La meccanica del cuore / Mathias Malzieu; trad. di Cinzia Poli. Milano: Feltrinelli, 2012.
Era un pezzo che il libro di Mathias Malzieu soggiornava sugli scaffali della mia libreria dopo essere stato comprato in libreria attirata principalmente dalla copertina ;-)
In una estate di letture matte e disordinate, l'occhio mi cade su questo libro e finalmente è il momento giusto per leggerlo!
Quella di Mathias Malzieu è una favola che ricorda un po' le atmosfere dei film di Tim Burton (e anche la copertina ci rimanda a quel mondo), con il suo protagonista Jack che fin dalla nascita vive con un orologio a cucù impiantato nel petto per consentire al suo cuore di funzionare.
A fare questo intervento è stata Madeleine, una donna che oltre ad aiutare altre donne a partorire figli non voluti, ripara i corpi con strane protesi che li trasformano in buffi androidi. Jack, abbandonato da sua madre e non voluto da altre famiglie in adozione, viene preso sotto l'ala protettrice di Madeleine che sul letto gli appende una lavagnetta con le regole che deve seguire per garantirsi la sopravvivenza: "Uno, non toccare le lancette. Due, domina la rabbia. Tre, non innamorarti, mai e poi mai".
Ma - come si sa - al cuor non si comanda. E così un giorno Jack si innamora di una piccola cantante spagnola che rifiutandosi di portare gli occhiali sbatte spesso qui e là. Per questa ragazza Jack sarà disposto a fare qualunque cosa, inseguendola fino in Spagna a bordo di un monopattino, insieme all'amico George Méliès, l'illusionista e inventore della fotografia in movimento.
Alla fine l'amore sboccerà, ma Jack non sa che esso porta con sé non solo grandi emozioni e una straordinaria vitalità, bensì anche sentimenti di gelosia e paura dell'abbandono, fino a condurre il nostro protagonista a mettere a rischio la sua stessa vita pur di salvare la sua storia d'amore.
Il romanzo di Mathias Malzieu è un'affascinante per quanto semplice storia di formazione che racconta il passaggio dai sogni dell'infanzia e adolescenza alla inevitabile necessità di confrontarsi con la realtà che è propria dell'età adulta. Ma è anche una efficace metafora del modo in cui funzionano i sentimenti, in particolare l'amore, e dell'impossibilità di sfuggire alle sue ineluttabili, inebrianti e dolorose leggi.
Una scrittura molto visiva che attinge creativamente a generi diversi e si puntella su personaggi e luoghi in parte reali, all'interno di una costruzione che più fantastica non si può.
Una lettura gradevole che a me però è rimasta un po' in superficie.
Voto: 3/5
lunedì 29 marzo 2021
giovedì 25 marzo 2021
Mia madre / Li Kunwu
Mia madre / Li Kunwu; trad. dal francese di Giovanni Zucca. Torino: add editore, 2020.
Per chi come me ha letto e apprezzato i tre volumi di Una vita cinese, il graphic novel autobiografico di Li Kunwu che prende l’avvio dagli anni Cinquanta quando sua madre e suo padre si incontrano e iniziano la loro vita insieme, questo nuovo albo è una lettura praticamente obbligatoria, in quanto costituisce una specie di prequel dell’altro lavoro di Kunwu.
Qui l’attenzione del fumettista si concentra sulla figura della madre, Tao Fengyun, chiamata affettuosamente Xinzhen, figura che era stata in buona parte trascurata negli altri volumi. Nella dedica che precede il libro, Kunwu racconta di come la sua conoscenza della vita di sua madre è stata approfondita tardi, quando lui aveva già oltre i quarant’anni e aveva cominciato ad accompagnare Xinzhen in lunghe passeggiate durante le quali ascoltava i racconti della sua infanzia.
È stato così che, dopo la sua morte, Kunwu ha deciso di tradurre questi racconti in un romanzo a fumetti che inizia quando Xinzhen è ancora nella pancia di sua madre e finisce con l’incontro con il suo futuro marito e il trasferimento in città.
Xinzhen viene da un paesino dello Yunnan, Kunming: suo padre è l’aiutante del generale Gu e i suoi rapporti con la madre sono decisamente conflittuali. Mentre la Cina vive un periodo di grandi tensioni, a causa delle guerre interne e dell’invasione giapponese, Xinzhen alterna periodi in cui vive con sua madre e gli zii, aiutando nel lavoro dei campi e occupandosi dei numerosi fratelli e cugini, e periodi che trascorre col padre presso i Gu, dove ha la possibilità di studiare e di immaginare un futuro diverso e migliore.
Xinzhen dimostra di essere portata per lo studio e le arti, soprattutto il canto, e il suo buon carattere fa sì ch’ella sia amata e apprezzata diffusamente.
Intanto però in Cina si avviano rivolgimenti epocali. Dopo che il Giappone è stato sconfitto e cacciato dal territorio cinese grazie all’alleanza temporanea tra i nazionalisti e i comunisti, inizia la guerra civile che contrappone Chiang Kai-shek a Mao Zedong e che porterà quest’ultimo al potere. È proprio dopo la vittoria di Mao - e la rivoluzione socialista che cambierà il volto della società cinese - che Xinshen incontra il funzionario di partito Li, il quale diventerà suo marito nonché padre del piccolo Li. Ma questa è un’altra storia.
Come sa chi ha letto Una vita cinese, il racconto di Kunwu è prima di tutto il racconto di storie individuali, della vita di singole persone che hanno provato a trovare la loro strada e ad affermare le proprie idee nel contesto nel quale sono nati e vissuti e con cui hanno dovuto fare i conti; ma – attraverso la storia di questi individui – è anche la storia di un intero paese che ha vissuto grandi traumi, profondi conflitti, incolmabili disuguaglianze, grandi speranze e altrettanto grandi delusioni.
