Ragazze di campagna / Edna O'Brien; trad. di Cosetta Cavallante. Roma: Elliot, 2013.
Ragazze di campagna è un libro pubblicato in Irlanda all'inizio degli anni Sessanta da una Edna O'Brien poco più che ventenne. In realtà è il primo di una trilogia i cui successivi volumi sono La ragazza dagli occhi verdi (inizialmente tradotto con il titolo La ragazza sola) e Ragazze nella felicità coniugale.
A Elliot Edizioni va il merito di aver riportato sul mercato editoriale italiano questo vero e proprio classico che a suo tempo suscitò molto scandalo nella cattolicissima Irlanda (quell'Irlanda che in tempi relativamente recenti, con un referendum, si è espressa a favore dei matrimoni gay), in quanto dava voce al desiderio delle ragazze di sperimentare la propria libertà, anche di tipo sessuale.
Le protagoniste sono Caithleen e Baba, la prima - romantica e insicura - proviene da una famiglia modesta (con un padre alcolista e una madre dolce ma prematuramente scomparsa in un incidente), la seconda - sfrontata ed esuberante - appartiene a un contesto sociale ed economico più elevato.
Le due, che sono molto amiche sebbene in un modo molto conflittuale, soprattutto a causa dell'aggressività e della quasi cattiveria con cui Baba si rivolge a Caithleen, si trasferiranno prima insieme a un college di suore da cui si faranno presto espellere, e poi a Dublino, a pensione dalla signora Joanna.
In questi anni di passaggio dall'adolescenza all'età adulta, faranno le prime esperienze sentimentali e le loro strade inevitabilmente si divideranno. Arrivati all'ultima pagina non c'è un finale classico (anche perché - come detto - seguono altri due romanzi), ma in realtà a me il racconto è sembrato emotivamente compiuto, sebbene narrativamente restino aperti dei nodi.
La sensazione che si ha durante la lettura di questo romanzo è ambivalente e a tratti contraddittoria: da un lato è forte l'idea di stare leggendo una storia scritta più di 50 anni fa e che per certi versi ha acquisito i connotati di un vero e proprio classico, come potrebbe essere un Piccole donne, dall'altro si resta sorpresi dalla modernità e dal desiderio di libertà che queste giovanissime donne esprimono e in parte incarnano.
Ne viene fuori una verità a mio parere universale, ossia che le persone sono sempre molto più avanti della società e le società lo sono spesso rispetto alle istituzioni. E dunque anche in un mondo dai contorni certamente desueti come è quello di cui ci parla Edna O'Brien è interessante scoprire che - quando gli scrittori rappresentano senza filtri il cuore delle persone - i desideri, le aspirazioni e i bisogni sono gli stessi al di là dei luoghi e dei tempi. E in quelli sempre ci riconosciamo e ci riconosceremo attraverso la buona letteratura.
Voto: 3/5
giovedì 29 dicembre 2016
lunedì 26 dicembre 2016
Tra cavalli e pastori abruzzesi
Approfittando dell'ultimo ponte dell'anno decidiamo di fare una nuova incursione in territorio abruzzese, questa volta per andare a esplorare il Parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. Facciamo base a Villetta Barrea, esattamente al Casale delle Campitelle che ci è stato suggerito da un'amica.
Il viaggio fila liscissimo, anche perché al posto della solita Panda o Cinquecento, l'auto che abbiamo a noleggio questa volta (gentilmente offerta da Hertz allo stesso prezzo a causa di un loro disguido) è una fantastica e comodissima Renault Megane station wagon, con cui si viaggia che è un piacere.
Sulla strada verso Villetta facciamo una pausa per visitare l'Abbazia di Casamari, che però purtroppo riusciamo a vedere solo dall'esterno, perché l'orario - come è nelle nostre migliori tradizioni - è quello del pranzo.
Proseguiamo dunque verso la nostra destinazione, ma prima di andare al Casale delle Campitelle facciamo un pranzo tardo/merenda in un posticino di prodotti tipici a Villetta Barrea, dove mangiamo una buonissima pizza bianca con prosciutto crudo e scamorza al forno! E la signora ci dà anche delle indicazioni molto precise per arrivare al nostro agriturismo.
Il Casale delle Campitelle sta in cima a uno sterrato, sul fianco di una collina, con la vista sul lago di Barrea e tutto intorno le montagne. Una specie di oasi di pace in un posto che già di per sé è un trionfo di natura. L'agriturismo è gestito da Alessandro, che è romano e che l'ha messo su anni fa animato dalla sua passione per i cavalli (ha lavorato a lungo con i cavalli anche nel cinema e in agriturismo organizza attività con i cavalli), e da Rudy, la sua compagna, due persone diverse ma ognuna squisita a suo modo e con cui ci troveremo benissimo.
L'agriturismo è molto bello, si mangia benissimo (Rudy ci vizia anche a colazione e la sera si mangia tanto e genuino, oltre che buono!), si respira un'atmosfera conviviale e ci sono parecchi animali: le galline e il gallo, i due pastori maremmani, Orso e Nuvola, e i cavalli che escono ogni giorno a brucare nel loro ranch. Per email al momento della prenotazione avevamo chiesto se potevamo fare una prova a cavallo, e nonostante le perplessità di Alessandro legate al fatto che io non ho praticamente messo mai il sedere su un cavallo e C. l'ha fatto per un po' 25 anni fa, gli strappiamo - anche grazie all'intermediazione di Rudy - la promessa di poter vivere questa emozione. Ovviamente, come Alessandro aveva previsto, io sono praticamente immobilizzata sul cavallo e non riesco a fargli fare niente, se non a stare su mentre lui segue Alessandro. C. se la cava meglio però ogni volta che il cavallo vede il cancello di uscita è praticamente impossibile per lei impedirgli di dirigersi e poi fermarsi lì. Però l'occasione è buona per vedere Alessandro - vestito da perfetto cowboy - fare un po' di manovre a cavallo con grande perizia e capacità. Un vero spettacolo.
Per il resto, in questi pochi giorni esploriamo un pochino la natura nei dintorni, con l'impegno di non fare trekking impegnativi che io non amo per niente. E così optiamo il primo giorno per la passeggiata nella zona della Camosciara, dove andiamo a vedere le due cascate e poi imbocchiamo il percorso ad anello in mezzo ai boschi che ci riporterà al punto di partenza. Le sorprese del giro saranno l'avvistamento di un gruppo di cervi e l'enorme quantità di acqua che scorre su queste montagne e che più volte dobbiamo parzialmente guadare, con le mie scarpe che si insozzano terribilmente a causa della mia imperizia. Bellissime anche le faggete, con il loro sottobosco pulito che in questo periodo è coperto solo delle loro foglie.
Di animali non ne vedremo moltissimi altri, nonostante la zona ne sia piena. Altri cervi li vedremo nel letto del lago semivuoto, una volpe rientrando all'agriturismo una sera, e tantissimi cavalli e muli ovunque.
Faremo anche un incontro ravvicinato la sera del primo giorno, mentre andiamo in macchina a vedere il presepe a grandezza naturale nel paesino di Civitella Alfedena, quando lungo la strada le nostre luci illuminano di rosso gli occhi di un cerbiatto che a quel punto, completamente disorientato, ci corre incontro verso la macchina. Noi ci fermiamo e per fortuna poco prima di sbattere si ferma anche lui e ci passa accanto al finestrino per poi proseguire sulla strada e speriamo ritrovare la via verso i boschi.
Il secondo giorno, dopo aver studiato a fondo le cartine, optiamo per la Val Fondillo, una passeggiata bellissima lungo una carrareccia che ci porta prima a uno stazzo poi a delle belle cascate. Il tutto in una splendida giornata di sole che fa risplendere il bosco e le montagne di una luce meravigliosa.
Dopo la pausa pranzo al punto di ristoro dove parte il percorso, riprendiamo la strada verso Roma, ma visto che c'è ancora un po' di pomeriggio a disposizione facciamo una tappa intermedia ad Anagni, dove arriviamo con le ultime luci del tramonto e l'inizio dell'imbrunire.
