martedì 23 aprile 2013
Rachel Sermanni al Circolo Ricreativo Caracciolo, 20 aprile 2013
Rachel Sermanni l’ha scoperta C. ascoltando una sua canzone alla radio, ha comprato il suo CD Under Mountains su Internet e me lo ha passato perché potessi ascoltarlo anch'io. E così, ascolto dopo ascolto, ho avuto modo di apprezzare la musica di questa giovane cantautrice scozzese.
Quando ho scoperto che suonava a Roma il 20 aprile al Circolo Ricreativo Caracciolo mi sono affrettata a comprare il biglietto, tanto più che il Caracciolo non lo conoscevo e mi incuriosiva parecchio. Ho convinto D. a venire con me e arrivati al Circolo innanzitutto ci siamo deliziati con una buonissima cena (gnocchi di zucca alle erbette e gamberi con tris di gazpacho) servita da un personale molto simpatico.
Io avevo con me tutta la mia attrezzatura fotografica che si è arricchita recentemente di un monopiede che mi serve per guadagnare qualche secondo in condizioni di scarsa luminosità come sono i concerti.
A un certo punto, dietro la tenda che separa lo spazio affianco al palco dalla sala la vedo. Rachel Sermanni è distesa per terra, con la piccola Margherita (credo la figlia di qualcuno dello staff del Caracciolo) che le zompetta attorno. Lei si rilassa mentre aspetta che la gente finisca di mangiare perché desidera un'atmosfera raccolta intorno al suo concerto.
Verso le 22,30 sale sul palco da sola, con la sua chitarra in braccio. Si toglie gli stivaletti perché la sua è anche una musica fisica, che accompagna gli acuti andando in punta di piedi e i bassi accartocciandosi sulla cassa armonica della chitarra.
Rachel ha imparato un sacco di parole in italiano (grazie - dice - alla sua nuova amica Margherita), così tra una canzone e l'altra cerca una conversazione con un pubblico che all'inizio è un po' distratto e tiepido ma a poco a poco è conquistato da questa giovane donna che sembra proprio un folletto dei boschi delle Highlands, la sua terra, quella dove ci riporta con le sue canzoni.
Suona quasi tutto il suo disco, dalle canzoni più sussurrate, quasi ninne nanne, come Black Current and Waltz, a quelle più potenti come The Fog. Ed incredibilmente le sue canzoni, che pure hanno degli arrangiamenti molto belli costruiti col contributo di numerosi strumenti, non sembrano soffrire del fatto di essere sostenuti solo da una voce e da una chitarra che da sole riescono a riempire tutti gli spazi e a raggiungere il cuore.
Tra le altre ci canta anche un paio di canzoni del repertorio tradizionale scozzese, tra cui Ae fond kiss (1791) di Robert Burns che è una delle canzoni più famose per gli scozzesi pur essendo praticamente sconosciuta da noi.
Le sue canzoni e il suo modo di cantarle hanno dentro un po' di tutto, tanta dolcezza, ma anche tanta forza, tanta luce, ma anche tanta oscurità, e la sintonia tra Rachel e la sua chitarra nel trasmettere tutte queste espressioni dell'animo umano è perfetta.
Al termine del concerto, il pubblico applaude convinto e Rachel non si fa troppo pregare per tornare sul palco e regalarci altre due belle canzoni.
Dopo scende in mezzo al pubblico, gentile e disponibile a chiacchierare con tutti, a fare una firma sui CD e sulle cartoline, o una foto con i fans. A me dà persino dei consigli per il mio imminente viaggio nelle Highlands! E mi dice che il giorno dopo (la domenica) ha finalmente un giorno di riposo e andrà al mare a Porto Santo Stefano.
Una piccola perla di cantante. Da custodire preziosa in attesa delle prossime canzoni che vorrà regalarci.
Voto: 4/5
lunedì 22 aprile 2013
500 milioni di stelle / Mabel Morri
500 milioni di stelle / Mabel Morri. Bologna: Kappa Edizioni, 2013.
Il graphic novel di Mabel Morri è di quelli che ti riscaldano il cuore.
Racconta la storia di Rebecca, una ragazza che gestisce con la madre vedova una caffetteria-libreria nel centro di Rimini. Rebecca fa la vita di tutte le ragazze della sua età, tra aperitivi e uscite con le amiche, ed è - come tutte - alla ricerca dell'amore, quello che tiene ancora legata sua madre al ricordo del marito.
Un giorno Rebecca incontra Caterina, che gioca a pallavolo e ha una casetta con un grande terrazzo che è anche il suo rifugio segreto. E la sua vita cambia. Vede il mondo con occhi diversi e quel vago senso di insoddisfazione comincia a prendere forma e a spingerla a fare delle scelte e a cambiare la sua vita.