A fronte della difficoltà occidentale di comprendere la Cina e il suo popolo, Li Kunwu con i suoi libri e il suo disegno sporco e nervoso, ma profondamente emotivo, ci offre la possibilità di fare un passo avanti nel superamento dei nostri pregiudizi e di andare oltre le semplificazioni che spesso la vulgata occidentale ci ha consegnato rispetto a un mondo come quello cinese che ha invece livelli di stratificazione molteplici e complessi. Si scoprirà così che la Cina – pur così diversa e lontana – partecipa di quegli stessi sentimenti che appartengono all’umanità intera e attraverso i quali possiamo riconoscerci parte di un’unica specie.
Voto: 3,5/5
Per chi come me ha letto e apprezzato i tre volumi di Una vita cinese, il graphic novel autobiografico di Li Kunwu che prende l’avvio dagli anni Cinquanta quando sua madre e suo padre si incontrano e iniziano la loro vita insieme, questo nuovo albo è una lettura praticamente obbligatoria, in quanto costituisce una specie di prequel dell’altro lavoro di Kunwu.
Qui l’attenzione del fumettista si concentra sulla figura della madre, Tao Fengyun, chiamata affettuosamente Xinzhen, figura che era stata in buona parte trascurata negli altri volumi. Nella dedica che precede il libro, Kunwu racconta di come la sua conoscenza della vita di sua madre è stata approfondita tardi, quando lui aveva già oltre i quarant’anni e aveva cominciato ad accompagnare Xinzhen in lunghe passeggiate durante le quali ascoltava i racconti della sua infanzia.
È stato così che, dopo la sua morte, Kunwu ha deciso di tradurre questi racconti in un romanzo a fumetti che inizia quando Xinzhen è ancora nella pancia di sua madre e finisce con l’incontro con il suo futuro marito e il trasferimento in città.
Xinzhen viene da un paesino dello Yunnan, Kunming: suo padre è l’aiutante del generale Gu e i suoi rapporti con la madre sono decisamente conflittuali. Mentre la Cina vive un periodo di grandi tensioni, a causa delle guerre interne e dell’invasione giapponese, Xinzhen alterna periodi in cui vive con sua madre e gli zii, aiutando nel lavoro dei campi e occupandosi dei numerosi fratelli e cugini, e periodi che trascorre col padre presso i Gu, dove ha la possibilità di studiare e di immaginare un futuro diverso e migliore.
Xinzhen dimostra di essere portata per lo studio e le arti, soprattutto il canto, e il suo buon carattere fa sì ch’ella sia amata e apprezzata diffusamente.
Intanto però in Cina si avviano rivolgimenti epocali. Dopo che il Giappone è stato sconfitto e cacciato dal territorio cinese grazie all’alleanza temporanea tra i nazionalisti e i comunisti, inizia la guerra civile che contrappone Chiang Kai-shek a Mao Zedong e che porterà quest’ultimo al potere. È proprio dopo la vittoria di Mao - e la rivoluzione socialista che cambierà il volto della società cinese - che Xinshen incontra il funzionario di partito Li, il quale diventerà suo marito nonché padre del piccolo Li. Ma questa è un’altra storia.
Come sa chi ha letto Una vita cinese, il racconto di Kunwu è prima di tutto il racconto di storie individuali, della vita di singole persone che hanno provato a trovare la loro strada e ad affermare le proprie idee nel contesto nel quale sono nati e vissuti e con cui hanno dovuto fare i conti; ma – attraverso la storia di questi individui – è anche la storia di un intero paese che ha vissuto grandi traumi, profondi conflitti, incolmabili disuguaglianze, grandi speranze e altrettanto grandi delusioni.
A fronte della difficoltà occidentale di comprendere la Cina e il suo popolo, Li Kunwu con i suoi libri e il suo disegno sporco e nervoso, ma profondamente emotivo, ci offre la possibilità di fare un passo avanti nel superamento dei nostri pregiudizi e di andare oltre le semplificazioni che spesso la vulgata occidentale ci ha consegnato rispetto a un mondo come quello cinese che ha invece livelli di stratificazione molteplici e complessi. Si scoprirà così che la Cina – pur così diversa e lontana – partecipa di quegli stessi sentimenti che appartengono all’umanità intera e attraverso i quali possiamo riconoscerci parte di un’unica specie.
Voto: 3,5/5
martedì 23 marzo 2021
Il bambino pesce / Lucía Puenzo
Il bambino pesce / Lucía Puenzo; trad. dallo spagnolo (Argentina) di Elisa Tramontin. Roma: La Nuova Frontiera, 2009.
Prima avevo sentito parlare del lungometraggio, poi - dopo qualche mese - scopro che il film è tratto dal libro omonimo di Lucía Puenzo, scrittrice e regista non solo di questo film (che non ho ancora visto), ma del bellissimo XXY.
Il bambino pesce parla di una giovane ragazza argentina di Buenos Aires, Lala, che vive in una famiglia totalmente disfunzionale: suo padre è uno scrittore di successo ma sempre sull'orlo della depressione e del suicidio, sua madre si è convertita alle discipline new age e un giorno scappa in India con un amante, suo fratello spaccia e consuma droga. Con loro vive una giovane e bella governante paraguayana, Guayi, il cui ingresso nella famiglia sconvolge i già fragili equilibri esistenti. Lala se ne innamora ricambiata, il padre ne è sedotto e la insidia, persino il cane Serafino (che è - sorprendentemente - la voce narrante del romanzo) ne è conquistato.
