoghurt ai frutti di bosco (il tutto innaffiato dal buon vino prodotto dalla fattoria) torniamo "nei nostri appartamenti" con palato e pancia soddisfatti.
Un'occhiata alle stelle dalle finestre e poi subito a dormire il sonno dei giusti.
Il giorno dopo contiamo di smaltire la cena facendo una passeggiata verso il lago di Corbara (tempo stimato: 4 ore, con circa 400 metri di dislivello). Sulla riva del lago non ci arriveremo mai (le indicazioni della nostra cartina non sono chiare) e nei boschi non è facile capire a quale "secolare quercia" bisogna svoltare a sinistra sulla "carrareccia". In compenso, il divertimento è assicurato dall'incontro con una buffa femmina di maremmano, che vive in un podere che incontriamo sul cammino e che decide di accompagnarci nella passeggiata. Prima, spavalda, ci precede di diversi metri, si inoltra nel sottobosco, spaventa e fa volare le anatre che scova negli anfratti; poi sempre più cauta, mi si appiccica al sedere scegliendomi come affidabile capobranco. Chissà poi perché.
A volte seguiamo quello che pensiamo essere il suo senso dell'orientamento, ma evidentemente il suo senso dell'orientamento - se ne ha uno - non ci porta al lago. Sentiamo scorrere dell'acqua, procediamo speranzose in questa direzione, ma è solo un rivoletto in cui la nostra amica pelosa farà un bel bagnetto prima di infilarsi nella peggiore fanghiglia sulla strada del ritorno.
Ogni tanto la perdiamo di vista e pensiamo che sia tornata a casa. In un certo senso la cosa ci solleva, ma quando ricompare da dietro un cespuglio facciamo fatica a nascondere la contentezza. Una volta al suo podere, le facciamo molte feste e la ringraziamo della compagnia. Macché, è ancora dietro di noi mentre facciamo l'ultima salita fino a Titignano.
Alla fine, abbiamo fatto più di 5 ore di cammino... ma l'adrenalina ormai in circolo fa sì che - fatta una doccia - ci dirigiamo con la "nostra" Pandina nera (in realtà è a noleggio) verso la vicina Todi. Non ci accorgiamo che possiamo prendere un comodo ascensore fino ai giardini Oberdan e così scaliamo a piedi il centro storico fino alla bella piazza del Popolo, illuminata a festa.
È tardo pomeriggio. Ovunque si vendono vini e salumi della zona, e ci viene una certa acquolina in bocca. Purtroppo, nessuna enoteca all'orizzonte. Grazie alla valida collaborazione di un "locale", troviamo il nostro posto dell'aperitivo, l'Enoteca Oberdan (esattamente il posto dove saremmo sbucati prendendo il comodo ascensore!). Riapre alle 18. Mancano 10 minuti. Fa freddo, ma resisteremo. Sono le 18,10. Elsa, la proprietaria, non arriva, ma ha lasciato il suo numero di cellulare sulla vetrina...
Pazientiamo e intanto esploriamo la zona circostante, che offre altre interessanti proposte da sperimentare i giorni successivi. Ogni giovane donna che ci passa davanti potrebbe essere Elsa. Alla fine, proprio quando componiamo il numero sul cellulare, ecco Elsa che infila la chiave nella toppa! Evviva!
Il posto all'interno è piccolo, ma molto caldo e curato... Un disordine studiato ed accogliente, in cui tutto trasmette amore per il vino e per il buon bere (e mangiare). Primo bicchiere di Montefalco accompagnato da frittata e salumi serviti su una rustica striscia di legno; secondo bicchiere di sagrantino con secondo piatto di salumi e formaggi.
Usciamo felici e satolle. Ma ci aspetta la cena a Titignano. Impavida, guido fino al borgo lungo i numerosi tornanti. Arriviamo sane e salve, ma non usciremo altrettanto salve dalla cena, che ci dà la botta finale. La nottata, nonostante la tisana preparata in camera con il bollitore che provvidenzialmente ci siamo portate da casa, è ormai definitivamente compromessa.
La mattina seguente scegliamo un percorso più semplice, quello che auspicabilmente ci farà arrivare alla Roccaccia, le rovine di un castello (o di un avamposto) che guarda sulle gole del Forello. Passiamo a vedere se al podere c'è la nostra amica maremmana, ma - lacrimuccia - non c'è. Così ci avviamo per la nostra esplorazione in solitaria.
Questa volta l'itinerario è segnato. Non ci possiamo perdere. E infatti non ci perdiamo. In agilità arriviamo alla Roccaccia da cui c'è una vista mozzafiato sulle gole da una terrazza naturale, il cui muro protettivo originario deve essere crollato. Lo strapiombo è impressionante e la mia leggera vertigine mi tiene a debita distanza, con la scusa di dover fotografare la bellissima flora circostante!
Si torna indietro. Stasera niente aperitivi stroncanti, ché la cena è più che sufficiente allo scopo. Tanto più che domani si parte e abbiamo già adocchiato un'osteria dove pranzare prima del rientro a Roma...
Eccoci in piedi. È il giorno della Befana. Al borgo ci sono un sacco di macchine. Gente arrivata per il pranzo. La vista dalla finestra questa mattina è splendida. La nebbiolina rende le colline magnifiche e misteriose.
Si riparte, ma prima di tornare a Todi, al lago questa volta ci vogliamo arrivare. In macchina. Beh, in fondo, visto dalla riva non era un granché.
Ultimo giro turistico a Civitella del Lago, bel centro storico recuperato, una foto alla cisterna, un altro belvedere sul lago. E via. Si torna a Todi.
L'altra sera ci è caduto l'occhio sull'Osteria Pane e Vino, segnalata dalla Guida Osterie d'Italia di Slow Food. Che, ce la vogliamo perdere questa occasione? Certo che no. Per sicurezza abbiamo pure prenotato.
Il posto è decisamente all'altezza delle aspettative. Pancetta all'aceto, carpaccio con tartufo, zuppa di orzo con verdure, risotto con zucca e zafferano, anatra arrosto e verdurine ripassate. Per finire, cuor di polenta: biscotti di mais con la crema calda. Slurp!!! Non dirò nemmeno del vino. Buonissimo.