Il centro storico della cittadina è ricco di edifici importanti che testimonia del ruolo che questa cittadina ha svolto durante il Medioevo e in particolare durante il pontificato di Bonifacio VIII. Andiamo a visitare la splendida cattedrale che domina insieme ad altri edifici medievali la piazza principale e poi il palazzo ora abitato dalla suore cistercensi dove c'è la famosa sala dello "schiaffo". Qui - grazie all'audioguida - conosciamo tutta la storia di questa incredibile vicenda e la complessità di un periodo storico fitto di eventi e personaggi incredibili. E mentre dalle finestre del Palazzo l'audioguida ci suggerisce di guardare fuori verso Palestrina, dove abitavano gli avversari dei Caetani, i Colonna, pensiamo che quella sarà prossimamente la destinazione di una delle nostre prossime gite fuoriporta.
Ma eccoci di nuovo in macchina - ora piena di pasta artigianale, formaggi e salumi abruzzesi - che già vediamo davanti a noi l'immensa distesa di luci di Roma, che ci attende con il solito caos elettrizzante e faticoso allo stesso tempo.
A presto, bellissimo Abruzzo.
Il viaggio fila liscissimo, anche perché al posto della solita Panda o Cinquecento, l'auto che abbiamo a noleggio questa volta (gentilmente offerta da Hertz allo stesso prezzo a causa di un loro disguido) è una fantastica e comodissima Renault Megane station wagon, con cui si viaggia che è un piacere.
Sulla strada verso Villetta facciamo una pausa per visitare l'Abbazia di Casamari, che però purtroppo riusciamo a vedere solo dall'esterno, perché l'orario - come è nelle nostre migliori tradizioni - è quello del pranzo.
Proseguiamo dunque verso la nostra destinazione, ma prima di andare al Casale delle Campitelle facciamo un pranzo tardo/merenda in un posticino di prodotti tipici a Villetta Barrea, dove mangiamo una buonissima pizza bianca con prosciutto crudo e scamorza al forno! E la signora ci dà anche delle indicazioni molto precise per arrivare al nostro agriturismo.
Il Casale delle Campitelle sta in cima a uno sterrato, sul fianco di una collina, con la vista sul lago di Barrea e tutto intorno le montagne. Una specie di oasi di pace in un posto che già di per sé è un trionfo di natura. L'agriturismo è gestito da Alessandro, che è romano e che l'ha messo su anni fa animato dalla sua passione per i cavalli (ha lavorato a lungo con i cavalli anche nel cinema e in agriturismo organizza attività con i cavalli), e da Rudy, la sua compagna, due persone diverse ma ognuna squisita a suo modo e con cui ci troveremo benissimo.
L'agriturismo è molto bello, si mangia benissimo (Rudy ci vizia anche a colazione e la sera si mangia tanto e genuino, oltre che buono!), si respira un'atmosfera conviviale e ci sono parecchi animali: le galline e il gallo, i due pastori maremmani, Orso e Nuvola, e i cavalli che escono ogni giorno a brucare nel loro ranch. Per email al momento della prenotazione avevamo chiesto se potevamo fare una prova a cavallo, e nonostante le perplessità di Alessandro legate al fatto che io non ho praticamente messo mai il sedere su un cavallo e C. l'ha fatto per un po' 25 anni fa, gli strappiamo - anche grazie all'intermediazione di Rudy - la promessa di poter vivere questa emozione. Ovviamente, come Alessandro aveva previsto, io sono praticamente immobilizzata sul cavallo e non riesco a fargli fare niente, se non a stare su mentre lui segue Alessandro. C. se la cava meglio però ogni volta che il cavallo vede il cancello di uscita è praticamente impossibile per lei impedirgli di dirigersi e poi fermarsi lì. Però l'occasione è buona per vedere Alessandro - vestito da perfetto cowboy - fare un po' di manovre a cavallo con grande perizia e capacità. Un vero spettacolo.
Per il resto, in questi pochi giorni esploriamo un pochino la natura nei dintorni, con l'impegno di non fare trekking impegnativi che io non amo per niente. E così optiamo il primo giorno per la passeggiata nella zona della Camosciara, dove andiamo a vedere le due cascate e poi imbocchiamo il percorso ad anello in mezzo ai boschi che ci riporterà al punto di partenza. Le sorprese del giro saranno l'avvistamento di un gruppo di cervi e l'enorme quantità di acqua che scorre su queste montagne e che più volte dobbiamo parzialmente guadare, con le mie scarpe che si insozzano terribilmente a causa della mia imperizia. Bellissime anche le faggete, con il loro sottobosco pulito che in questo periodo è coperto solo delle loro foglie.
Di animali non ne vedremo moltissimi altri, nonostante la zona ne sia piena. Altri cervi li vedremo nel letto del lago semivuoto, una volpe rientrando all'agriturismo una sera, e tantissimi cavalli e muli ovunque.
Faremo anche un incontro ravvicinato la sera del primo giorno, mentre andiamo in macchina a vedere il presepe a grandezza naturale nel paesino di Civitella Alfedena, quando lungo la strada le nostre luci illuminano di rosso gli occhi di un cerbiatto che a quel punto, completamente disorientato, ci corre incontro verso la macchina. Noi ci fermiamo e per fortuna poco prima di sbattere si ferma anche lui e ci passa accanto al finestrino per poi proseguire sulla strada e speriamo ritrovare la via verso i boschi.
Il secondo giorno, dopo aver studiato a fondo le cartine, optiamo per la Val Fondillo, una passeggiata bellissima lungo una carrareccia che ci porta prima a uno stazzo poi a delle belle cascate. Il tutto in una splendida giornata di sole che fa risplendere il bosco e le montagne di una luce meravigliosa.
Dopo la pausa pranzo al punto di ristoro dove parte il percorso, riprendiamo la strada verso Roma, ma visto che c'è ancora un po' di pomeriggio a disposizione facciamo una tappa intermedia ad Anagni, dove arriviamo con le ultime luci del tramonto e l'inizio dell'imbrunire.
Il centro storico della cittadina è ricco di edifici importanti che testimonia del ruolo che questa cittadina ha svolto durante il Medioevo e in particolare durante il pontificato di Bonifacio VIII. Andiamo a visitare la splendida cattedrale che domina insieme ad altri edifici medievali la piazza principale e poi il palazzo ora abitato dalla suore cistercensi dove c'è la famosa sala dello "schiaffo". Qui - grazie all'audioguida - conosciamo tutta la storia di questa incredibile vicenda e la complessità di un periodo storico fitto di eventi e personaggi incredibili. E mentre dalle finestre del Palazzo l'audioguida ci suggerisce di guardare fuori verso Palestrina, dove abitavano gli avversari dei Caetani, i Colonna, pensiamo che quella sarà prossimamente la destinazione di una delle nostre prossime gite fuoriporta.
Ma eccoci di nuovo in macchina - ora piena di pasta artigianale, formaggi e salumi abruzzesi - che già vediamo davanti a noi l'immensa distesa di luci di Roma, che ci attende con il solito caos elettrizzante e faticoso allo stesso tempo.
A presto, bellissimo Abruzzo.
sabato 24 dicembre 2016
Hugo Pratt e Corto Maltese. 50 anni di viaggi nel mito. Bologna, Palazzo Pepoli, 18 dicembre 2016
Approfittando di una puntatina pre-natalizia bolognese, vado a vedere la mostra su Hugo Pratt e Corto Maltese, in programmazione a Palazzo Pepoli fino a marzo e di cui alcune amiche mi avevano parlato benissimo.
Devo premettere che non ho mai letto niente di Corto Maltese (o meglio qualche volta ci ho provato ma non mi ha mai conquistata) e so poco anche del suo creatore. Però Corto Maltese è un'icona da cui è praticamente impossibile non restare affascinati, non foss'altro che per la qualità dei disegni e degli acquerelli di Hugo Pratt.