Lala e Guayi progettano di scappare insieme in Paraguay e di costruire una casa sulla riva del fiume Ypacaraì. Le cose saranno però molto più complicate del previsto e le due ragazze saranno divise dagli eventi, mentre man mano i segreti e i lati oscuri nascosti nella vita di ciascuna emergeranno con una forza distruttiva.
Devo ammettere di avere qualche resistenza nei confronti della letteratura sudamericana, che sento culturalmente molto lontana, soprattutto per quella componente magica o più genericamente irrazionale che la caratterizza e che fa a pugni con il mio modo di essere.
Anche in questo caso tale componente non manca: il titolo del libro si riferisce infatti a una leggenda, quella dei bambini che nascono con le branchie e le dita palmate e dunque destinati a sopravvivere solo in acqua, che il padre di Guayi, Charo, racconta a Lala in riferimento al figlio nato a Guayi da una relazione precedente, prima che la verità venga effettivamente a galla.
Il tono e l'impianto del libro mi hanno ricordato un po' Benzina di Elena Stancanelli, forse soprattutto per il ritratto delle protagoniste, angeli caduti nel fango troppo presto all'inseguimento di un amore totalizzante e in qualche misura impossibile. Le due ragazze sono infatti giovani, ingenue e innocenti (Lala più che Guayi, già messa alla prova dalla vita), ma sono inesorabilmente spinte dagli eventi e dal loro amore a una ribellione alla famiglia e all'azione criminale in una escalation che le costringerà ad andare fino in fondo.
Un libro interessante, che però mi è restato un po' in superficie.
Voto: 3/5
Prima avevo sentito parlare del lungometraggio, poi - dopo qualche mese - scopro che il film è tratto dal libro omonimo di Lucía Puenzo, scrittrice e regista non solo di questo film (che non ho ancora visto), ma del bellissimo XXY.
Il bambino pesce parla di una giovane ragazza argentina di Buenos Aires, Lala, che vive in una famiglia totalmente disfunzionale: suo padre è uno scrittore di successo ma sempre sull'orlo della depressione e del suicidio, sua madre si è convertita alle discipline new age e un giorno scappa in India con un amante, suo fratello spaccia e consuma droga. Con loro vive una giovane e bella governante paraguayana, Guayi, il cui ingresso nella famiglia sconvolge i già fragili equilibri esistenti. Lala se ne innamora ricambiata, il padre ne è sedotto e la insidia, persino il cane Serafino (che è - sorprendentemente - la voce narrante del romanzo) ne è conquistato.
Lala e Guayi progettano di scappare insieme in Paraguay e di costruire una casa sulla riva del fiume Ypacaraì. Le cose saranno però molto più complicate del previsto e le due ragazze saranno divise dagli eventi, mentre man mano i segreti e i lati oscuri nascosti nella vita di ciascuna emergeranno con una forza distruttiva.
Devo ammettere di avere qualche resistenza nei confronti della letteratura sudamericana, che sento culturalmente molto lontana, soprattutto per quella componente magica o più genericamente irrazionale che la caratterizza e che fa a pugni con il mio modo di essere.
Anche in questo caso tale componente non manca: il titolo del libro si riferisce infatti a una leggenda, quella dei bambini che nascono con le branchie e le dita palmate e dunque destinati a sopravvivere solo in acqua, che il padre di Guayi, Charo, racconta a Lala in riferimento al figlio nato a Guayi da una relazione precedente, prima che la verità venga effettivamente a galla.
Il tono e l'impianto del libro mi hanno ricordato un po' Benzina di Elena Stancanelli, forse soprattutto per il ritratto delle protagoniste, angeli caduti nel fango troppo presto all'inseguimento di un amore totalizzante e in qualche misura impossibile. Le due ragazze sono infatti giovani, ingenue e innocenti (Lala più che Guayi, già messa alla prova dalla vita), ma sono inesorabilmente spinte dagli eventi e dal loro amore a una ribellione alla famiglia e all'azione criminale in una escalation che le costringerà ad andare fino in fondo.
Un libro interessante, che però mi è restato un po' in superficie.
Voto: 3/5
domenica 21 marzo 2021
Apples = Mila
Sono oltre quattro mesi che non pubblico una recensione di film su questo blog. Dopo il felice rientro al cinema a settembre e l’abbuffata di film per la Festa del cinema di Roma, ho avuto il brutto contraccolpo della chiusura delle sale e della necessità di tornare a vedere i film in quel modo limitato e limitante che è il piccolo schermo (che per quanto grande sarà per me sempre piccolo e soprattutto non mi consentirà di fruire di quell’esperienza pubblica e collettiva che è il cinema).
L’ultimo film recensito era stato Molecole, poi il nulla. Un po’ non mi sembrava che ci fossero in giro in rete cose che valessero la pena (tra l'altro i vari festival cominciano a innervosirmi con le loro mille piattaforme!), un po’ non ne avevo proprio voglia.
Quando MioCinema ha proposto l’anteprima del film Apples (Mila) del regista greco Christos Nikou ho sentito di nuovo la felice spinta verso la visione, e così mi sono prenotata.
Il cinema greco negli ultimi anni ha assunto una identità molto forte e ha sfornato registi e film che sono riusciti a varcare i confini nazionali e a imporsi all’attenzione mondiale. Non parlo solo di Yorgos Lanthimos, ormai regista affermato, ma anche di Makridis e altri, quelli che alcuni considerano i rappresentanti della cosiddetta weird wave greca.
Si tratta di un cinema che ha forti venature distopiche e/o grottesche a seconda dei casi, e che si concentra sui sentimenti e sulle relazioni in maniera non realistica, ma comunque di grande impatto emotivo.