Questa volta per fortuna abbiamo preso l'ascensore e con quello torniamo al parcheggio dove c'è la "nostra" macchinina. Eccoci di ritorno a Roma. Peccato. Si stava così bene in Umbria! Certo, un giorno di più e gli sforzi fatti negli ultimi 8 mesi per perdere qualche chilo sarebbero stati irrimediabilmente compromessi...
Comunque, un salamino di cinghiale me lo sono portato dietro! ;-)
venerdì 14 gennaio 2011
Shenzen / Guy Delisle
Shenzhen / Guy Delisle. Paris: L'Association, 2000.
Più vado avanti nel leggere fumetti di Guy Delisle e più apprezzo questo per me straordinario autore di fumetti canadese. Dopo averne conosciuto la vena più "psicologica" e a tratti criptica in Aline et les autres e averne scoperto l'approccio più sociologico in Pyongyang, mi sono lanciata nella lettura di Shenzhen, fumetto che - come Pyongyang - nasce da un'esperienza di lavoro all'estero, questa volta in Cina, nella metropoli che si sviluppa alle porte di Hong Kong.
Probabilmente è proprio in questo tipo di racconti a fumetti che Delisle dà il meglio di sé, in quanto essi gli consentono di mettere insieme la sua spietata e - al contempo - tenera ironia e una capacità di osservazione e di sintesi che ha pochi eguali.
Se in Pyongyang già avevo avuto la sensazione di poter comprendere dall'interno una città e un popolo che non conoscevo, nel caso di Shenzhen le qualità di Delisle mi sono risultate ancora più lampanti, perché nel fumetto ho trovato rappresentate parecchie delle stranezze che avevo osservato quest'estate durante il mio viaggio cinese, e - anzi - Delisle ha in qualche modo tradotto in immagini e parole sensazioni che a suo tempo non avevo del tutto messo a fuoco.
A parte la tenerezza della rappresentazione di sé che Delisle ci propone (il se stesso a fumetti ha il ciuffo come l'originale e una varietà espressiva che ce lo rendono immediatamente simpatico, un anti-eroe buffo e senza pretese), sono innumerevoli gli episodi e le riflessioni che ci rimangono impressi nella mente:
- i goffi e quasi fastidiosi tentativi dei cinesi di esprimersi in inglese;
- gli interni squallidi e dominati dalle luci al neon;
- le bizzarre abitudini culinarie, non sempre affrontabili neppure dall'occidentale più aperto alle esperienze gastronomiche più estreme;
- le abitudini curiose, le incomprensibili dinamiche relazionali, l'assenza del concetto di servizio al cliente;
- il confronto con la vicina Hong Kong e con la lontana Pechino;
- la totale assenza di una società costruita sulla ripetitività dei modelli;
- la presunta e ostentata indifferenza nei confronti delle questioni politiche;
- l'idionsicrasia nei confronti del sole;
- un originale senso dell'ospitalità.
E chi più ne ha più ne metta.
Delisle appare - come chiunque vada in Cina - al contempo affascinato e inorridito dalla società cinese, che sembra riuscire a contemperare elementi di estremo interesse e le radici di una noia quasi strutturale.
Il fatto è che per chi è in grado di utilizzare gli strumenti dell'ironia non c'è posto più straordinario della Cina per poterli applicare ed esercitare al loro massimo grado. E Delisle ci riesce alla stragrande (sebbene non tutti condividano).
Dopo la lettura di Shenzhen - ve lo assicuro - vi verrà la voglia di andare in Cina se non ci siete mai stati. Vi passerà, invece, la voglia di tornarci a breve se ci siete andati di recente. ;-)
A questo punto non mi resta che leggere Cronache birmane che ho già ordinato online!
Voto: 4/5
Più vado avanti nel leggere fumetti di Guy Delisle e più apprezzo questo per me straordinario autore di fumetti canadese. Dopo averne conosciuto la vena più "psicologica" e a tratti criptica in Aline et les autres e averne scoperto l'approccio più sociologico in Pyongyang, mi sono lanciata nella lettura di Shenzhen, fumetto che - come Pyongyang - nasce da un'esperienza di lavoro all'estero, questa volta in Cina, nella metropoli che si sviluppa alle porte di Hong Kong.
Probabilmente è proprio in questo tipo di racconti a fumetti che Delisle dà il meglio di sé, in quanto essi gli consentono di mettere insieme la sua spietata e - al contempo - tenera ironia e una capacità di osservazione e di sintesi che ha pochi eguali.
Se in Pyongyang già avevo avuto la sensazione di poter comprendere dall'interno una città e un popolo che non conoscevo, nel caso di Shenzhen le qualità di Delisle mi sono risultate ancora più lampanti, perché nel fumetto ho trovato rappresentate parecchie delle stranezze che avevo osservato quest'estate durante il mio viaggio cinese, e - anzi - Delisle ha in qualche modo tradotto in immagini e parole sensazioni che a suo tempo non avevo del tutto messo a fuoco.
A parte la tenerezza della rappresentazione di sé che Delisle ci propone (il se stesso a fumetti ha il ciuffo come l'originale e una varietà espressiva che ce lo rendono immediatamente simpatico, un anti-eroe buffo e senza pretese), sono innumerevoli gli episodi e le riflessioni che ci rimangono impressi nella mente:
- i goffi e quasi fastidiosi tentativi dei cinesi di esprimersi in inglese;
- gli interni squallidi e dominati dalle luci al neon;
- le bizzarre abitudini culinarie, non sempre affrontabili neppure dall'occidentale più aperto alle esperienze gastronomiche più estreme;
- le abitudini curiose, le incomprensibili dinamiche relazionali, l'assenza del concetto di servizio al cliente;
- il confronto con la vicina Hong Kong e con la lontana Pechino;
- la totale assenza di una società costruita sulla ripetitività dei modelli;
- la presunta e ostentata indifferenza nei confronti delle questioni politiche;
- l'idionsicrasia nei confronti del sole;
- un originale senso dell'ospitalità.
E chi più ne ha più ne metta.
Delisle appare - come chiunque vada in Cina - al contempo affascinato e inorridito dalla società cinese, che sembra riuscire a contemperare elementi di estremo interesse e le radici di una noia quasi strutturale.