La mostra si sviluppa al primo e secondo piano del palazzo. Il primo piano è un iniziale approccio a Hugo Pratt, attraverso un bellissimo documentario che racconta questo personaggio così pieno di energia vitale e di creatività, nonché una prima presentazione di Corto Maltese attraverso la sua biografia e la proiezione dei disegni ad acquerello che lo rappresentano e che si formano sotto i nostri occhi, ma anche una passeggiata attraverso i primi passi del suo autore nel mondo del fumetto.
Ne viene fuori una commistione profonda tra Pratt e Corto Maltese, entrambi innamorati della vita, dell'avventura, delle donne, dei viaggi, della magia e del mistero.
Il secondo piano è quasi interamente dedicato a Corto Maltese e al modo in cui le storie e il disegno di questo personaggio si collocano nel percorso di Pratt, nonché a tutte i richiami letterari - e non solo - presenti nelle storie di Corto. Bellissime le tavole originali dei fumetti, da cui si comprende come essi vengono costruiti, e anche gli acquerelli nei quali Pratt propone studi di luoghi e di tipologie umane.
Questa carrellata si conclude con una parete in cui sono appese le tavole originali di Una ballata del mare salato, il romanzo a fumetti in cui per la prima volta comparve Corto Maltese, come personaggio secondario, e infine con alcune tavole dell'avventura di Corto, pubblicata nel 2015, quindi dopo la morte di Pratt, e realizzata dallo sceneggiatore Juan Dìaz Canales e dal disegnatore Rubén Pellejero, a testimonianza del fatto che questo personaggio ha in qualche modo acquisito una vita autonoma.
E così, sala dopo sala, è evidente che il fumetto è un'espressione artistica che non ha niente da invidiare alla pittura, alla letteratura, alla poesia, e che proprio per questo merita di essere omaggiata in spazi espositivi importanti, mantenendo però la straordinaria capacità di poter arrivare a tutti in nome della sua dimensione per così dire popolare.
Consigliatissima a tutti, grandi e piccini.
E a me è venuta voglia di leggere Una ballata del mare salato, che però scopro oggi non è attualmente disponibile nella sua edizione italiana più fedele a quella originale :-(
Voto: 4/5
mercoledì 21 dicembre 2016
Qui e ora / Mattia Torre. Teatro Ambra Jovinelli, 16 dicembre 2016
Diversi mesi fa avevo scoperto che, al Teatro Ambra Jovinelli, la stagione 2016-2017 sarebbe stata impreziosita da una rassegna dedicata a Mattia Torre, consistente nella rappresentazione di tre suoi testi, Qui e ora, Migliore e 456.
Mattia Torre l'avevo conosciuto e apprezzato ai tempi di Boris, sceneggiatore insieme a Ciarrapico e Vendruscolo, poi definitivamente adottato con la lettura dei cinque atti comici raccolti nel libro In mezzo al mare, che mi ha confermato le sue qualità di scrittore dotato di sensibilità e ironia.
Cosicché non ci ho messo molto a convincere alcune amiche a comprare l'abbonamento per questo Progetto Mattia Torre.
Il primo appuntamento arriva subito prima di Natale ed è quello con Qui e ora, interpretato da Valerio Aprea e Paolo Calabresi. La serata inizia già bene, perché da quando nell'area della Cappa Mazzoniana della Stazione Termini, con ingresso da via Giolitti, hanno aperto il Mercato Centrale, andare a teatro all'Ambra Jovinelli è diventato anche l'occasione per una pausa gourmet (in questo caso ho assaggiato il pesce della pescheria mia omonima, Galluzzi, che pare essere una delle migliori di Roma).
Ma eccoci in seconda galleria in un venerdì sera in cui io, F. e P. siamo stanchissime, al punto tale che qualunque altro spettacolo ci avrebbe definitivamente fatte abbandonare tra le braccia di Morfeo. Ma non Mattia Torre.
Lo spettacolo si apre sulla scena di un incidente tra due scooter e due uomini a terra, apparentemente incoscienti, o peggio. Uno si sveglia, chiama l'ambulanza per sé, perché ritiene che l'altro sia morto. Scopriamo presto che si tratta di uno chef che conduce un programma radiofonico e che a breve ha un appuntamento in radio per andare in onda in diretta con il suo programma.
Mentre questi litiga con il 118 per avere un'ambulanza, l'altro riprende conoscenza, nonostante sia messo male. Tra i due uomini si instaura subito una dialettica conflittuale, in cui lo chef/conduttore fa l'aguzzino, umiliando l'altro e maltrattandolo, tra una telefonata e l'altra durante le quali registra il suo programma radiofonico per evitare di essere sostituito.
Lo chef dispiega tutto il suo cinismo e la sua supponenza nei confronti dell'umanità intera, ma in particolare nei confronti dell'uomo che giace sul bordo della strada dell'incidente.
Poco a poco però quest'ultimo riprende le forze e, complice lo scaricamento della batteria del telefonino del'altro e il ripresentarsi di malesseri post-incidente, i ruoli si invertono e colui che sembrava un uomo grigio e dimesso, perseguitato dalle telefonate della madre, dimostra di aver messo in atto un vero e proprio diabolico piano.
Qui e ora, com'è nello stile di Mattia Torre, parla di importanti temi contemporanei, come ad esempio la solitudine e la violenza dei rapporti sociali, usando toni cinici e ironici, anziché drammatici. In conclusione ci propone una riflessione non banale su chi è oggi l'antagonista sociale e sul ruolo che in questo processo giocano i mass media e la tecnologia.
Consigliatissimo.
Voto: 4/5
Mattia Torre l'avevo conosciuto e apprezzato ai tempi di Boris, sceneggiatore insieme a Ciarrapico e Vendruscolo, poi definitivamente adottato con la lettura dei cinque atti comici raccolti nel libro In mezzo al mare, che mi ha confermato le sue qualità di scrittore dotato di sensibilità e ironia.
Cosicché non ci ho messo molto a convincere alcune amiche a comprare l'abbonamento per questo Progetto Mattia Torre.
Il primo appuntamento arriva subito prima di Natale ed è quello con Qui e ora, interpretato da Valerio Aprea e Paolo Calabresi. La serata inizia già bene, perché da quando nell'area della Cappa Mazzoniana della Stazione Termini, con ingresso da via Giolitti, hanno aperto il Mercato Centrale, andare a teatro all'Ambra Jovinelli è diventato anche l'occasione per una pausa gourmet (in questo caso ho assaggiato il pesce della pescheria mia omonima, Galluzzi, che pare essere una delle migliori di Roma).
Ma eccoci in seconda galleria in un venerdì sera in cui io, F. e P. siamo stanchissime, al punto tale che qualunque altro spettacolo ci avrebbe definitivamente fatte abbandonare tra le braccia di Morfeo. Ma non Mattia Torre.
Lo spettacolo si apre sulla scena di un incidente tra due scooter e due uomini a terra, apparentemente incoscienti, o peggio. Uno si sveglia, chiama l'ambulanza per sé, perché ritiene che l'altro sia morto. Scopriamo presto che si tratta di uno chef che conduce un programma radiofonico e che a breve ha un appuntamento in radio per andare in onda in diretta con il suo programma.
Mentre questi litiga con il 118 per avere un'ambulanza, l'altro riprende conoscenza, nonostante sia messo male. Tra i due uomini si instaura subito una dialettica conflittuale, in cui lo chef/conduttore fa l'aguzzino, umiliando l'altro e maltrattandolo, tra una telefonata e l'altra durante le quali registra il suo programma radiofonico per evitare di essere sostituito.
Lo chef dispiega tutto il suo cinismo e la sua supponenza nei confronti dell'umanità intera, ma in particolare nei confronti dell'uomo che giace sul bordo della strada dell'incidente.