Ma le scelte - si sa - sono dolorose e difficili. Soprattutto se si è giovani e si ha bisogno di sentirsi accettati, non si è pronti all'eventuale rifiuto.
Mabel Morri ci propone una storia semplice, ma importante. Non punta al filosofico e al concettuale, ma parla al cuore e ai sentimenti con il suo disegno semplice ma ricco di dettagli ed estremamente realistico.
Lo fa senza calcare la mano, senza forzare i toni, con la stessa bellezza e innocenza con cui la giovane protagonista del suo fumetto sta cercando la sua strada.
Un vero romanzo di formazione a fumetti. Di quelli che dovrebbero stare normalmente nelle librerie e nelle biblioteche e nelle case dove ci sono ragazzi e adolescenti. Di quelli per i quali invece in Italia si grida allo scandalo.
Voto: 3,5/5
martedì 16 aprile 2013
Antigone / Valeria Parrella
Luca De Fusco porta in teatro il riadattamento della tragedia di Sofocle scritto da Valeria Parrella. E lo fa affidandosi ad attori del calibro di Gaia Aprea e Paolo Serra.
In quest'opera teatrale ci sono dunque due letture: quella che la scrittrice fa del mito di Antigone e quello che il regista fa dell'opera della Parrella. Ne viene così fuori un linguaggio che si arricchisce di numerose stratificazioni e per questo si fa complesso e in parte anche rischioso.
Valeria Parrella è l'autrice di quella difficile operazione che consiste nell'interpretare la tragedia di Sofocle come una storia della contemporaneità senza però perdere nulla della gravità e della complessità del linguaggio classico. Non si può parlare di un vero e proprio processo di modernizzazione o di attualizzazione, bensì di un tentativo di calarsi in una storia antica con lo spirito della contemporaneità per tirarne fuori riflessioni e sentimenti universali, quali il rapporto tra la legge della natura e quella dell'uomo, la libertà di scelta, l'autodeterminazione, i legami affettivi e di sangue.
L'effetto straniante prodotto dall'inserimento di situazioni e parole moderne in un contesto antico che si riflette anche nell'aulicità della costruzione delle frasi è interessante, anche se talvolta rischia di risultare un po' ardito e spiazzante.
Sulla stessa linea si muovono le scelte registiche che sono visivamente di grandissimo impatto: una stanza completamente buia in cui i personaggi illuminati da luci che creano forti chiaroscuri si muovono quasi come fantasmi sospesi nel nulla, una mescolanza tra la presenza degli attori sul palco e la proiezione dei loro volti recitanti sul telo semitrasparente che sta davanti al palco. Anche in questo caso dunque si mescolano un'atmosfera antica da teatro greco, fatto di volti e parole, e una tecnica moderna da messinscena cinematografica fatta di immagini e musica.
Il risultato finale è certamente di rilievo, sia sul piano dei contenuti sia sul piano visivo, sebbene si muova su una corda sottile, in bilico tra il poetico e il prosaico, tra il popolare e l'aulico, con qualche sbavatura in un senso o nell'altro.
Il teatro è - come altre arti classiche - alla ricerca di se stesso nell'epoca dell'immagine e della velocità.
In questa epoca di transizione prodotti come quello che Luca De Fusco ha realizzato a partire dall'operazione coraggiosa di Valeria Parrella vanno certamente salutati con favore.
Voto: 3/5
mercoledì 10 aprile 2013
Memorie di un uomo in pigiama / Paco Roca
Memorie di un uomo in pigiama / Paco Roca; trad. di Stefano Travagli. Pomezia: Tunué, 2012.
Di Paco Roca avevo già letto il capolavoro Rughe e l’enigmatico Le strade di sabbia. Mi ero già fatta l’idea che il talentuoso fumettista spagnolo desse il meglio di sé nell’osservazione della realtà, mentre mostrasse qualche forzatura in più nel narrare storie di immaginazione, forse un tantino troppo ambiziose, come nel caso de Le strade di sabbia.
Memorie di un uomo in pigiama conferma pienamente questa impressione. Si tratta di una raccolta di mini racconti che occupano ciascuno una pagina composta di 12 vignette, realizzate originariamente per il giornale spagnolo Las Provincias e poi raccolte appunto nell’albo Memorie di un uomo in pigiama.