Il fatto è che per chi è in grado di utilizzare gli strumenti dell'ironia non c'è posto più straordinario della Cina per poterli applicare ed esercitare al loro massimo grado. E Delisle ci riesce alla stragrande (sebbene non tutti condividano).
Dopo la lettura di Shenzhen - ve lo assicuro - vi verrà la voglia di andare in Cina se non ci siete mai stati. Vi passerà, invece, la voglia di tornarci a breve se ci siete andati di recente. ;-)
A questo punto non mi resta che leggere Cronache birmane che ho già ordinato online!
Voto: 4/5
mercoledì 12 gennaio 2011
La Mennulara / Simonetta Agnello Hornby
La Mennulara / Simonetta Agnello Hornby. Milano: Feltrinelli, 2004.
Strano libro questo.
Di quei libri che appaiono antichi, pur essendo stati scritti quasi l'altro ieri.
Che ti conquistano lentamente fino a che ti avvinghi intorno alla misteriosa storia del loro personaggio, rimanendo inevitabilmente deluso quando, alla fine, tutti i segreti finiscono svelati.
Sono d'accordo con chi (vedi il commento di Carlo nelle recensioni su IBS) dice che è scorretto paragonare alcuni tratti di questo romanzo, in particolare il coro iniziale del paese che, attraverso la molteplicità dei punti di vista dei suoi abitanti, nonché protagonisti della storia, comincia a sollevare delle domande sulla figura della mennulara, al racconto corale di certi romanzi verghiani. L'ambientazione cronologica è differente, l'epoca letteraria pure, fors'anche l'epicità della storia.
Però devo confessare che a me che letterata non sono e le cui reminiscenze verghiane risalgono ai tempi del liceo classico la prima parte del romanzo mi ha davvero fatto pensare a I Malavoglia o a Rosso Malpelo, quanto meno nella sensazione che la lettura trasmette, quella di una comunità come racchiusa su se stessa, quasi autarchica nelle sue dinamiche sociali.
Ho vissuto del resto la stessa difficoltà nell'inquadrare i personaggi e ricordarli nel prosieguo della lettura, cosa che mi ha costretta più volte a ritornare indietro di qualche pagina per ricostruire il filo del discorso...
Dopo questa sorprendente, ma faticosa parte iniziale, l'acme del romanzo è certamente nella parte centrale, quando la personalità della Mennulara si rivela nel modo in cui questa ha organizzato - con la precisione di un orologio - gli eventi dopo la sua morta, in particolare il meccanismo di devoluzione della sua eredità alla famiglia Alfallipe.
Maria Rosalia Inzerillo, chiamata la Mennulara da quando - da bambina - andava in campagna a raccogliere le mandorle, non è affatto stupida e ignorante come spetterebbe essere alle serve. È piuttosto una di quelle donne che le origini sociali hanno costretto alla subalternità e che ha saputo - seppure sotterraneamente - riscattarsi.
Non c'è confronto tra la complessità, la sagacia, la discrezione e l'astuzia della Mennulara e la pochezza degli Alfallipe (la famiglia che ha servito per gran parte della vita), i cui figli in particolare sembrano veri e propri personaggi da commedia dell'arte, arroganti e stupidi, capaci di danneggiare anche i propri interessi per faciloneria e malignità.
La Mennulara non è un personaggio necessariamente simpatico, ma domina la scena anche da morta, padrona dei segreti e dei meccanismi di una comunità che conosce alla perfezione e in cui si è sempre mossa con dignità e sicurezza. In fondo, è proprio grazie a lei che vizi e virtù di questa comunità vengono messi a nudo senza forzature.
Personalmente (ma vedo che qualcun altro è d'accordo con me), avrei preferito non leggere la lunga lettera di Orazio Alfallipe al suo amico Pietro Fatta, né avrei voluto conoscere nei dettagli la storia pregressa di Mennù, di come e perché è finita a servizio dagli Alfallipe e gode di un credito presso il capomafia Vincenzo Ancona. Nel mistero non svelato si sarebbe offerto al lettore un ulteriore spazio di pathos e partecipazione.
Bello, infine, lo stile, che nonostante l'uso quasi totale dell'italiano (il siciliano è utilizzato solo lì dove è strettamente necessario), riesce a farci sentire appieno l'ambientazione siciliana nella sua dinamica umana e sociale, prima e più che in quella naturalistica e architettonica.
Voto: 3,5/5
Strano libro questo.
Di quei libri che appaiono antichi, pur essendo stati scritti quasi l'altro ieri.
Che ti conquistano lentamente fino a che ti avvinghi intorno alla misteriosa storia del loro personaggio, rimanendo inevitabilmente deluso quando, alla fine, tutti i segreti finiscono svelati.
Sono d'accordo con chi (vedi il commento di Carlo nelle recensioni su IBS) dice che è scorretto paragonare alcuni tratti di questo romanzo, in particolare il coro iniziale del paese che, attraverso la molteplicità dei punti di vista dei suoi abitanti, nonché protagonisti della storia, comincia a sollevare delle domande sulla figura della mennulara, al racconto corale di certi romanzi verghiani. L'ambientazione cronologica è differente, l'epoca letteraria pure, fors'anche l'epicità della storia.
Però devo confessare che a me che letterata non sono e le cui reminiscenze verghiane risalgono ai tempi del liceo classico la prima parte del romanzo mi ha davvero fatto pensare a I Malavoglia o a Rosso Malpelo, quanto meno nella sensazione che la lettura trasmette, quella di una comunità come racchiusa su se stessa, quasi autarchica nelle sue dinamiche sociali.
Ho vissuto del resto la stessa difficoltà nell'inquadrare i personaggi e ricordarli nel prosieguo della lettura, cosa che mi ha costretta più volte a ritornare indietro di qualche pagina per ricostruire il filo del discorso...
Dopo questa sorprendente, ma faticosa parte iniziale, l'acme del romanzo è certamente nella parte centrale, quando la personalità della Mennulara si rivela nel modo in cui questa ha organizzato - con la precisione di un orologio - gli eventi dopo la sua morta, in particolare il meccanismo di devoluzione della sua eredità alla famiglia Alfallipe.