Poco a poco però quest'ultimo riprende le forze e, complice lo scaricamento della batteria del telefonino del'altro e il ripresentarsi di malesseri post-incidente, i ruoli si invertono e colui che sembrava un uomo grigio e dimesso, perseguitato dalle telefonate della madre, dimostra di aver messo in atto un vero e proprio diabolico piano.
Qui e ora, com'è nello stile di Mattia Torre, parla di importanti temi contemporanei, come ad esempio la solitudine e la violenza dei rapporti sociali, usando toni cinici e ironici, anziché drammatici. In conclusione ci propone una riflessione non banale su chi è oggi l'antagonista sociale e sul ruolo che in questo processo giocano i mass media e la tecnologia.
Consigliatissimo.
Voto: 4/5
lunedì 19 dicembre 2016
Come svanire completamente / Alessandro Baronciani
Come svanire completamente / Alessandro Baronciani. [Autoprodotto], 2016.
Ed ecco qui sul mio tavolo questo strano oggetto che è il nuovo lavoro a fumetti di Alessandro Baronciani, risultato di un progetto nato un bel po' di tempo fa e per il quale l'autore ha chiesto l'aiuto del pubblico aprendo una sottoscrizione denominata "Adesso o mai più".
Come ha spiegato Baronciani in diverse interviste (ad esempio qui e qui), sarebbe stato impossibile seguire un iter tradizionale o passare attraverso la mediazione editoriale classica per pubblicare un lavoro come questo e per questo ha scelto la strada del crowdfunding.
Ma che cos'ha di tanto speciale questo lavoro? Come svanire completamente è un cofanetto a forma di libro. Quando lo si apre, all'interno ci troviamo qualche decina di librettini spillati in formato A6 e tenuti insieme da fascette di carta, delle polaroid disegnate in una busta, delle cartoline, degli scontrini, la mappa di un luogo. Poi un altro foglio con i nomi dei sottoscrittori e brevissime istruzioni per l'uso, quelle in cui Baronciani ci dice che possiamo cominciare la lettura dove vogliamo e completare a mente, ma possibilmente leggendo tutto in una volta.
Così, una sera in cui ero un po' febbricitante ho letto tutto. Comprendo che al centro della storia c'è una ragazza, o forse una sirena approdata sulla terra, che si innamora di un ragazzo e che gira dei video su di sé per lasciare delle tracce; ma un giorno la storia finisce e intanto questo ragazzo è diventato ormai vecchio.
Quello che c'è nella scatola sono pezzi di questa storia, una specie di testimonianze concrete del fatto che l'esistenza di questa ragazza non è stata solo un sogno, ma una realtà.
Però dopo aver letto tutti i librettini sono sicura che qualcosa mi è sfuggito, perché non ho capito proprio tutto. Così do la colpa alla febbre e rimando a un momento migliore un secondo tentativo, che arriva qualche giorno dopo.
Metto tutti questi librettini sul letto e, forte del fatto di averli già letti una volta, provo a ricostruirne la sequenza temporale, anche osservando meglio particolari e disegni. E probabilmente qualche filo temporale si riconosce. Ma alla fine i conti non tornano.
Del resto l'autore in una intervista tiene a precisare che non si tratta di un puzzle e dunque il quadro completo non verrà mai fuori, e dunque spetta al lettore completare e dare un senso a una storia i cui frammenti non consentono di farsi un'idea completa.
Forse si tratta di una leggenda o di una favola, o forse ancora questo racconto è una metafora di una narrazione che si fa sempre più frammentaria ma al contempo in qualche modo persistente grazie all'aumento esponenziale delle testimonianze del proprio svolgersi attraverso video, fotografie, oggetti.
Un bel gioco quello che Baronciani ha messo in piedi con il lettore e che si è svolto a cavallo tra il Web, in una dimensione dunque immateriale, e la fisicità di una scatola di cartone con il suo contenuto.
Voto: 3,5/5
Ed ecco qui sul mio tavolo questo strano oggetto che è il nuovo lavoro a fumetti di Alessandro Baronciani, risultato di un progetto nato un bel po' di tempo fa e per il quale l'autore ha chiesto l'aiuto del pubblico aprendo una sottoscrizione denominata "Adesso o mai più".
Come ha spiegato Baronciani in diverse interviste (ad esempio qui e qui), sarebbe stato impossibile seguire un iter tradizionale o passare attraverso la mediazione editoriale classica per pubblicare un lavoro come questo e per questo ha scelto la strada del crowdfunding.
Ma che cos'ha di tanto speciale questo lavoro? Come svanire completamente è un cofanetto a forma di libro. Quando lo si apre, all'interno ci troviamo qualche decina di librettini spillati in formato A6 e tenuti insieme da fascette di carta, delle polaroid disegnate in una busta, delle cartoline, degli scontrini, la mappa di un luogo. Poi un altro foglio con i nomi dei sottoscrittori e brevissime istruzioni per l'uso, quelle in cui Baronciani ci dice che possiamo cominciare la lettura dove vogliamo e completare a mente, ma possibilmente leggendo tutto in una volta.
Così, una sera in cui ero un po' febbricitante ho letto tutto. Comprendo che al centro della storia c'è una ragazza, o forse una sirena approdata sulla terra, che si innamora di un ragazzo e che gira dei video su di sé per lasciare delle tracce; ma un giorno la storia finisce e intanto questo ragazzo è diventato ormai vecchio.
Quello che c'è nella scatola sono pezzi di questa storia, una specie di testimonianze concrete del fatto che l'esistenza di questa ragazza non è stata solo un sogno, ma una realtà.
Però dopo aver letto tutti i librettini sono sicura che qualcosa mi è sfuggito, perché non ho capito proprio tutto. Così do la colpa alla febbre e rimando a un momento migliore un secondo tentativo, che arriva qualche giorno dopo.
Metto tutti questi librettini sul letto e, forte del fatto di averli già letti una volta, provo a ricostruirne la sequenza temporale, anche osservando meglio particolari e disegni. E probabilmente qualche filo temporale si riconosce. Ma alla fine i conti non tornano.
Del resto l'autore in una intervista tiene a precisare che non si tratta di un puzzle e dunque il quadro completo non verrà mai fuori, e dunque spetta al lettore completare e dare un senso a una storia i cui frammenti non consentono di farsi un'idea completa.
Forse si tratta di una leggenda o di una favola, o forse ancora questo racconto è una metafora di una narrazione che si fa sempre più frammentaria ma al contempo in qualche modo persistente grazie all'aumento esponenziale delle testimonianze del proprio svolgersi attraverso video, fotografie, oggetti.
Un bel gioco quello che Baronciani ha messo in piedi con il lettore e che si è svolto a cavallo tra il Web, in una dimensione dunque immateriale, e la fisicità di una scatola di cartone con il suo contenuto.
Voto: 3,5/5
mercoledì 14 dicembre 2016
È solo la fine del mondo
Dopo il percorso estivo di parziale recupero della filmografia di Dolan, eccomi puntuale all'appuntamento con il suo ultimo film, È solo la fine del mondo, che ha vinto il Grand Prix a Cannes.
Ora, premesso che la leggerezza non è certamente la migliore caratteristica di questo giovane regista e considerato che negli anni essa sembra ulteriormente ridimensionarsi, quest'ultimo film - fors'anche per il fatto che si ispira a una pièce teatrale - è particolarmente cupo e claustrofobico.
Louis (Gaspard Ulliel) sta per morire e ha deciso di tornare a casa, da dove manca da dodici anni, per comunicarlo alla sua famiglia. Ad aspettarlo ci sono la madre (Nathalie Baye), la sorella più piccola che lui quasi non conosce, Suzanne (Léa Seydoux), il fratello maggiore, Antoine (Vincent Cassel), e la moglie Catherine (Marion Cotillard).
Le poche ore che ruotano intorno al pranzo in famiglia che, nelle intenzioni di Louis, dovevano rappresentare l'occasione per riprendere contatto con una famiglia da cui lui aveva sentito la necessità per molto tempo di stare lontano, diventa una vera e propria resa dei conti tra chi è rimasto e chi è andato.