È in questa corrente che si inserisce il film Apples di Christos Nikou.
Siamo in una città greca tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Aris (Aris Servetalis) è un uomo di mezza età che un giorno, dopo essere uscito di casa ed essersi addormentato su un autobus, viene colpito da una amnesia che cancella completamente la sua identità e il suo passato. In realtà, questa situazione non è singolare, visto che gli ospedali sono pieni di persone a cui è successa la medesima cosa.
Coloro i quali non vengono reclamati da nessuno, come nel caso di Aris, vengono inseriti in un programma di ricostruzione dell'identità: gli viene assegnato un appartamento, dati dei vestiti, affidata una Polaroid, e a intervalli regolari ricevono delle cassette con delle istruzioni su attività da fare e compiti da svolgere, che spesso si concludono con una fotografia di documentazione che finirà in un album.
Aris inizia di buona lena questo programma fino a quando l'incontro con una donna nella sua stessa condizione e lo svolgimento di un compito particolarmente impegnativo sul piano emotivo determinano un cortocircuito che lo riporta a fare i conti con quello che ha dimenticato.
Si resta con la domanda se Aris sia stato effettivamente colpito da amnesia ovvero abbia voluto deliberatamente dimenticare qualcosa che non riusciva ad affrontare.
Nel film di Nikou si sommano - e per certi versi si affastellano - molti temi: la solitudine e l'isolamento sociale, l'identità come costruzione posticcia, l'immagine che sostituisce e in un certo senso contraddice l'esperienza, la perdita della memoria come scorciatoia per superare il passato e bypassare il dolore. All’interno del film risuonano echi di una società molto vicina a quella che conosciamo e di fenomeni che sono stati amplificati negli ultimi anni dai social networks.
Ma non ci sono solo sentimenti tristi e negativi nel film di Christou. Anzi, su tutto mi pare che trionfi il potere dell’empatia, o forse più banalmente il potere di quei neuroni specchio che ci fanno riconoscere in quello che vediamo e provare qualcosa che non stiamo vivendo in prima persona, condanna e straordinaria forza dell’umanità, vero motore della sua sopravvivenza.
Un film probabilmente non perfetto, e che soffre di una certa meccanicità e forse anche didascalicità, ma che conferma la visionarietà e le potenzialità narrative dei registi greci, e probabilmente ci parla anche di un paese, la Grecia appunto, che sta vivendo una lunga fase di transizione e di crisi di identità, e guarda con fatica al futuro mentre fa i conti con un passato ingombrante.
Voto: 3,5/5
L’ultimo film recensito era stato Molecole, poi il nulla. Un po’ non mi sembrava che ci fossero in giro in rete cose che valessero la pena (tra l'altro i vari festival cominciano a innervosirmi con le loro mille piattaforme!), un po’ non ne avevo proprio voglia.
Quando MioCinema ha proposto l’anteprima del film Apples (Mila) del regista greco Christos Nikou ho sentito di nuovo la felice spinta verso la visione, e così mi sono prenotata.
Il cinema greco negli ultimi anni ha assunto una identità molto forte e ha sfornato registi e film che sono riusciti a varcare i confini nazionali e a imporsi all’attenzione mondiale. Non parlo solo di Yorgos Lanthimos, ormai regista affermato, ma anche di Makridis e altri, quelli che alcuni considerano i rappresentanti della cosiddetta weird wave greca.
Si tratta di un cinema che ha forti venature distopiche e/o grottesche a seconda dei casi, e che si concentra sui sentimenti e sulle relazioni in maniera non realistica, ma comunque di grande impatto emotivo.
È in questa corrente che si inserisce il film Apples di Christos Nikou.
Siamo in una città greca tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Aris (Aris Servetalis) è un uomo di mezza età che un giorno, dopo essere uscito di casa ed essersi addormentato su un autobus, viene colpito da una amnesia che cancella completamente la sua identità e il suo passato. In realtà, questa situazione non è singolare, visto che gli ospedali sono pieni di persone a cui è successa la medesima cosa.
Coloro i quali non vengono reclamati da nessuno, come nel caso di Aris, vengono inseriti in un programma di ricostruzione dell'identità: gli viene assegnato un appartamento, dati dei vestiti, affidata una Polaroid, e a intervalli regolari ricevono delle cassette con delle istruzioni su attività da fare e compiti da svolgere, che spesso si concludono con una fotografia di documentazione che finirà in un album.
Aris inizia di buona lena questo programma fino a quando l'incontro con una donna nella sua stessa condizione e lo svolgimento di un compito particolarmente impegnativo sul piano emotivo determinano un cortocircuito che lo riporta a fare i conti con quello che ha dimenticato.
Si resta con la domanda se Aris sia stato effettivamente colpito da amnesia ovvero abbia voluto deliberatamente dimenticare qualcosa che non riusciva ad affrontare.
Nel film di Nikou si sommano - e per certi versi si affastellano - molti temi: la solitudine e l'isolamento sociale, l'identità come costruzione posticcia, l'immagine che sostituisce e in un certo senso contraddice l'esperienza, la perdita della memoria come scorciatoia per superare il passato e bypassare il dolore. All’interno del film risuonano echi di una società molto vicina a quella che conosciamo e di fenomeni che sono stati amplificati negli ultimi anni dai social networks.
Ma non ci sono solo sentimenti tristi e negativi nel film di Christou. Anzi, su tutto mi pare che trionfi il potere dell’empatia, o forse più banalmente il potere di quei neuroni specchio che ci fanno riconoscere in quello che vediamo e provare qualcosa che non stiamo vivendo in prima persona, condanna e straordinaria forza dell’umanità, vero motore della sua sopravvivenza.