Maria Rosalia Inzerillo, chiamata la Mennulara da quando - da bambina - andava in campagna a raccogliere le mandorle, non è affatto stupida e ignorante come spetterebbe essere alle serve. È piuttosto una di quelle donne che le origini sociali hanno costretto alla subalternità e che ha saputo - seppure sotterraneamente - riscattarsi.
Non c'è confronto tra la complessità, la sagacia, la discrezione e l'astuzia della Mennulara e la pochezza degli Alfallipe (la famiglia che ha servito per gran parte della vita), i cui figli in particolare sembrano veri e propri personaggi da commedia dell'arte, arroganti e stupidi, capaci di danneggiare anche i propri interessi per faciloneria e malignità.
La Mennulara non è un personaggio necessariamente simpatico, ma domina la scena anche da morta, padrona dei segreti e dei meccanismi di una comunità che conosce alla perfezione e in cui si è sempre mossa con dignità e sicurezza. In fondo, è proprio grazie a lei che vizi e virtù di questa comunità vengono messi a nudo senza forzature.
Personalmente (ma vedo che qualcun altro è d'accordo con me), avrei preferito non leggere la lunga lettera di Orazio Alfallipe al suo amico Pietro Fatta, né avrei voluto conoscere nei dettagli la storia pregressa di Mennù, di come e perché è finita a servizio dagli Alfallipe e gode di un credito presso il capomafia Vincenzo Ancona. Nel mistero non svelato si sarebbe offerto al lettore un ulteriore spazio di pathos e partecipazione.
Bello, infine, lo stile, che nonostante l'uso quasi totale dell'italiano (il siciliano è utilizzato solo lì dove è strettamente necessario), riesce a farci sentire appieno l'ambientazione siciliana nella sua dinamica umana e sociale, prima e più che in quella naturalistica e architettonica.
Voto: 3,5/5
lunedì 10 gennaio 2011
American life = Away we go
Tre sono, secondo me, le cose più belle di questo film, il tutto condensato nella ben riuscita locandina:
- la splendida coppia di protagonisti, Burt (John Krasinski) e Verona (Maya Rudolph), facce belle (non necessariamente in senso tecnico), comunicative, espressive. Due ragazzoni di una generazione criticamente di mezzo (lui ha 33 anni, lei 34) che vivono insieme (senza essere sposati perché lei non crede nel matrimonio) e aspettano una bambina; a tratti un po' ingenui e adolescenziali, certamente confusi ma animati di buone intenzioni; giocherelloni, ma anche capaci di trovare risorse e forza dentro di sé; innamorati certamente, romantici, con un feeling speciale all'interno della coppia. Era tanto che non vedevo al cinema una coppia di attori e personaggi funzionare così bene!
- i primi esilaranti incontri dei due con altre coppie durante il loro on the road; in particolare l'incontro con la coppia disfunzionale di Phoenix (Lily e Lowell) con i figli obesi e quella con la coppia hippie/new age di Madison (LN, interpretata dalla splendida e bravissima Maggie Gyllenhall, e Roderick) che segue il culto del cavalluccio marino e ha una vera idiosincrasia nei confronti dei passeggini. In questa prima parte, tutta un po' sopra la righe e giocata su una sceneggiatura brillante, il film mi ha ricordato E morì con un felafel in mano, per il tono un po' scanzonato e canzonatorio al tempo stesso. E non so se è un caso, ma i due film condividono anche una canzone della colonna sonora, precisamente Golden Brown dei The Stranglers, che nel film australiano è elemento portato e qui è praticamente una citazione, visto che scorre in sottofondo durante il pranzo con la coppia di Madison.
- infine, appunto, la colonna sonora, prevalentemente affidata ad Alexi Murdoch, uno che in qualche modo si colloca a metà strada tra Nick Drake e Dave Matthews e che ci sta perfettamente in un road movie che inizia scoppiettante per poi virare sul melò. In un viaggio tra i paesaggi pieni di cactus dell'Arizona e i boschi verdi del Colorado (come quelli che si vedono nel film) io questa colonna sonora la sparerei ad alto volume in macchina con i finestrini abbassati.
Anche solo per questi tre motivi sfido chiunque a credere che il film è diretto da Sam Mendes. Sì, lui, lo stesso di American Beauty e di Revolutionary Road, bellissimi film, certo, ma duri come macigni e spietati come rasoi affilati.
Sarà dunque che Mendes a cuor leggero proprio non ci riesce ad esserlo, ma il limite più grande di questo film è proprio la piega melodrammatica (ma pur sempre poco realistica) che prende nella seconda parte, quando non si riesce più a ridere delle stranezze del mondo e delle persone che lo abitano, ma si finisce per guardarli ottusamente dall'interno.
Anche quella necessità tutta americana di risolvere spaesamento e confusione con un indistinto ritorno alle radici e alla famiglia risulta infine un po' stucchevole. Forse avrei chiuso il tutto con quel dialogo bello, leggero e commovente tra Burt e Verona, distesi sul tappeto elastico.
Infine, piccola annotazione. Va bene che il titolo American life scelto per la versione italiana del film è forse più intellegibile e più direttamente comprensibile (pur essendo lo stesso in inglese) per il pubblico di casa nostra, però mi spiegate perché non lasciare l'originale Away we go?
Voto: 3/5 (4 per la prima metà del film)
Il trailer propone il meglio della prima parte, censurando furbescamente tutto il resto!
- la splendida coppia di protagonisti, Burt (John Krasinski) e Verona (Maya Rudolph), facce belle (non necessariamente in senso tecnico), comunicative, espressive. Due ragazzoni di una generazione criticamente di mezzo (lui ha 33 anni, lei 34) che vivono insieme (senza essere sposati perché lei non crede nel matrimonio) e aspettano una bambina; a tratti un po' ingenui e adolescenziali, certamente confusi ma animati di buone intenzioni; giocherelloni, ma anche capaci di trovare risorse e forza dentro di sé; innamorati certamente, romantici, con un feeling speciale all'interno della coppia. Era tanto che non vedevo al cinema una coppia di attori e personaggi funzionare così bene!