A uno a uno, Louis dovrà confrontarsi con ciascuno di loro. Prima con Suzanne, che prova sentimenti di ammirazione per Louis ma anche di delusione a causa dell'abbandono da parte del fratello, e sembra in qualche modo incapace di spiccare il volo dal nido materno. Poi con la madre che ammette la propria incapacità di comprendere questo figlio ma gli attribuisce un ruolo carismatico e di conseguenza una grande responsabilità rispetto a Suzanne e Antoine. Infine con Antoine che ha un profondissimo rancore verso il fratello, che percepisce come un privilegiato e un irresponsabile, e che nonostante tutto ha ricevuto maggiore apprezzamento dalla sua famiglia.
Su tutti la figura spaurita di Catherine, la moglie di Antoine, travolta dalle dinamiche perverse della famiglia del marito e dal crescendo di conflittualità, ma capace - più di chiunque altro grazie al suo sguardo esterno - di comprendere quello che sta succedendo e il vero motivo per cui Louis è tornato.
Il film di Dolan ci stordisce di parole fittissime, di musiche altissime, di primi piani vicinissimi, rendendoci partecipi di una tensione rispetto alla quale restiamo sempre spettatori, ma che in qualche modo mina nel profondo qualunque nostra serenità.
Louis è invece prevalentemente fatto di silenzi, di sguardi, di ricordi, di pensieri, travolto anche lui da un fiume in piena che pensava di aver arginato con le sue scelte di vita. In realtà, come l'uccellino del cucù che abita la casa di famiglia, la sua scelta di distanza è probabilmente stata una scelta di sopravvivenza, un rifugiarsi all'interno di una security zone, abbandonata la quale non può che volare impazzito cozzando contro tutto quello che incontra.
Perché - come diceva non so chi, visto che ormai più che una citazione è diventata un bagaglio mio personale - si può divorziare da un marito, ma dalla propria famiglia di origine non si divorzia mai, nemmeno quando si mettono anni e chilometri in mezzo. Non c'è altra strategia che trovare un modo di conviverci, venirci a patti, accettarne la disfunzionalità senza esserne totalmente schiacciati, per poi recuperarne anche gli aspetti migliori.
Non sappiamo con quali motivazioni Louis torna dalla sua famiglia: forse per una lontana speranza di ricomporre in punto di morte tutti i pezzi andati in frantumi, oppure per una sottile e definitiva vendetta nel comunicargli che non tornerà mai più? Niente però è governabile davvero nel turbinio delle folli dinamiche familiari e non si può che uscirne ancora una volta sconfitti.
È solo la fine del mondo è costruito con il passo antico dei thriller psicologici degli anni Sessanta (a me ha fatto pensare a tratti a Marnie di Alfred Hitchcock) e al contempo con il piglio della contemporaneità; su tutto aleggia lo stile di Dolan, che è in qualche modo sempre uguale e nello stesso tempo sempre diverso.
Personalmente un film che ho trovato fortissimamente cerebrale e intellettualistico e ho molto apprezzato su questo piano (come altre pellicole del regista), ma che rimane secondo me emotivamente un po' debole e narrativamente a tratti didascalico. Ma magari sono io che non ho capito niente ;-)
Voto: 3,5/5
Ora, premesso che la leggerezza non è certamente la migliore caratteristica di questo giovane regista e considerato che negli anni essa sembra ulteriormente ridimensionarsi, quest'ultimo film - fors'anche per il fatto che si ispira a una pièce teatrale - è particolarmente cupo e claustrofobico.
Louis (Gaspard Ulliel) sta per morire e ha deciso di tornare a casa, da dove manca da dodici anni, per comunicarlo alla sua famiglia. Ad aspettarlo ci sono la madre (Nathalie Baye), la sorella più piccola che lui quasi non conosce, Suzanne (Léa Seydoux), il fratello maggiore, Antoine (Vincent Cassel), e la moglie Catherine (Marion Cotillard).
Le poche ore che ruotano intorno al pranzo in famiglia che, nelle intenzioni di Louis, dovevano rappresentare l'occasione per riprendere contatto con una famiglia da cui lui aveva sentito la necessità per molto tempo di stare lontano, diventa una vera e propria resa dei conti tra chi è rimasto e chi è andato.
A uno a uno, Louis dovrà confrontarsi con ciascuno di loro. Prima con Suzanne, che prova sentimenti di ammirazione per Louis ma anche di delusione a causa dell'abbandono da parte del fratello, e sembra in qualche modo incapace di spiccare il volo dal nido materno. Poi con la madre che ammette la propria incapacità di comprendere questo figlio ma gli attribuisce un ruolo carismatico e di conseguenza una grande responsabilità rispetto a Suzanne e Antoine. Infine con Antoine che ha un profondissimo rancore verso il fratello, che percepisce come un privilegiato e un irresponsabile, e che nonostante tutto ha ricevuto maggiore apprezzamento dalla sua famiglia.
Su tutti la figura spaurita di Catherine, la moglie di Antoine, travolta dalle dinamiche perverse della famiglia del marito e dal crescendo di conflittualità, ma capace - più di chiunque altro grazie al suo sguardo esterno - di comprendere quello che sta succedendo e il vero motivo per cui Louis è tornato.
Il film di Dolan ci stordisce di parole fittissime, di musiche altissime, di primi piani vicinissimi, rendendoci partecipi di una tensione rispetto alla quale restiamo sempre spettatori, ma che in qualche modo mina nel profondo qualunque nostra serenità.
Louis è invece prevalentemente fatto di silenzi, di sguardi, di ricordi, di pensieri, travolto anche lui da un fiume in piena che pensava di aver arginato con le sue scelte di vita. In realtà, come l'uccellino del cucù che abita la casa di famiglia, la sua scelta di distanza è probabilmente stata una scelta di sopravvivenza, un rifugiarsi all'interno di una security zone, abbandonata la quale non può che volare impazzito cozzando contro tutto quello che incontra.
Perché - come diceva non so chi, visto che ormai più che una citazione è diventata un bagaglio mio personale - si può divorziare da un marito, ma dalla propria famiglia di origine non si divorzia mai, nemmeno quando si mettono anni e chilometri in mezzo. Non c'è altra strategia che trovare un modo di conviverci, venirci a patti, accettarne la disfunzionalità senza esserne totalmente schiacciati, per poi recuperarne anche gli aspetti migliori.
Non sappiamo con quali motivazioni Louis torna dalla sua famiglia: forse per una lontana speranza di ricomporre in punto di morte tutti i pezzi andati in frantumi, oppure per una sottile e definitiva vendetta nel comunicargli che non tornerà mai più? Niente però è governabile davvero nel turbinio delle folli dinamiche familiari e non si può che uscirne ancora una volta sconfitti.
È solo la fine del mondo è costruito con il passo antico dei thriller psicologici degli anni Sessanta (a me ha fatto pensare a tratti a Marnie di Alfred Hitchcock) e al contempo con il piglio della contemporaneità; su tutto aleggia lo stile di Dolan, che è in qualche modo sempre uguale e nello stesso tempo sempre diverso.
Personalmente un film che ho trovato fortissimamente cerebrale e intellettualistico e ho molto apprezzato su questo piano (come altre pellicole del regista), ma che rimane secondo me emotivamente un po' debole e narrativamente a tratti didascalico. Ma magari sono io che non ho capito niente ;-)
Voto: 3,5/5
lunedì 12 dicembre 2016
Il posto di ognuno / Maurizio De Giovanni
Il posto di ognuno. L’estate del commissario Ricciardi / Maurizio De Giovanni. Torino: Einaudi, 2012.
Escono in una nuova edizione le cosiddette “stagioni” del commissario Ricciardi e io, allora in partenza per il mio viaggio estivo, decido di comprare quella dedicata all’estate.