Un film probabilmente non perfetto, e che soffre di una certa meccanicità e forse anche didascalicità, ma che conferma la visionarietà e le potenzialità narrative dei registi greci, e probabilmente ci parla anche di un paese, la Grecia appunto, che sta vivendo una lunga fase di transizione e di crisi di identità, e guarda con fatica al futuro mentre fa i conti con un passato ingombrante.
Voto: 3,5/5
mercoledì 17 marzo 2021
Stupore e tremori / Amélie Nothomb
Stupore e tremori / Amélie Nothomb; trad. di Biancamaria Bruno. Parma: Guanda, 2006 (edizione ormai introvabile: ora si trova quella di Voland)
Non avevo mai letto quello che è considerato uno dei romanzi più famosi di Amélie Nothomb e cominciavo a considerarlo come una mancanza nella mia conoscenza di questa scrittrice. Così, approfittando di un viaggio in treno, l'ho letto tutto d'un fiato, come spesso mi accade con i libri della Nothomb.
Non posso dire che sia balzato in cima alla classifica dei miei libri preferiti della scrittrice belga (dove continuano a posizionarsi saldamente Metafisica dei tubi e Sabotaggio d'amore), però certamente si tratta di uno dei suoi romanzi più compatti e più convincenti. Uno di quelli in cui la sua ironia tagliente, il suo sguardo cinico sul mondo, il suo essere sopra le righe risultano più efficaci.
Il quadro del mondo del lavoro giapponese che viene fuori da questo romanzo è agghiacciante ma al contempo esilarante. Del resto, è vero che la Nothomb attribuisce all'attitudine giapponese verso il lavoro e alle sue regole sociali la responsabilità di produrre ambienti di questo tipo, ma è anche vero che chiunque lavori in contesti più o meno gerarchizzati non potrà non riconoscere alcune similitudini.
L'esperienza di Amélie presso l'azienda Yumimoto, dopo essere stata assunta come traduttrice ed essere finita a sostituire la carta igienica nei bagni, è tratteggiata con una forza narrativa e al contempo una qualche forma di misura che è sorprendente rispetto ad altri suoi scritti.
Per quanto mi riguarda continua a mancarvi quella vena di autoanalisi che invece raggiunge i suoi vertici nei miei due libri preferiti. Consiglierei però questo volume come punto di partenza per chi non ha ancora osato accostarsi alla genialità un po' folle e discontinua di questa scrittrice che altrove può entusiasmare o deludere profondamente, ma con questo libro riesce a mettere un po' tutti d'accordo.
Voto: 3,5/5
Non avevo mai letto quello che è considerato uno dei romanzi più famosi di Amélie Nothomb e cominciavo a considerarlo come una mancanza nella mia conoscenza di questa scrittrice. Così, approfittando di un viaggio in treno, l'ho letto tutto d'un fiato, come spesso mi accade con i libri della Nothomb.
Non posso dire che sia balzato in cima alla classifica dei miei libri preferiti della scrittrice belga (dove continuano a posizionarsi saldamente Metafisica dei tubi e Sabotaggio d'amore), però certamente si tratta di uno dei suoi romanzi più compatti e più convincenti. Uno di quelli in cui la sua ironia tagliente, il suo sguardo cinico sul mondo, il suo essere sopra le righe risultano più efficaci.
Il quadro del mondo del lavoro giapponese che viene fuori da questo romanzo è agghiacciante ma al contempo esilarante. Del resto, è vero che la Nothomb attribuisce all'attitudine giapponese verso il lavoro e alle sue regole sociali la responsabilità di produrre ambienti di questo tipo, ma è anche vero che chiunque lavori in contesti più o meno gerarchizzati non potrà non riconoscere alcune similitudini.
L'esperienza di Amélie presso l'azienda Yumimoto, dopo essere stata assunta come traduttrice ed essere finita a sostituire la carta igienica nei bagni, è tratteggiata con una forza narrativa e al contempo una qualche forma di misura che è sorprendente rispetto ad altri suoi scritti.
Per quanto mi riguarda continua a mancarvi quella vena di autoanalisi che invece raggiunge i suoi vertici nei miei due libri preferiti. Consiglierei però questo volume come punto di partenza per chi non ha ancora osato accostarsi alla genialità un po' folle e discontinua di questa scrittrice che altrove può entusiasmare o deludere profondamente, ma con questo libro riesce a mettere un po' tutti d'accordo.
Voto: 3,5/5
lunedì 8 marzo 2021
Per sempre / Assia Petricelli e Sergio Riccardi
Per sempre / Assia Petricelli e Sergio Riccardi. Latina: Tunué, 2020.
Questo graphic novel realizzato dagli autori che con Cattive ragazze hanno vinto il Premio Andersen è dedicato a quel momento dell’adolescenza - complicato e magico allo stesso tempo – in cui si comincia a fare i conti con l’amore e a interrogarsi su di esso e sul proprio corpo.
Siamo in pieni anni Novanta, come si capisce dalla colonna sonora che attraversa questa storia. Viola ha 17 anni e, come ogni estate, insieme ai suoi genitori e a suo fratello più piccolo, va nel villaggio estivo del sud per trascorrere le vacanze. Qui Viola ha il suo gruppo di amiche con cui trascorre le giornate in spiaggia e le serate fuori. Tutte sono alle prese con i primi amori: Valeria è già fidanzata ufficialmente, Renata, che ha qualche chilo di troppo, fa i conti con il proprio corpo e con l’accettazione altrui, Viola – che come tutti noi a quell’età non si piace granché – ha una cotta per Fabrizio, il ragazzo dagli occhi verdi che frequenta il suo gruppo, ma pensa di non avere speranze.