- i primi esilaranti incontri dei due con altre coppie durante il loro on the road; in particolare l'incontro con la coppia disfunzionale di Phoenix (Lily e Lowell) con i figli obesi e quella con la coppia hippie/new age di Madison (LN, interpretata dalla splendida e bravissima Maggie Gyllenhall, e Roderick) che segue il culto del cavalluccio marino e ha una vera idiosincrasia nei confronti dei passeggini. In questa prima parte, tutta un po' sopra la righe e giocata su una sceneggiatura brillante, il film mi ha ricordato E morì con un felafel in mano, per il tono un po' scanzonato e canzonatorio al tempo stesso. E non so se è un caso, ma i due film condividono anche una canzone della colonna sonora, precisamente Golden Brown dei The Stranglers, che nel film australiano è elemento portato e qui è praticamente una citazione, visto che scorre in sottofondo durante il pranzo con la coppia di Madison.
- infine, appunto, la colonna sonora, prevalentemente affidata ad Alexi Murdoch, uno che in qualche modo si colloca a metà strada tra Nick Drake e Dave Matthews e che ci sta perfettamente in un road movie che inizia scoppiettante per poi virare sul melò. In un viaggio tra i paesaggi pieni di cactus dell'Arizona e i boschi verdi del Colorado (come quelli che si vedono nel film) io questa colonna sonora la sparerei ad alto volume in macchina con i finestrini abbassati.
Anche solo per questi tre motivi sfido chiunque a credere che il film è diretto da Sam Mendes. Sì, lui, lo stesso di American Beauty e di Revolutionary Road, bellissimi film, certo, ma duri come macigni e spietati come rasoi affilati.
Sarà dunque che Mendes a cuor leggero proprio non ci riesce ad esserlo, ma il limite più grande di questo film è proprio la piega melodrammatica (ma pur sempre poco realistica) che prende nella seconda parte, quando non si riesce più a ridere delle stranezze del mondo e delle persone che lo abitano, ma si finisce per guardarli ottusamente dall'interno.
Anche quella necessità tutta americana di risolvere spaesamento e confusione con un indistinto ritorno alle radici e alla famiglia risulta infine un po' stucchevole. Forse avrei chiuso il tutto con quel dialogo bello, leggero e commovente tra Burt e Verona, distesi sul tappeto elastico.
Infine, piccola annotazione. Va bene che il titolo American life scelto per la versione italiana del film è forse più intellegibile e più direttamente comprensibile (pur essendo lo stesso in inglese) per il pubblico di casa nostra, però mi spiegate perché non lasciare l'originale Away we go?
Voto: 3/5 (4 per la prima metà del film)
Il trailer propone il meglio della prima parte, censurando furbescamente tutto il resto!
domenica 9 gennaio 2011
Che bella giornata
Inizierò con una precisazione terminologica. Forse non tutti – al di fuori della Puglia, o ancora meglio al di fuori della provincia di Bari – sanno che il nome d’arte scelto da Luca (Pasquale) Medici, ossia Checco Zalone, non è altro che una ricomposizione di una tipica espressione barese, "Che cozzalone!". Si tratta del corrispettivo di un’esclamazione che altrove suonerebbe "Che burino!", "Che zarro!", "Che truzzo!", "Che tamarro!". Ogni regione d’Italia ha il suo "cozzalone" che in parte mantiene caratteristiche comuni ovunque, in parte si definisce in maniera specifica rispetto alle caratteristiche locali.
Il "cozzalone" barese non è solo una persona (più spesso un uomo) di livello socio-culturale piuttosto basso, tanto che parla con un forte accento barese, storpia le parole italiane e straniere e "traduce" alla lettera dal dialetto all’italiano; è anche uno che veste pacchianamente alla moda, ossia sceglie spesso capi firmati taroccati in cui sia visibile la firma prestigiosa (vedi la cinta di Checco nel film), guida macchine di grossa cilindrata di solito usate (vedi la Porsche Carrera del film), ha una gestualità molto tipica (che probabilmente solo un barese può capire integralmente) e, soprattutto, ha una visione del mondo semplificata, essenziale, che risulta alla fine divertente e sottilmente azzeccata nella sua ingenuità. È, infatti, proprio mediante un personaggio le cui caratteristiche principali sono l’ignoranza e l’ingenuità che Checco Zalone mette alla berlina la società contemporanea in tutte le sue componenti e porta allo scoperto i pregiudizi che la parte presuntamente "educata e colta" della società ipocritamente cerca di dissimulare.
In questo caso la storia del film non solo pone al centro il rapporto Nord-Sud, visto che Checco è un giovane barese che vive da molti anni con la famiglia in Brianza, pur mantenendo forti contatti e radici pugliesi, bensì anche il rapporto Occidente-Oriente, dal momento che Checco si innamora di Farah (Nabiha Akkari), giovane e bella maghrebina che in realtà – insieme al fratello – sta preparando un attentato alla Madonnina e utilizza il povero Checco (addetto alla sicurezza del Duomo) per arrivare al suo scopo.
Della storia non dirò altro. Non c’è dubbio però che – dopo una parte iniziale un po’ in sordina – il film decolla e risulta esilarante in maniera quasi liberatoria. Preparatevi, in particolare, alla strepitosa sequenza del battesimo festeggiato ad Alberobello!
Checco Zalone mi ricorda in qualche modo il duo comico pugliese Toti e Tata (al secolo Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo) nel momento di loro massimo splendore, ossia ai tempi di Teledurazzo (mitica l'interpretazione del cantante barese Piero Scamarcio) e della soap opera Filomena Coza Depurada. In modo simile a Checco Zalone, Toti e Tata portavano in scena la quintessenza della baresità, rimanendo mirabilmente in bilico tra stereotipo e realtà.
Nel caso di Checco, l’operazione risulta ancora più riuscita, visto che Toti e Tata non sono mai stati realmente in grado di varcare i confini pugliesi e risultano poco leggibili a un pubblico che non conosce dal di dentro la baresità per averci vissuto a lungo, mentre Checco si rivolge a un pubblico più ampio, portando sulla scena cinematografica il corrispettivo barese del personaggio calabrese di Antonio Albanese, dei numerosi tipi che rappresentano la napoletanità, del prototipo del siciliano.