Conosco già il commissario Ricciardi perché avevo letto a suo tempo un altro romanzo di Maurizio De Giovanni con lui come protagonista, In fondo al tuo cuore.
Il Ricciardi è un personaggio interessante: ombroso, tormentato, ricco ma che ha deciso di dedicarsi a trovare i colpevoli come fosse la sua missione di vita; orfano di entrambi i genitori, vive con la tata Rosa che si comporta con lui come una vera mamma.
Ricciardi ha un demone interiore che non rivela a nessuno, una specie di maledizione, ossia quella di vedere i fantasmi dei morti e di sentirne ripetere all’infinito le ultime parole. Per questo il commissario ha scelto una vita di solitudine sentimentale.
In questo romanzo, forse il primo della serie, si racconta la storia di Ricciardi e di come tutto è cominciato, risalendo alla morte dei genitori. Si capisce dunque perché Ricciardi, a parte la collaborazione e l’amicizia del brigadiere Maione, ha scelto di non stringere rapporti di amicizia o di amore, anche se in questo romanzo si affacciano al suo cuore sentimenti nuovi, quello per Enrica, che assomiglia molto all’amore, e quello per Livia, che assomiglia invece di più all’attrazione fisica e alla passione.
In realtà, l’intero romanzo, ambientato in una torrida estate napoletana negli anni Trenta, utilizza la metafora del caldo estivo per parlare di tutti quei sentimenti forti che ruotano intorno all’amore, come ad esempio la passione e la gelosia.
Tutti i personaggi del romanzo, sia quelli consolidati, sia quelli protagonisti della storia qui raccontata, sono in qualche modo vittime di tali sentimenti e devono farci i conti ognuno a suo modo.
Il delitto che è al centro del romanzo, quello della duchessa Chiamparino, appare anch’esso un delitto passione, dal momento che la donna assassinata, diventata duchessa dopo aver sedotto il duca rimasto vedovo, è una donna che in vita ha fatto innamorare di sé molti uomini, in particolare Mario Capece, un giornalista che per amore di lei ha abbandonato moglie e figli. Ma i protagonisti di questa vicenda – come spesso accade nei casi di Ricciardi – sono numerosi e tutti con storie personali ricche e articolate.
Pur avendo qualche sensazione di già letto e riconoscendo che le storie di Ricciardi presentano alcuni elementi un po’ ripetitivi (ed è significativo che lo dica io dopo aver letto solo due romanzi), si tratta di romanzi gradevoli e ben scritti, piuttosto avvincenti dal punto di vista della costruzione del giallo e con personaggi interessanti.
Una lettura dunque da consigliare sempre.
Voto: 3/5
Escono in una nuova edizione le cosiddette “stagioni” del commissario Ricciardi e io, allora in partenza per il mio viaggio estivo, decido di comprare quella dedicata all’estate.
Conosco già il commissario Ricciardi perché avevo letto a suo tempo un altro romanzo di Maurizio De Giovanni con lui come protagonista, In fondo al tuo cuore.
Il Ricciardi è un personaggio interessante: ombroso, tormentato, ricco ma che ha deciso di dedicarsi a trovare i colpevoli come fosse la sua missione di vita; orfano di entrambi i genitori, vive con la tata Rosa che si comporta con lui come una vera mamma.
Ricciardi ha un demone interiore che non rivela a nessuno, una specie di maledizione, ossia quella di vedere i fantasmi dei morti e di sentirne ripetere all’infinito le ultime parole. Per questo il commissario ha scelto una vita di solitudine sentimentale.
In questo romanzo, forse il primo della serie, si racconta la storia di Ricciardi e di come tutto è cominciato, risalendo alla morte dei genitori. Si capisce dunque perché Ricciardi, a parte la collaborazione e l’amicizia del brigadiere Maione, ha scelto di non stringere rapporti di amicizia o di amore, anche se in questo romanzo si affacciano al suo cuore sentimenti nuovi, quello per Enrica, che assomiglia molto all’amore, e quello per Livia, che assomiglia invece di più all’attrazione fisica e alla passione.
In realtà, l’intero romanzo, ambientato in una torrida estate napoletana negli anni Trenta, utilizza la metafora del caldo estivo per parlare di tutti quei sentimenti forti che ruotano intorno all’amore, come ad esempio la passione e la gelosia.
Tutti i personaggi del romanzo, sia quelli consolidati, sia quelli protagonisti della storia qui raccontata, sono in qualche modo vittime di tali sentimenti e devono farci i conti ognuno a suo modo.
Il delitto che è al centro del romanzo, quello della duchessa Chiamparino, appare anch’esso un delitto passione, dal momento che la donna assassinata, diventata duchessa dopo aver sedotto il duca rimasto vedovo, è una donna che in vita ha fatto innamorare di sé molti uomini, in particolare Mario Capece, un giornalista che per amore di lei ha abbandonato moglie e figli. Ma i protagonisti di questa vicenda – come spesso accade nei casi di Ricciardi – sono numerosi e tutti con storie personali ricche e articolate.
Pur avendo qualche sensazione di già letto e riconoscendo che le storie di Ricciardi presentano alcuni elementi un po’ ripetitivi (ed è significativo che lo dica io dopo aver letto solo due romanzi), si tratta di romanzi gradevoli e ben scritti, piuttosto avvincenti dal punto di vista della costruzione del giallo e con personaggi interessanti.
Una lettura dunque da consigliare sempre.
Voto: 3/5
mercoledì 7 dicembre 2016
Rumori fuori scena. Teatro Vittoria, 1 dicembre 2016
Premessa: ho visto lo spettacolo in condizioni penose. Poco prima avevo avuto il primo attacco di quello che sarebbe stato un violentissimo virus gastrointestinale, che mi ha costretto ad una piccola pausa anche a metà dello spettacolo.
Inoltre, dopo 5 minuti dall’inizio, mi sono resa conto che tanto tempo fa l’avevo già visto, forse sempre al Teatro Vittoria e con un allestimento molto simile.
Eh sì, perché questa commedia di Michael Frayn è stata scritta nel 1982 e portata in scena in Italia la prima volta nel 1983. Quindi siamo a oltre trent’anni di repliche, il che la dice lunga sulla qualità di questo testo, sulla sua longevità e sul successo che ha avuto.
Dunque, pur in condizioni penose e pur avendolo già visto, devo dire che sono comunque riuscita ad apprezzare lo stesso la visione e mi sono fatta qualche risata febbricitante.
Rumori fuori scena è una commedia in tre atti e racconta di una sgangherata compagnia teatrale che porta in scena uno spettacolo, dovendo affrontare una serie di difficoltà organizzative nonché le conseguenze delle dinamiche relazionali tra gli attori. I personaggi sono Dotty (nello spettacolo La signora Clackett), Garry (nello spettacolo Roger), Brooke (nello spettacolo Vicky), Frederick (nello spettacolo Philip Brent e Lo Sceicco), Belinda (nello spettacolo Flavia Brent), Selsdon Mowbray (nello spettacolo Lo Scassinatore), Lloyd Dallas, il regista, Tim, direttore di scena, e Poppy, assistente di scena.
Il primo atto è la prova generale della commedia; si svolge a tarda notte e va avanti faticosamente a causa del fatto che ci sono attori insicuri (come Frederick), indisciplinati (come Selsdon) o incapaci (come Vicky). A poco a poco emergono anche i rapporti tra di loro, per esempio il fatto che Lloyd, il regista, ha una storia con Brooke e per questo suscita la gelosia di Poppy che pure ha avuto una storia con lui, mentre Garry sta con Dotty ma è estremamente geloso, in particolare di Frederick che considera suo rivale.
Nel secondo atto lo spettacolo è in scena ma noi vediamo il dietro le quinte, dove le tensioni tra Lloyd e Poppy, e quelle tra Garry e Frederick si fanno via via più intense finendo per coinvolgere tutti gli altri membri della compagnia e condizionando il buon esito dello spettacolo.