Mentre le giornate procedono tra litigi familiari e parziali incomprensioni, in particolare con la madre, Viola conosce un misterioso ragazzo del posto, Ireneo, che sta riparando la barca del nonno per rimetterla in mare. I loro incontri avvengono alla “controra”, quel momento della giornata in cui i turisti si rinchiudono nelle loro case e bungalow a riposare perché fa troppo caldo per uscire, ma che offre a Viola l’occasione di scoprire un mondo e persone diverse da quelli che è abituata a frequentare. In una di queste sue escursioni la ragazza conosce e fa amicizia con una matura coppia di lesbiche, Lili e Paola, che si divide tra il proprio camper e la spiaggia. La conoscenza con Ireneo e con le due donne aiuterà Viola a vedere le cose che aveva sempre date per scontate in maniera diversa e a poco a poco a cercare un punto di vista autonomo rispetto alle persone e soprattutto rispetto all’amore.
Alla fine di questa estate che metterà Viola di fronte ai temi importanti della vita, come l’amore, l’amicizia, la morte, la ragazza avrà fatto un passo in più verso l’età adulta e sarà pronta ad affrontare i rapporti familiari e affettivi, e più in generale il suo futuro, in maniera più consapevole e libera.
E imparerà che in amore il “per sempre” non riguarda necessariamente il tempo, bensì il segno che un rapporto lascia nella nostra storia personale e il significato che assume per la nostra vita futura.
Il graphic novel di Assia Petricelli e Sergio Riccardi – pur nella sua semplicità – mi ha commossa, forse perché mi sono riconosciuta molto nel modo di essere di Viola, nel suo imbarazzo, nella sua curiosità, nella sua ricerca di un punto di vista autonomo e nel suo senso di distanza dagli altri. E poi perché, nonostante qualche personaggio un po’ stereotipato, in generale i protagonisti di questo romanzo a fumetti sono tridimensionali e veri, e si finisce per appassionarsi alle loro storie.
Contribuiscono a questa identificazione i disegni colorati e vivaci di Riccardi che si soffermano in maniera accurata sui dettagli, sia quelli fisici e delle espressioni del volto, sia quelli dei luoghi.
In definitiva, una bella lettura che consiglio agli adolescenti di oggi per capire che, nonostante tutto, non sono molto diversi da quelli di ieri, nonché agli adulti come me che nella storia di Viola ricorderanno un passato ormai abbastanza lontano e potranno valutare la strada fatta, magari anche aggiustando il tiro nei confronti dei propri figli adolescenti, qualora li abbiano.
Voto: 3,5/5
Questo graphic novel realizzato dagli autori che con Cattive ragazze hanno vinto il Premio Andersen è dedicato a quel momento dell’adolescenza - complicato e magico allo stesso tempo – in cui si comincia a fare i conti con l’amore e a interrogarsi su di esso e sul proprio corpo.
Siamo in pieni anni Novanta, come si capisce dalla colonna sonora che attraversa questa storia. Viola ha 17 anni e, come ogni estate, insieme ai suoi genitori e a suo fratello più piccolo, va nel villaggio estivo del sud per trascorrere le vacanze. Qui Viola ha il suo gruppo di amiche con cui trascorre le giornate in spiaggia e le serate fuori. Tutte sono alle prese con i primi amori: Valeria è già fidanzata ufficialmente, Renata, che ha qualche chilo di troppo, fa i conti con il proprio corpo e con l’accettazione altrui, Viola – che come tutti noi a quell’età non si piace granché – ha una cotta per Fabrizio, il ragazzo dagli occhi verdi che frequenta il suo gruppo, ma pensa di non avere speranze.
Mentre le giornate procedono tra litigi familiari e parziali incomprensioni, in particolare con la madre, Viola conosce un misterioso ragazzo del posto, Ireneo, che sta riparando la barca del nonno per rimetterla in mare. I loro incontri avvengono alla “controra”, quel momento della giornata in cui i turisti si rinchiudono nelle loro case e bungalow a riposare perché fa troppo caldo per uscire, ma che offre a Viola l’occasione di scoprire un mondo e persone diverse da quelli che è abituata a frequentare. In una di queste sue escursioni la ragazza conosce e fa amicizia con una matura coppia di lesbiche, Lili e Paola, che si divide tra il proprio camper e la spiaggia. La conoscenza con Ireneo e con le due donne aiuterà Viola a vedere le cose che aveva sempre date per scontate in maniera diversa e a poco a poco a cercare un punto di vista autonomo rispetto alle persone e soprattutto rispetto all’amore.
Alla fine di questa estate che metterà Viola di fronte ai temi importanti della vita, come l’amore, l’amicizia, la morte, la ragazza avrà fatto un passo in più verso l’età adulta e sarà pronta ad affrontare i rapporti familiari e affettivi, e più in generale il suo futuro, in maniera più consapevole e libera.
E imparerà che in amore il “per sempre” non riguarda necessariamente il tempo, bensì il segno che un rapporto lascia nella nostra storia personale e il significato che assume per la nostra vita futura.
Il graphic novel di Assia Petricelli e Sergio Riccardi – pur nella sua semplicità – mi ha commossa, forse perché mi sono riconosciuta molto nel modo di essere di Viola, nel suo imbarazzo, nella sua curiosità, nella sua ricerca di un punto di vista autonomo e nel suo senso di distanza dagli altri. E poi perché, nonostante qualche personaggio un po’ stereotipato, in generale i protagonisti di questo romanzo a fumetti sono tridimensionali e veri, e si finisce per appassionarsi alle loro storie.