La sua è in fondo un’operazione sostanzialmente intellettuale, un po’ come quella di Albanese per Cetto Laqualunque (a proposito, è in uscita il film), in cui si ride di gusto grazie a una satira che ci trasmette un preciso messaggio: la quotidianità politica e sociale della nostra Italietta non è poi tanto lontana dalla sua rappresentazione satirica, solo apparentemente estrema e stereotipale.
Insomma, è chiaro che il mio giudizio è nettamente di parte (soprattutto dopo che ho scoperto che Luca Medici ha studiato al Liceo Scientifico "Sante Simone" di Conversano!) e non sono sicura che un non-barese possa ridere così di gusto come ho fatto io durante la visione del film, ma - non ho dubbi - il cinepanzerotto inventato da Checco Zalone mi piace molto, molto, molto di più del cinepanettone.
Voto: 3,5/5
Il "cozzalone" barese non è solo una persona (più spesso un uomo) di livello socio-culturale piuttosto basso, tanto che parla con un forte accento barese, storpia le parole italiane e straniere e "traduce" alla lettera dal dialetto all’italiano; è anche uno che veste pacchianamente alla moda, ossia sceglie spesso capi firmati taroccati in cui sia visibile la firma prestigiosa (vedi la cinta di Checco nel film), guida macchine di grossa cilindrata di solito usate (vedi la Porsche Carrera del film), ha una gestualità molto tipica (che probabilmente solo un barese può capire integralmente) e, soprattutto, ha una visione del mondo semplificata, essenziale, che risulta alla fine divertente e sottilmente azzeccata nella sua ingenuità. È, infatti, proprio mediante un personaggio le cui caratteristiche principali sono l’ignoranza e l’ingenuità che Checco Zalone mette alla berlina la società contemporanea in tutte le sue componenti e porta allo scoperto i pregiudizi che la parte presuntamente "educata e colta" della società ipocritamente cerca di dissimulare.
In questo caso la storia del film non solo pone al centro il rapporto Nord-Sud, visto che Checco è un giovane barese che vive da molti anni con la famiglia in Brianza, pur mantenendo forti contatti e radici pugliesi, bensì anche il rapporto Occidente-Oriente, dal momento che Checco si innamora di Farah (Nabiha Akkari), giovane e bella maghrebina che in realtà – insieme al fratello – sta preparando un attentato alla Madonnina e utilizza il povero Checco (addetto alla sicurezza del Duomo) per arrivare al suo scopo.
Della storia non dirò altro. Non c’è dubbio però che – dopo una parte iniziale un po’ in sordina – il film decolla e risulta esilarante in maniera quasi liberatoria. Preparatevi, in particolare, alla strepitosa sequenza del battesimo festeggiato ad Alberobello!
Checco Zalone mi ricorda in qualche modo il duo comico pugliese Toti e Tata (al secolo Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo) nel momento di loro massimo splendore, ossia ai tempi di Teledurazzo (mitica l'interpretazione del cantante barese Piero Scamarcio) e della soap opera Filomena Coza Depurada. In modo simile a Checco Zalone, Toti e Tata portavano in scena la quintessenza della baresità, rimanendo mirabilmente in bilico tra stereotipo e realtà.
Nel caso di Checco, l’operazione risulta ancora più riuscita, visto che Toti e Tata non sono mai stati realmente in grado di varcare i confini pugliesi e risultano poco leggibili a un pubblico che non conosce dal di dentro la baresità per averci vissuto a lungo, mentre Checco si rivolge a un pubblico più ampio, portando sulla scena cinematografica il corrispettivo barese del personaggio calabrese di Antonio Albanese, dei numerosi tipi che rappresentano la napoletanità, del prototipo del siciliano.
La sua è in fondo un’operazione sostanzialmente intellettuale, un po’ come quella di Albanese per Cetto Laqualunque (a proposito, è in uscita il film), in cui si ride di gusto grazie a una satira che ci trasmette un preciso messaggio: la quotidianità politica e sociale della nostra Italietta non è poi tanto lontana dalla sua rappresentazione satirica, solo apparentemente estrema e stereotipale.
Insomma, è chiaro che il mio giudizio è nettamente di parte (soprattutto dopo che ho scoperto che Luca Medici ha studiato al Liceo Scientifico "Sante Simone" di Conversano!) e non sono sicura che un non-barese possa ridere così di gusto come ho fatto io durante la visione del film, ma - non ho dubbi - il cinepanzerotto inventato da Checco Zalone mi piace molto, molto, molto di più del cinepanettone.
Voto: 3,5/5
venerdì 7 gennaio 2011
Lyon, ville des lumières
Mi invitano all'ENSSIB (Ecole nationale supérieure des sciences de l'information et des bibliothèques) a tenere una lezione il 9 dicembre, durante il ponte dell'Immacolata (per chi fosse interessato qui è possibile vedere le slides e ascoltare la registrazione del mio intervento).
Mi accorgo che si tratta di un momento particolare per la città di Lyon già quando, a settembre, comincio a cercare una sistemazione alberghiera e sembra quasi impossibile trovare una camera nel centro e nella prima periferia della città.
Alla fine un colpo di fortuna mi garantisce un alloggio all'Hotel de la Loire, accanto a place Carnot, posizione strategica rispetto al trasporto urbano (metropolitana, tram e autobus), nonché 10 minuti a piedi da place Bellecour.
Capirò, arrivando a Lyon l'8 dicembre, che la città è letteralmente invasa da turisti provenienti da tutta la Francia e da molte altre nazioni, soprattutto la vicina Italia.
Mi spiegano che la Fête des lumières è nata in omaggio a Maria Immacolata e un tempo era una festa intima e suggestiva. Spente tutte le luci elettriche, la città si illuminava dei lumini che tutti gli abitanti posizionavano su balconi e finestre - e che ancora si vedono qua e là.
Oggi la festa è un evento di massa, una specie di "notte bianca", in cui a partire dalle sei del pomeriggio le numerose installazioni luminose che popolano non solo il centro, bensì anche quartieri meno centrali ma ugualmente significativi della città, si accendono e fanno bella mostra di sé per tutta la notte. Inizia così la transumanza di residenti e turisti allo scoperta delle opere luminose più belle, suggestive o mirabolanti.