Di fatto Paco Roca non fa altro che raccontare se stesso e il suo mondo, la sua fidanzata, i suoi amici, il lavoro, le giornate in casa e quelle fuori casa. E lo fa con una vena ironica e al contempo realistica del tutto sorprendente. Ne viene fuori il ritratto di un’intera generazione, quella dei quarantenni di oggi, adulti che fanno un po’ fatica ad abbondare stili di vita quasi adolescenziali e ossessioni quasi infantili.
La cosa più incredibile è che lo sguardo ironico dell’autore – prima ancora che sul mondo circostante – viene esercitato sulla propria stessa persona. Facciamo così la conoscenza con un Paco Roca pigro, distratto, pieno di paure e di idiosincrasie, un po’ pavido, ma dotato di una simpatia e di un’umanità che ce lo rendono caro fin dalla prima vignetta.
Da questo punto di vista il lavoro di Paco Roca mi ha ricordato lo stile di Guy Delisle, per l’ironia buona con cui descrive se stesso e gli altri e la capacità di osservare con acume la realtà e di descriverla con dovizia di particolari.
Leggendo questo albo nessuno – o almeno nessuno che appartenga alla generazione dell’autore - potrà sfuggire al gioco di rispecchiamenti e di riconoscimenti che esso stimola. Sarà dunque inevitabile ritrovarsi a sorridere delle situazioni rappresentate da Paco Roca per averle vissute in prima persona o averle viste accadere.
Farei sinceramente fatica a scegliere uno o più episodi da segnalare all’attenzione del lettore (ma per avere un'idea potete guardare le tavole inserite in questo post!), perché numerosi mi hanno stimolata, facendomi sorridere, ridere, riflettere, ricordare.
Paco Roca si conferma con questo volume l’espressione di un’altra forma di graphic journalism rispetto a quella rappresentata da Guy Delisle, in quanto non ha bisogno di viaggiare lontano e venire a contatto con mondi e culture diverse per raccontarci la varietà dell’umanità, bensì lo fa semplicemente descrivendo il mondo che gli appartiene e a cui appartiene.
Consigliatissimo.
Voto: 4/5
lunedì 8 aprile 2013
Come pietra paziente
Siamo in Afghanistan, in un paese imprecisato arroccato su una montagna, certamente in una zona di guerra.
Intorno è tutto miseria, distruzione, paura e morte. Ogni tanto qualche "cessate le armi" consente ai bambini di tornare a giocare per le strade e alle donne, completamente coperte dai loro burqa, di uscire a fare la spesa.
La nostra protagonista è una giovane moglie che vive in una casa spoglia e povera, ma dignitosa, con le sue due figlie e il marito, un combattente che a seguito di una rissa si ritrova in coma.
La donna lo accudisce e riempie il vuoto e la paura con le parole e i pensieri, in un fluire ininterrotto di ricordi, rivelazioni, sentimenti.
In questa situazione surreale, in cui si è al contempo soli con se stessi, ma si ha anche un testimone muto e sordo alle proprie confessioni, la donna prende lentamente coscienza di sé, o meglio ha finalmente la possibilità di far emergere se stessa come persona, con i propri desideri, segreti, aspirazioni, pulsioni.
Smette di essere un oggetto da utilizzare come merce di scambio, un pezzo di carne per dare una prole al marito, un essere senza volto e senza volontà nell'assetto familiare e sociale, per mostrare invece una ricchezza di pensieri, una varietà di sfumature (straordinariamente incarnate nel volto della bellissima Golshifteh Farahani), una complessità di stati d'animo, un conflitto interiore che travalicano i confini geografici e culturali, ma risultano profondamente dirompenti in una società come quella afghana.
Il percorso di affrancamento personale troverà ulteriore espressione nel rapporto con un giovane soldato che prima la violenta, poi si rivela altrettanto, anzi più fragile della donna, al punto da lasciarsi guidare da lei nella scoperta della sessualità e forse dell'amore.
Tutto questo sotto gli occhi spenti del marito che, come la pietra paziente della storia raccontata alla nostra protagonista dalla zia, assorbe tutti i segreti e le confessioni fino a frantumarsi in mille pezzi quando il processo di liberazione raggiunge il suo apice.
Sì, perché solo la catarsi finale consente di spezzare le catene della propria prigionia e di dare spazio a quella bellezza che trova espressione esteriore nella scelta di truccarsi ed interiore nel sorriso che le compare sul volto.
Atiq Rahimi realizza un grande film, che riesce a portare sullo schermo la forza evocativa di un'opera teatrale e le potenzialità visive della cinematografia, a partire dal suo romanzo, Pietra di pazienza, vincitore del Premio Goncourt.
Da vedere.