Il terzo atto è un’ulteriore messa in scena della commedia e questa volta lo spettatore vede quello che accade sul proscenio, dove però a poco a poco risulta evidente che ormai i rapporti tra i membri della compagnia sono ormai trascesi al punto tale da creare una serie di esilaranti situazioni in scena che culmineranno in un liberatorio finale di massima confusione.
Il testo di questa commedia è un meccanismo ad orologeria perfetto che certamente richiede – per la sua buona riuscita – una straordinaria capacità degli attori di mantenere sempre il ritmo e di entrare e uscire dai doppi personaggi che interpretano con grande maestria, in un crescendo di gag che trascina lo spettatore all’applauso finale.
La compagnia Attori & Tecnici che lo porta in scena dimostra di essere perfettamente collaudata su questo testo e – dopo molti anni di messa in scena – riesce ancora a trasmettere freschezza alla rappresentazione.
Un unico appunto: personalmente non amo molto gli adattamenti del testo al contesto. In questo caso ad esempio trovo che stoni un po’ avere personaggi con nomi inglesi e poi parlare di luoghi italiani o fare riferimento a cose che in qualche modo sono più vicini alla nostra cultura e comprensione, anche se ne capisco le motivazioni.
Ciò detto, e nonostante tutto, ho apprezzato molto e mi pare anche il pubblico tutto – e sempre numeroso – in sala.
Voto: 3,5/5
Inoltre, dopo 5 minuti dall’inizio, mi sono resa conto che tanto tempo fa l’avevo già visto, forse sempre al Teatro Vittoria e con un allestimento molto simile.
Eh sì, perché questa commedia di Michael Frayn è stata scritta nel 1982 e portata in scena in Italia la prima volta nel 1983. Quindi siamo a oltre trent’anni di repliche, il che la dice lunga sulla qualità di questo testo, sulla sua longevità e sul successo che ha avuto.
Dunque, pur in condizioni penose e pur avendolo già visto, devo dire che sono comunque riuscita ad apprezzare lo stesso la visione e mi sono fatta qualche risata febbricitante.
Rumori fuori scena è una commedia in tre atti e racconta di una sgangherata compagnia teatrale che porta in scena uno spettacolo, dovendo affrontare una serie di difficoltà organizzative nonché le conseguenze delle dinamiche relazionali tra gli attori. I personaggi sono Dotty (nello spettacolo La signora Clackett), Garry (nello spettacolo Roger), Brooke (nello spettacolo Vicky), Frederick (nello spettacolo Philip Brent e Lo Sceicco), Belinda (nello spettacolo Flavia Brent), Selsdon Mowbray (nello spettacolo Lo Scassinatore), Lloyd Dallas, il regista, Tim, direttore di scena, e Poppy, assistente di scena.
Il primo atto è la prova generale della commedia; si svolge a tarda notte e va avanti faticosamente a causa del fatto che ci sono attori insicuri (come Frederick), indisciplinati (come Selsdon) o incapaci (come Vicky). A poco a poco emergono anche i rapporti tra di loro, per esempio il fatto che Lloyd, il regista, ha una storia con Brooke e per questo suscita la gelosia di Poppy che pure ha avuto una storia con lui, mentre Garry sta con Dotty ma è estremamente geloso, in particolare di Frederick che considera suo rivale.
Nel secondo atto lo spettacolo è in scena ma noi vediamo il dietro le quinte, dove le tensioni tra Lloyd e Poppy, e quelle tra Garry e Frederick si fanno via via più intense finendo per coinvolgere tutti gli altri membri della compagnia e condizionando il buon esito dello spettacolo.
Il terzo atto è un’ulteriore messa in scena della commedia e questa volta lo spettatore vede quello che accade sul proscenio, dove però a poco a poco risulta evidente che ormai i rapporti tra i membri della compagnia sono ormai trascesi al punto tale da creare una serie di esilaranti situazioni in scena che culmineranno in un liberatorio finale di massima confusione.
Il testo di questa commedia è un meccanismo ad orologeria perfetto che certamente richiede – per la sua buona riuscita – una straordinaria capacità degli attori di mantenere sempre il ritmo e di entrare e uscire dai doppi personaggi che interpretano con grande maestria, in un crescendo di gag che trascina lo spettatore all’applauso finale.
La compagnia Attori & Tecnici che lo porta in scena dimostra di essere perfettamente collaudata su questo testo e – dopo molti anni di messa in scena – riesce ancora a trasmettere freschezza alla rappresentazione.
Un unico appunto: personalmente non amo molto gli adattamenti del testo al contesto. In questo caso ad esempio trovo che stoni un po’ avere personaggi con nomi inglesi e poi parlare di luoghi italiani o fare riferimento a cose che in qualche modo sono più vicini alla nostra cultura e comprensione, anche se ne capisco le motivazioni.
Ciò detto, e nonostante tutto, ho apprezzato molto e mi pare anche il pubblico tutto – e sempre numeroso – in sala.
Voto: 3,5/5
lunedì 5 dicembre 2016
La rabbia / a cura di Valerio Bindi e Luca Raffaelli
La rabbia / Bambi Kramer; Filosa e Noce; Hurricane; Nomisake e Trapani; Ratigher; Sonno; Tso e Primosig; Zerocalcare; a cura di Valerio Bindi e Luca Raffaelli. Torino: Einaudi, 2016.
La rabbia è una raccolta di racconti a fumetti realizzati da vari esponenti del mondo del fumetto underground, quello che si riunisce intorno al festival autorganizzato Crack! che si svolge al Forte Prenestino, il centro sociale occupato della zona est di Roma.
Il tema è quello dichiarato nel titolo della raccolta, ed è affidato a un gruppo di ragazzi che sono nati tra il 1978 e il 1992 e dunque appartengono a quella generazione senza futuro per cui la rabbia non si è mai trasformata in azione collettiva, bensì si è espressa spesso in frustrazione individuale e crisi di identità.
Per quanto mi riguarda mi sono accostata a questo lavoro principalmente attirata dalla presenza di Zerocalcare, il cui contributo dal titolo Così passi dalla parte del torto in questa raccolta è divertente e tagliente come al solito, ma devo dire che sono rimasta alquanto spiazzata di fronte alle altre storie che compongono il libro: Hordak 128 di Ratigher, krash di Bambi Kramer, Almeno un’ora in più di Annalisa Trapani e Laura Nomisake, Torrespaccata di Vincenzo Filosa e Giusy Noce, Ballate in ritardo di Sonno, Oggetti smarriti di Federico Primosig e Simone Tso, L’attesa di Hurricane. Il tutto si chiude con un breve commento a fumetti di uno dei curatori della raccolta, Valerio Bindi.
Le storie che mi sono piaciute di più, oltre a Zerocalcare, sono quella di Ratigher e quella di Hurricane, ma forse sono soltanto quelle che ho capito di più perché più vicine all’impianto narrativo mainstream dei graphic novel. Gli altri racconti o non hanno affatto un impianto narrativo, come nel caso di Bambi Kramer, oppure ce l’hanno ma oscilla tra il realistico e l’onirico, come nel caso di Filosa e Noce e di Sonno, ovvero tra il realistico e il concettuale come per Trapani/Nomisake e Primosig/Tso.
Io che non sono abituata a lasciarmi andare alla forza comunicativa dei disegni e al flusso insensato delle parole ho fatto molta fatica a entrare nello spirito di alcune di queste storie, e in diversi casi non ci sono entrata affatto. Eppure la mia esperienza di lettura di questa raccolta è stata alla fine molto positiva, perché mi ha esposto a quella che potrei chiamare la natura “primordiale” del fumetto, la sua dimensione di strumento espressivo prima ancora che narrativo, più vicino per certi versi all’arte dei murales o alla poesia che ai romanzi. E ho compreso così tutto il potenziale creativo che c’è in questo ambiente e che in qualche modo è indipendente dal desiderio di essere compresi e riconosciuti.