Contribuiscono a questa identificazione i disegni colorati e vivaci di Riccardi che si soffermano in maniera accurata sui dettagli, sia quelli fisici e delle espressioni del volto, sia quelli dei luoghi.
In definitiva, una bella lettura che consiglio agli adolescenti di oggi per capire che, nonostante tutto, non sono molto diversi da quelli di ieri, nonché agli adulti come me che nella storia di Viola ricorderanno un passato ormai abbastanza lontano e potranno valutare la strada fatta, magari anche aggiustando il tiro nei confronti dei propri figli adolescenti, qualora li abbiano.
Voto: 3,5/5
venerdì 5 marzo 2021
Tempi eccitanti / Naoise Dolan
Tempi eccitanti / Naoise Dolan; trad. di Claudia Durastanti. Roma: Edizioni di Atlantide, 2020.
Partiamo da una considerazione: una persona che ha un nome scritto Naoise e che si pronuncia Nisha non può lamentarsi di come gli altri sbaglino a pronunciare il suo nome. E forse questa cosa da sola potrebbe spiegare buona parte dei suoi problemi! :-D
A parte gli scherzi, eccoci di fronte a una nuova, giovane promessa della letteratura contemporanea: la Dolan ha 28 anni e appartiene a quella nuova generazione di scrittori a cavallo dei trenta che negli ultimi tempi sta facendo molto parlare di sé, sia per la qualità delle cose che scrive sia per il modo in cui rappresenta la propria generazione.
Qualcuno preferisce l’autobiografia romanzata (Marieke Lucas Rijneveld) o il memoir poetico (Ocean Vuong), qualcun altro si ispira ai classici del passato e li rinnova (Tiffany McDaniel), qualcun altro ancora racconta storie di fiction ambientate nel presente e che raccontano il mondo dei propri coetanei (Sally Rooney).
Con Tempi eccitanti di Naoise Dolan siamo certamente dalle parti di Sally Rooney (tra l’altro sua conterranea e amica), ma sarebbe riduttivo – come è stato fatto ad ogni piè sospinto – parlare della Dolan come della nuova Sally Rooney. Prima di tutto perché la Rooney ha ancora tutta una carriera davanti, e in secondo luogo perché la Dolan ha una sua specifica personalità letteraria e umana.
Quello che è decisamente vero è che i protagonisti del libro della Dolan condividono la temperie emotiva che caratterizza i personaggi della Rooney e dei romanzi di altri scrittori che raccontano la generazione dei venti-trentenni.
In questo caso i protagonisti sono tre: Ava, la ventiduenne che è anche la voce narrante della storia, una ragazza di Dublino che si è trasferita a Hong Kong dove vive insegnando inglese ai bambini, Julian, che fa il banchiere ed è pieno di soldi, Edith, una ragazza di Hong Kong che fa l’avvocatessa e viene da una famiglia benestante.
Il romanzo si articola in tre capitoli. Il primo, intitolato Julian, racconta l’incontro di Ava con il ragazzo, l’inizio della loro storia, che sfugge però a qualunque tipo di classificazione, e il trasferimento di lei nell’asettico appartamento di lui, dove i due occupano stanze separate, tranne quando fanno sesso.
Julian è un giovane blasé, intelligente ma emotivamente molto distaccato, concentrato sul lavoro e sui soldi, e forse proprio per questo poco interessato a rapporti impegnativi e in cui si creino delle aspettative reciproche. Per Ava, che è andata via dall’Irlanda perché non si sentiva a suo agio ma anche a Hong Kong non si è pienamente integrata, Julian è l’occasione di un legame lasco, di quelli che non danno grandi ritorni ma nemmeno grandi delusioni. Ava non vuole soffrire ancora e vede in questo rapporto/non rapporto la situazione giusta per evitare un eccesso di implicazioni sentimentali; d’altra parte, l’atteggiamento di Julian aumenta le sue insicurezza e le crea inevitabilmente un senso di incompiutezza.
Quando Julian va a Londra per lavoro e ci rimane qualche mese, Ava conosce Edith (che dà il titolo al secondo capitolo), una giovane brillante e di classe sociale elevata, con cui comincia a uscire regolarmente. Ben presto l’amicizia si trasforma in qualcos’altro e Ava trova in Edith quella pienezza e al contempo quella complessità di sentimenti che un rapporto d’amore vero implica.
Né a Julian né a Edith la protagonista riesce a dire la verità che diventerà palese al rientro di Julian a Hong Kong. Si arriva così al terzo capitolo (intitolato appunto Julian e Edith), in cui Ava si trova ben presto di fronte alla necessità di una scelta.
Il romanzo è tutto virato sul registro cinico-ironico, a tratti per me non solo poco comprensibile, ma per niente divertente, come invece alcuni recensori hanno affermato. Personalmente di fronte a queste persone che hanno per la propria vita possibilità emotive ed esperienziali molto più ampie di quelle che caratterizzavano la mia generazione sono quasi infastidita per la loro intrinseca tendenza a sabotare sé stessi e la possibilità di una forma di felicità.
Come ho già avuto modo di dire in altre recensioni di libri che rappresentano questa generazione, sembra che i venti-trentenni da un lato subiscano sulla propria pelle gli effetti delle profonde disuguaglianze sociali ed economiche e di un mondo nel quale la ricerca di una qualche forma di sicurezza non va spesso di pari passo con la soddisfazione individuale, dall’altro si trovino ad avere a che fare con un mondo di possibilità emotive molto più ampie ma di fronte al quale sono spesso paralizzati o inabili. Alla fine la cifra dominante che li caratterizza - e che trasversalmente va a comporre le distanze e le differenze - è il cinismo, ironico sì, ma pur sempre cinismo. Un cinismo dietro il quale secondo me si celano fortissime fragilità e profondissime paure, e che quasi sempre si accompagna a forme di frustrazione più o meno irrisolte.