Voto: 4/5
venerdì 5 aprile 2013
I Croods
In un grigio pomeriggio di Pasquetta cosa c'è di meglio che portare i propri nipoti al cinema a vedere un bel cartone della DreamWorks?
Ed eccomi così, insieme a F. e G., rispettivamente 11 e 9 anni, al Warner Cinema di Casamassima, con i nostri occhiali per il 3D inforcati, a vedere I Croods.
Sono arrivata senza aspettarmi niente dal film, del quale tra l'altro sapevo pochissimo, praticamente nulla.
Invece l'incontro con questa scombinata famiglia di cavernicoli mi ha fatto trascorrere un'ora e mezza di pura allegria. I Croods (padre, madre, figlia adolescente, figlio, bimba che ancora gattona e nonna) vivono nella loro caverna perché il mondo là fuori è molto pericoloso e la lotta per la sopravvivenza è aspra. Tutto cambia però quando Eep, la figlia adolescente, attirata da una fonte luminosa, esce una notte dalla caverna e incontra Guy, un ragazzo che ha perso i genitori ed è in viaggio per sfuggire al cataclisma che distruggerà la terra dove vivono e trovare un nuovo posto dove stare.
Guy conosce il fuoco ed utilizza il cervello per sfuggire alle insidie del mondo circostante. È curioso e pieno di speranza per il futuro, oltre che capace di trasferire ai Croods, finora preoccupati solo della sopravvivenza, la meraviglia per la bellezza del mondo, attraverso la vista di un cielo stellato o un tuffo in un mare cristallino.
La storia e le ambientazioni risultano nel complesso piuttosto strampalate e non tutto si tiene. Però, il racconto è pieno di invenzioni e alcune delle situazioni risultano esilaranti e memorabili, al punto che io e mio nipote F. abbiamo continuato a parlarne fino al giorno dopo.
La lacrimuccia edificante per i bei sentimenti che uniscono la famiglia ma anche la necessità per Eep di affrancarsi per diventare donna non mancano e aggiungono valore all'insieme.
La DreamWorks ormai sembra partorire film d'animazione di qualità come producesse noccioline. Certo, le vette sono poche e ci sono film più riusciti e più equilibrati nel complesso rispetto a I Croods. Il risultato però è anche in questo caso accattivante e gradevole.
Voto: 3/5
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mercoledì 3 aprile 2013
Perché essere felice quando puoi essere normale? / Jeanette Winterson
Perché essere felice quando puoi essere normale? / Jeanette Winterson; trad. di Chiara Spallino Rocca. Milano: Mondadori, 2012.
L'ultimo libro di Jeannette Winterson non è un romanzo, non è propriamente un'autobiografia, non è un diario, ma in qualche modo è un po' tutte queste cose insieme. Sì, perché dentro c'è il racconto di una parte della storia della scrittrice, ma c'è anche il fluire dei pensieri e dei ricordi, la riflessione sul passato, la necessità di dare un senso a tante cose apparentemente scollegate.
Lo stile non è quello a volte involuto e astratto dei suoi romanzi - che pure in alcuni casi mi sono piaciuti moltissimo - ma uno stile piano, molto narrativo, a volte da vero e proprio flusso di coscienza.
Dietro la scrittrice scopriamo una giovane donna con una storia molto complicata e dolorosa alle spalle, alla ricerca della propria identità, e soprattutto alla ricerca della propria capacità di amare.
Ne viene fuori un personaggio duro e fragile al contempo, in perenne conflitto con se stesso e con il mondo circostante, ma in cerca di un equilibrio e della pace interiore.
La lettura è gradevole, a volte esilarante alla maniera di Bennett, altre volte triste se non deprimente, a volte quasi paradossale. E attraverso il racconto di Jeanette vediamo passare sotto i nostri occhi la storia dell'Inghilterra degli ultimi trent'anni, oltre che la storia personale della protagonista.
Come dice la stessa Winterson al termine del libro, lei stessa non sapeva in che direzione si sarebbe mossa la scrittura di questo libro durante l'atto dello scrivere, né dove l'abbia portata. Ma comprendiamo - da quanto abbiamo letto nelle pagine precedenti - che per l'autrice la scrittura è un atto necessario, un atto di comprensione di sé, un passaggio nei meandri della propria coscienza che non è evitabile.
Il groviglio inestricabile tra vita e letteratura che si riconosce in questo libro è parte integrante della Winterson come persona e come scrittrice, cosicché, solo provando a tirare il filo giusto, è possibile per l'autrice individuare una linea di comprensione degli eventi e gettare luce sul senso dell'esistenza.
Bello. A volte toccante. A volte respingente. Come Jeanette, penso di poter dire.
Voto: 3,5/5
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