In fondo non c’è niente che possa esprimere meglio di questo fumetto underground la rabbia di questa generazione abbandonata, di cui nessuno si sforza di comprendere le aspirazioni e i desideri, e che proprio per questo si rinchiude su stessa in modalità espressive che a prima vista risultano involute, ma lo sono solo per chi non ha cuore e sensibilità per comprendere.
Voto: 3/5
La rabbia è una raccolta di racconti a fumetti realizzati da vari esponenti del mondo del fumetto underground, quello che si riunisce intorno al festival autorganizzato Crack! che si svolge al Forte Prenestino, il centro sociale occupato della zona est di Roma.
Il tema è quello dichiarato nel titolo della raccolta, ed è affidato a un gruppo di ragazzi che sono nati tra il 1978 e il 1992 e dunque appartengono a quella generazione senza futuro per cui la rabbia non si è mai trasformata in azione collettiva, bensì si è espressa spesso in frustrazione individuale e crisi di identità.
Per quanto mi riguarda mi sono accostata a questo lavoro principalmente attirata dalla presenza di Zerocalcare, il cui contributo dal titolo Così passi dalla parte del torto in questa raccolta è divertente e tagliente come al solito, ma devo dire che sono rimasta alquanto spiazzata di fronte alle altre storie che compongono il libro: Hordak 128 di Ratigher, krash di Bambi Kramer, Almeno un’ora in più di Annalisa Trapani e Laura Nomisake, Torrespaccata di Vincenzo Filosa e Giusy Noce, Ballate in ritardo di Sonno, Oggetti smarriti di Federico Primosig e Simone Tso, L’attesa di Hurricane. Il tutto si chiude con un breve commento a fumetti di uno dei curatori della raccolta, Valerio Bindi.
Le storie che mi sono piaciute di più, oltre a Zerocalcare, sono quella di Ratigher e quella di Hurricane, ma forse sono soltanto quelle che ho capito di più perché più vicine all’impianto narrativo mainstream dei graphic novel. Gli altri racconti o non hanno affatto un impianto narrativo, come nel caso di Bambi Kramer, oppure ce l’hanno ma oscilla tra il realistico e l’onirico, come nel caso di Filosa e Noce e di Sonno, ovvero tra il realistico e il concettuale come per Trapani/Nomisake e Primosig/Tso.
Io che non sono abituata a lasciarmi andare alla forza comunicativa dei disegni e al flusso insensato delle parole ho fatto molta fatica a entrare nello spirito di alcune di queste storie, e in diversi casi non ci sono entrata affatto. Eppure la mia esperienza di lettura di questa raccolta è stata alla fine molto positiva, perché mi ha esposto a quella che potrei chiamare la natura “primordiale” del fumetto, la sua dimensione di strumento espressivo prima ancora che narrativo, più vicino per certi versi all’arte dei murales o alla poesia che ai romanzi. E ho compreso così tutto il potenziale creativo che c’è in questo ambiente e che in qualche modo è indipendente dal desiderio di essere compresi e riconosciuti.
In fondo non c’è niente che possa esprimere meglio di questo fumetto underground la rabbia di questa generazione abbandonata, di cui nessuno si sforza di comprendere le aspirazioni e i desideri, e che proprio per questo si rinchiude su stessa in modalità espressive che a prima vista risultano involute, ma lo sono solo per chi non ha cuore e sensibilità per comprendere.
Voto: 3/5
sabato 3 dicembre 2016
L’uomo degli scacchi / Peter May
L’uomo degli scacchi / Peter May; trad. di Chiara Ujka. Torino: Einaudi, 2015.
Ed eccoci al terzo e ultimo capitolo della trilogia che Peter May ha voluto dedicare all’isola di Lewis, nelle Ebridi esterne, con protagonista il poliziotto (ormai ex poliziotto) Fin McLeod.
I primi due capitoli della trilogia, L’isola dei cacciatori di uccelli e L’uomo di Lewis, mi erano piaciuti molto per la forte relazione tra le vicende narrate (spesso generate da eventi irrisolti del passato, in buona parte collegati alla vita personale di Fin McLeod) e le caratteristiche ambientali dell’isola, estrema nei suoi paesaggi e negli eventi atmosferici che l’hanno disegnata.
Avevo dunque comprato questo terzo romanzo con grandi speranze, anche se già dopo che lo aveva letto C. mi erano venuti i primi dubbi, visti i suoi commenti non proprio entusiastici. Ed effettivamente quando mi sono imbarcata nella lettura mi sono immediatamente resa conto che non riusciva a conquistarmi.
A mio parere i difetti peggiori di questo terzo capitolo sono una sostanziale mancanza di idee e una scrittura pochissimo empatica.
Il sospetto che Peter May, a partire da un’idea di fondo piuttosto esile per questo romanzo (e che ravviva solo la seconda parte del libro), abbia poi voluto infarcirlo di tante piccole storie che però singolarmente rimangono piuttosto sganciate le une dalle altre e di descrizioni ambientali in qualche modo giustapposte è piuttosto forte.
Vero è che la specificità narrativa di May, anche negli altri libri, consisteva nel tessere una trama fatta di tanti fili narrativi che seguono personaggi e storie del passato per poi ricomporli in un quadro di insieme finale in cui tutti i tasselli vanno a posto. In questo però la medesima strategia narrativa appare meccanica, poco fluida e soprattutto poco coinvolgente sul piano emotivo. Qua e là non mancano le ripetizioni e le ridondanze descrittive, nonché il tentativo un po’ faticoso di dare un senso e in qualche modo una degna conclusione alle storie di tutti i personaggi introdotti nei romanzi precedenti.
Non dirò niente della trama, piuttosto arzigogolata; dirò solo che il risultato finale è purtroppo deludente e si arriva alla fine del libro con non poca fatica.
Voto: 2,5/5
Ed eccoci al terzo e ultimo capitolo della trilogia che Peter May ha voluto dedicare all’isola di Lewis, nelle Ebridi esterne, con protagonista il poliziotto (ormai ex poliziotto) Fin McLeod.
I primi due capitoli della trilogia, L’isola dei cacciatori di uccelli e L’uomo di Lewis, mi erano piaciuti molto per la forte relazione tra le vicende narrate (spesso generate da eventi irrisolti del passato, in buona parte collegati alla vita personale di Fin McLeod) e le caratteristiche ambientali dell’isola, estrema nei suoi paesaggi e negli eventi atmosferici che l’hanno disegnata.
Avevo dunque comprato questo terzo romanzo con grandi speranze, anche se già dopo che lo aveva letto C. mi erano venuti i primi dubbi, visti i suoi commenti non proprio entusiastici. Ed effettivamente quando mi sono imbarcata nella lettura mi sono immediatamente resa conto che non riusciva a conquistarmi.
A mio parere i difetti peggiori di questo terzo capitolo sono una sostanziale mancanza di idee e una scrittura pochissimo empatica.
Il sospetto che Peter May, a partire da un’idea di fondo piuttosto esile per questo romanzo (e che ravviva solo la seconda parte del libro), abbia poi voluto infarcirlo di tante piccole storie che però singolarmente rimangono piuttosto sganciate le une dalle altre e di descrizioni ambientali in qualche modo giustapposte è piuttosto forte.
Vero è che la specificità narrativa di May, anche negli altri libri, consisteva nel tessere una trama fatta di tanti fili narrativi che seguono personaggi e storie del passato per poi ricomporli in un quadro di insieme finale in cui tutti i tasselli vanno a posto. In questo però la medesima strategia narrativa appare meccanica, poco fluida e soprattutto poco coinvolgente sul piano emotivo. Qua e là non mancano le ripetizioni e le ridondanze descrittive, nonché il tentativo un po’ faticoso di dare un senso e in qualche modo una degna conclusione alle storie di tutti i personaggi introdotti nei romanzi precedenti.
Non dirò niente della trama, piuttosto arzigogolata; dirò solo che il risultato finale è purtroppo deludente e si arriva alla fine del libro con non poca fatica.
Voto: 2,5/5
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