Effettivamente, di tanto in tanto ci si imbatte in veri e propri ridisegni di sculture, monumenti e spazi per mezzo della luce, piccoli gioielli che sarebbe bello stare ad osservare a lungo, se non fosse che la folla preme alle spalle.
Lyon deve avere un feeling particolare con le luci e le immagini proiettate visto che è legata anche - come ho scoperto solo una volta arrivata - alla vicenda dei fratelli Lumière, gli inventori del cinematografo.
Di questa città colpisce soprattutto l'ospitalità, tanto che la sua stessa configurazione urbanistica, con la presqu'ile incuneata tra i fiumi Rhône e Saône, sembra fatta apposta per accogliere chiunque passi per questi luoghi.
Belle le viste della città dagli argini del fiume Saône, che permettono di godere appieno dello splendido scenario di colline e montagne, chiese gotiche, monasteri e insediamenti che degradano verso la pianura.
Bella anche la Vieux Lyon e la piccola scalata fino al monastero della Fourvière da dove si domina l'intera città.
Per il resto, la città è un alternarsi senza sosta di stradine e grandi piazze, di antico e moderno, di rustico ed elegante.
Il freddo non manca, ma i numerosi bouchons lyonnais (le antiche trattorie - sebbene non tutte originali - dove gli avventori dividono il tavolo con estranei e il menu prevede una serie di pietanze tipicamente lionesi) rappresentano un valido ristoro, e la loro cucina a base di uova, carne, lardo, patè e interiora costituisce un'arma efficace contro il freddo (nonostante qualche piccolo problema digestivo!).
Inoltre, durante i giorni della Fête des lumières ad ogni angolo di strada si può comprare un bicchiere di vin chaud ad uno dei numerosissimi banchetti disseminati per tutta la città.
I suggestivi e coloratissimi mercatini di Natale completano l'atmosfera magica e rilassante che in questi giorni si respira in città, nonostante le folle che l'attraversano.
Un suggerimento: andate a fare una passeggiata nella zona della Croix Rousse, quartiere dall'aspetto pochissimo metropolitano, bensì piuttosto popolare e - almeno in apparenza - genuino, dove la gente ha facce belle e sorridenti.
Una nota di merito per il sistema dei trasporti urbani che costerà pure un po' di più che nelle nostre città, ma funziona meravigliosamente e consente di arrivare praticamente ovunque con semplicità, anche per chi lionese non è.
Mi accorgo che si tratta di un momento particolare per la città di Lyon già quando, a settembre, comincio a cercare una sistemazione alberghiera e sembra quasi impossibile trovare una camera nel centro e nella prima periferia della città.
Alla fine un colpo di fortuna mi garantisce un alloggio all'Hotel de la Loire, accanto a place Carnot, posizione strategica rispetto al trasporto urbano (metropolitana, tram e autobus), nonché 10 minuti a piedi da place Bellecour.
Capirò, arrivando a Lyon l'8 dicembre, che la città è letteralmente invasa da turisti provenienti da tutta la Francia e da molte altre nazioni, soprattutto la vicina Italia.
Mi spiegano che la Fête des lumières è nata in omaggio a Maria Immacolata e un tempo era una festa intima e suggestiva. Spente tutte le luci elettriche, la città si illuminava dei lumini che tutti gli abitanti posizionavano su balconi e finestre - e che ancora si vedono qua e là.
Oggi la festa è un evento di massa, una specie di "notte bianca", in cui a partire dalle sei del pomeriggio le numerose installazioni luminose che popolano non solo il centro, bensì anche quartieri meno centrali ma ugualmente significativi della città, si accendono e fanno bella mostra di sé per tutta la notte. Inizia così la transumanza di residenti e turisti allo scoperta delle opere luminose più belle, suggestive o mirabolanti.
Effettivamente, di tanto in tanto ci si imbatte in veri e propri ridisegni di sculture, monumenti e spazi per mezzo della luce, piccoli gioielli che sarebbe bello stare ad osservare a lungo, se non fosse che la folla preme alle spalle.
Lyon deve avere un feeling particolare con le luci e le immagini proiettate visto che è legata anche - come ho scoperto solo una volta arrivata - alla vicenda dei fratelli Lumière, gli inventori del cinematografo.
Di questa città colpisce soprattutto l'ospitalità, tanto che la sua stessa configurazione urbanistica, con la presqu'ile incuneata tra i fiumi Rhône e Saône, sembra fatta apposta per accogliere chiunque passi per questi luoghi.
Belle le viste della città dagli argini del fiume Saône, che permettono di godere appieno dello splendido scenario di colline e montagne, chiese gotiche, monasteri e insediamenti che degradano verso la pianura.
Bella anche la Vieux Lyon e la piccola scalata fino al monastero della Fourvière da dove si domina l'intera città.
Per il resto, la città è un alternarsi senza sosta di stradine e grandi piazze, di antico e moderno, di rustico ed elegante.
Il freddo non manca, ma i numerosi bouchons lyonnais (le antiche trattorie - sebbene non tutte originali - dove gli avventori dividono il tavolo con estranei e il menu prevede una serie di pietanze tipicamente lionesi) rappresentano un valido ristoro, e la loro cucina a base di uova, carne, lardo, patè e interiora costituisce un'arma efficace contro il freddo (nonostante qualche piccolo problema digestivo!).
Inoltre, durante i giorni della Fête des lumières ad ogni angolo di strada si può comprare un bicchiere di vin chaud ad uno dei numerosissimi banchetti disseminati per tutta la città.
I suggestivi e coloratissimi mercatini di Natale completano l'atmosfera magica e rilassante che in questi giorni si respira in città, nonostante le folle che l'attraversano.
Un suggerimento: andate a fare una passeggiata nella zona della Croix Rousse, quartiere dall'aspetto pochissimo metropolitano, bensì piuttosto popolare e - almeno in apparenza - genuino, dove la gente ha facce belle e sorridenti.
Una nota di merito per il sistema dei trasporti urbani che costerà pure un po' di più che nelle nostre città, ma funziona meravigliosamente e consente di arrivare praticamente ovunque con semplicità, anche per chi lionese non è.