E tutto questo inevitabilmente mi produce una sensazione di disagio, una forma quasi di rabbia perché non rischiare di soffrire vuol dire non vivere.
Voto: 3,5/5
Partiamo da una considerazione: una persona che ha un nome scritto Naoise e che si pronuncia Nisha non può lamentarsi di come gli altri sbaglino a pronunciare il suo nome. E forse questa cosa da sola potrebbe spiegare buona parte dei suoi problemi! :-D
A parte gli scherzi, eccoci di fronte a una nuova, giovane promessa della letteratura contemporanea: la Dolan ha 28 anni e appartiene a quella nuova generazione di scrittori a cavallo dei trenta che negli ultimi tempi sta facendo molto parlare di sé, sia per la qualità delle cose che scrive sia per il modo in cui rappresenta la propria generazione.
Qualcuno preferisce l’autobiografia romanzata (Marieke Lucas Rijneveld) o il memoir poetico (Ocean Vuong), qualcun altro si ispira ai classici del passato e li rinnova (Tiffany McDaniel), qualcun altro ancora racconta storie di fiction ambientate nel presente e che raccontano il mondo dei propri coetanei (Sally Rooney).
Con Tempi eccitanti di Naoise Dolan siamo certamente dalle parti di Sally Rooney (tra l’altro sua conterranea e amica), ma sarebbe riduttivo – come è stato fatto ad ogni piè sospinto – parlare della Dolan come della nuova Sally Rooney. Prima di tutto perché la Rooney ha ancora tutta una carriera davanti, e in secondo luogo perché la Dolan ha una sua specifica personalità letteraria e umana.
Quello che è decisamente vero è che i protagonisti del libro della Dolan condividono la temperie emotiva che caratterizza i personaggi della Rooney e dei romanzi di altri scrittori che raccontano la generazione dei venti-trentenni.
In questo caso i protagonisti sono tre: Ava, la ventiduenne che è anche la voce narrante della storia, una ragazza di Dublino che si è trasferita a Hong Kong dove vive insegnando inglese ai bambini, Julian, che fa il banchiere ed è pieno di soldi, Edith, una ragazza di Hong Kong che fa l’avvocatessa e viene da una famiglia benestante.
Il romanzo si articola in tre capitoli. Il primo, intitolato Julian, racconta l’incontro di Ava con il ragazzo, l’inizio della loro storia, che sfugge però a qualunque tipo di classificazione, e il trasferimento di lei nell’asettico appartamento di lui, dove i due occupano stanze separate, tranne quando fanno sesso.
Julian è un giovane blasé, intelligente ma emotivamente molto distaccato, concentrato sul lavoro e sui soldi, e forse proprio per questo poco interessato a rapporti impegnativi e in cui si creino delle aspettative reciproche. Per Ava, che è andata via dall’Irlanda perché non si sentiva a suo agio ma anche a Hong Kong non si è pienamente integrata, Julian è l’occasione di un legame lasco, di quelli che non danno grandi ritorni ma nemmeno grandi delusioni. Ava non vuole soffrire ancora e vede in questo rapporto/non rapporto la situazione giusta per evitare un eccesso di implicazioni sentimentali; d’altra parte, l’atteggiamento di Julian aumenta le sue insicurezza e le crea inevitabilmente un senso di incompiutezza.
Quando Julian va a Londra per lavoro e ci rimane qualche mese, Ava conosce Edith (che dà il titolo al secondo capitolo), una giovane brillante e di classe sociale elevata, con cui comincia a uscire regolarmente. Ben presto l’amicizia si trasforma in qualcos’altro e Ava trova in Edith quella pienezza e al contempo quella complessità di sentimenti che un rapporto d’amore vero implica.
Né a Julian né a Edith la protagonista riesce a dire la verità che diventerà palese al rientro di Julian a Hong Kong. Si arriva così al terzo capitolo (intitolato appunto Julian e Edith), in cui Ava si trova ben presto di fronte alla necessità di una scelta.
Il romanzo è tutto virato sul registro cinico-ironico, a tratti per me non solo poco comprensibile, ma per niente divertente, come invece alcuni recensori hanno affermato. Personalmente di fronte a queste persone che hanno per la propria vita possibilità emotive ed esperienziali molto più ampie di quelle che caratterizzavano la mia generazione sono quasi infastidita per la loro intrinseca tendenza a sabotare sé stessi e la possibilità di una forma di felicità.
Come ho già avuto modo di dire in altre recensioni di libri che rappresentano questa generazione, sembra che i venti-trentenni da un lato subiscano sulla propria pelle gli effetti delle profonde disuguaglianze sociali ed economiche e di un mondo nel quale la ricerca di una qualche forma di sicurezza non va spesso di pari passo con la soddisfazione individuale, dall’altro si trovino ad avere a che fare con un mondo di possibilità emotive molto più ampie ma di fronte al quale sono spesso paralizzati o inabili. Alla fine la cifra dominante che li caratterizza - e che trasversalmente va a comporre le distanze e le differenze - è il cinismo, ironico sì, ma pur sempre cinismo. Un cinismo dietro il quale secondo me si celano fortissime fragilità e profondissime paure, e che quasi sempre si accompagna a forme di frustrazione più o meno irrisolte.
E tutto questo inevitabilmente mi produce una sensazione di disagio, una forma quasi di rabbia perché non rischiare di soffrire vuol dire non vivere.
Voto: 3,5/5
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