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sabato 1 gennaio 2011
Le cronache di Narnia: Il viaggio del veliero
Devo confessare che non ho visto la seconda puntata della saga, Il principe Caspian, cosicché quando, in questa terza avventura, mi sono trovata di fronte al ragazzotto belloccio che lo interpreta, Ben Barnes, e che affianca Lucy (Georgie Henley) ed Edmund (Skandar Keynes) sono rimasta un attimo spiazzata. Ma dove sono finiti Peter e Susan?
Per fortuna questi capitoli delle vicende di Narnia sono sostanzialmente indipendenti l'uno dall'altro. E così, nonostante il salto temporale e narrativo, anche questa terza puntata è filata via liscia.
La novità è che, insieme ai personaggi ormai ben noti, è comparso il cugino Eustace (Will Poulter), schizzinoso ragazzino pseudointellettuale, nella cui casa sono ospiti Edmund e Lucy durante la guerra. Non sembrano esserci molti dubbi sul fatto che il prossimo salvatore di Narnia nella immancabile quarta puntata sarà proprio Eustace, conquistato alla causa e temprato nel carattere proprio dalla partecipazione al viaggio del veliero.
Gli ingredienti del racconto d'avventura per ragazzi sono tutti al loro posto: l'eterna lotta tra il bene e il male, gli incantesimi da rompere, gli animali parlanti, i mostri da sconfiggere, il confronto con le proprie paure, il coraggio e l'immancabile happy end.
D'altra parte, tutta la saga di Narnia - e non solo quella - è basata sui medesimi principii, a partire dalla trovata iniziale della casuale individuazione di un passaggio insospettabile dal mondo reale a quello magico di Narnia.
Il godimento visivo - anche grazie all'uso del 3D - è sempre molto elevato. Lo è forse meno l'impalcatura narrativa.
Perché è vero che gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma è evidente che il risultato finale dipende molto dall'abilità di chi li amalgama e ne ricava un piatto equilibrato e gustoso. In questo caso si tratta di capire se il demerito è dello scrittore, C. S. Lewis, o della sceneggiatura portata sullo schermo dal regista Michael Apted.
La sceneggiatura mostra senza dubbio qualche cedimento e, sebbene il ritmo resti piuttosto sostenuto, il tutto appare schematico e prevedibile, poco avvincente per un pubblico che abbia superato i 10 anni di età.
Non così per il primo capitolo della saga, Il leone, la strega e l'armadio, che, nella sua forse maggiore ingenuità cinematografica e nel puntare di più sulle dinamiche relazionali tra i protagonisti piuttosto che sugli effetti speciali, colpisce dritto al cuore e muove passioni ed emozioni di grandi e piccini.
Insomma, in una freddissima serata natalizia, circondata da tutti i miei nipoti, Il viaggio del veliero registra reazioni ben diverse a 6, 9, 14 e 37 anni, cosicché il nostro piccolo gruppo si spacca decisamente a metà: i piccoli hanno apprezzato, adolescenti e grandi ne escono piuttosto indifferenti.
Chissà, forse è solo la nostra incapacità, ma mano che cresciamo, di riconoscere la magia come sempre nuova, di vivere ogni esperienza come unica ed emozionante in sé invece di metterla su una scala di valutazione comparativa con le precedenti. Del resto, siamo condannati a crescere...
Voto: 3/5
Per fortuna questi capitoli delle vicende di Narnia sono sostanzialmente indipendenti l'uno dall'altro. E così, nonostante il salto temporale e narrativo, anche questa terza puntata è filata via liscia.
La novità è che, insieme ai personaggi ormai ben noti, è comparso il cugino Eustace (Will Poulter), schizzinoso ragazzino pseudointellettuale, nella cui casa sono ospiti Edmund e Lucy durante la guerra. Non sembrano esserci molti dubbi sul fatto che il prossimo salvatore di Narnia nella immancabile quarta puntata sarà proprio Eustace, conquistato alla causa e temprato nel carattere proprio dalla partecipazione al viaggio del veliero.
Gli ingredienti del racconto d'avventura per ragazzi sono tutti al loro posto: l'eterna lotta tra il bene e il male, gli incantesimi da rompere, gli animali parlanti, i mostri da sconfiggere, il confronto con le proprie paure, il coraggio e l'immancabile happy end.
D'altra parte, tutta la saga di Narnia - e non solo quella - è basata sui medesimi principii, a partire dalla trovata iniziale della casuale individuazione di un passaggio insospettabile dal mondo reale a quello magico di Narnia.
Il godimento visivo - anche grazie all'uso del 3D - è sempre molto elevato. Lo è forse meno l'impalcatura narrativa.
Perché è vero che gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma è evidente che il risultato finale dipende molto dall'abilità di chi li amalgama e ne ricava un piatto equilibrato e gustoso. In questo caso si tratta di capire se il demerito è dello scrittore, C. S. Lewis, o della sceneggiatura portata sullo schermo dal regista Michael Apted.
La sceneggiatura mostra senza dubbio qualche cedimento e, sebbene il ritmo resti piuttosto sostenuto, il tutto appare schematico e prevedibile, poco avvincente per un pubblico che abbia superato i 10 anni di età.
Non così per il primo capitolo della saga, Il leone, la strega e l'armadio, che, nella sua forse maggiore ingenuità cinematografica e nel puntare di più sulle dinamiche relazionali tra i protagonisti piuttosto che sugli effetti speciali, colpisce dritto al cuore e muove passioni ed emozioni di grandi e piccini.
Insomma, in una freddissima serata natalizia, circondata da tutti i miei nipoti, Il viaggio del veliero registra reazioni ben diverse a 6, 9, 14 e 37 anni, cosicché il nostro piccolo gruppo si spacca decisamente a metà: i piccoli hanno apprezzato, adolescenti e grandi ne escono piuttosto indifferenti.
Chissà, forse è solo la nostra incapacità, ma mano che cresciamo, di riconoscere la magia come sempre nuova, di vivere ogni esperienza come unica ed emozionante in sé invece di metterla su una scala di valutazione comparativa con le precedenti. Del resto, siamo condannati a crescere...
Voto: 3/5
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