Una vita cinese. Il tempo del padre / Li Kunwu e Philippe Otié. Torino: add editore, 2016.
Una vita cinese. 2. Il tempo del partito / Li Kunwu e Philippe Otié. Torino: add editore, 2017.
Una vita cinese. 3. Il tempo del denaro / Li Kunwu e Philippe Otié. Torino: add editore, 2017.
Add editore si conferma un sicuro punto di riferimento per il graphic novel di qualità, in particolare per quanto riguardo le storie biografiche e autobiografiche attraverso cui è possibile conoscere vicende e realtà che vanno al di là della vita del singolo.
In questo filone si inserisce certamente questo lavoro in tre volumi, Una vita cinese, che racconta la storia di Li Kunwu e lo fa attraverso i suoi disegni e i testi dell'amico Philippe Otié, che è anche colui che lo ha spinto a imbarcarsi in questa avventura.
Li Kunwu dice a più riprese che la sua è stata una vita normalissima e proprio per questo non riteneva che raccontarla potesse essere significativo per chiunque altro al di fuori di sé stesso. È stato lo sguardo esterno e occidentale di Otié a convincere Li che, attraverso la narrazione della sua vita, poteva essere possibile raccontare e far comprendere per quanto possibile la Cina e la sua storia a chi cinese non è.
Li Kunwu, detto Xiao Li (giovane Li), è nato nel 1955 da un padre dirigente del partito comunista e dunque ha attraversato tutte le fasi della storia recente della Cina: il periodo di Mao Zedong e della rivoluzione culturale, la morte di Mao e la fine della rivoluzione culturale con l'arresto della banda dei quattro su iniziativa del nuovo leader Hua Guofeng, l'ascesa di Deng Xiaoping e l'inizio del processo di riforma economica, l'espansione economica cinese e la sua definitiva consacrazione a potenza mondiale.
Man mano che si va avanti nella lettura di questa narrazione a fumetti ci si rende conto non solo di sapere ben poco della storia cinese, ma anche di averne avuto una lettura parziale e ideologica che poco ha a che far con la percezione di chi quella storia l'ha vissuta, per arrivare infine alla conclusione che è molto difficile, se non impossibile, per noi occidentali comprendere fino in fondo la psicologia di questo popolo, che non può che essere la conseguenza di una cultura e di una storia a noi quasi totalmente estranee.
Il racconto di Li nei primi due volumi è una vera e propria autobiografia: Li ci racconta gli anni della sua infanzia, la venerazione per il padre della patria Mao Zedong, la capillarità e il radicamento dell'ideologia da lui portata avanti, l'emergere della rivoluzione culturale e delle sue conseguenze nella vita dei singoli (nello specifico Li ebbe il padre in prigione per più di 10 anni), il modo in cui giovani e adolescenti furono coinvolti in questa vera e propria "guerra interna", il suo arruolamento nell'esercito e i tentativi di entrare nei ranghi del Partito Comunista. Man mano però che il racconto giunge ai decenni più vicini a noi il protagonismo di Li si stempera e l'autore diventa più che altro il testimone delle storie altrui e il collante che le tiene unite. Sono molto significative da questo punto di vista le pagine dedicate alle vicende di piazza Tienanmen, su cui Li è reticente a scrivere, non solo perché quegli episodi avvennero lontani da lui e dalle persone di sua conoscenza, ma anche perché il suo giudizio su quegli eventi è molto diverso dalla lettura che ne è stata data nel mondo occidentale, senza che per questo l'autore voglia imporre il suo punto di vista.
In generale, tutto il racconto cerca di mantenersi sostanzialmente oggettivo e neutrale, raccontando vicende e situazioni, senza utilizzare gli strumenti della propaganda o adottare un atteggiamento critico, bensì lasciando che sia il lettore a farsi un'idea delle cose e suscitando la curiosità di approfondire ciò che non si conosce.
Ne viene fuori il ritratto di un popolo la cui storia e le cui caratteristiche restano difficili da tratteggiare e comprendere dall'esterno, ma di cui comprendiamo la complessità e l'impossibilità di qualunque lettura semplicistica e semplificata, come pure si è fatto in passato. Come avevo avuto modo di cogliere anche attraverso la lettura dei gialli di Qiu Xiaolong, ci sono molte zone d'ombra nella storia della Cina e i segni delle ferite del passato sono ancora evidenti nel presente di questa nazione e nelle menti dei suoi cittadini, così come la lettura di molte vicende non può che essere divisiva, ma certamente richiede un punto di vista interno per poter essere correttamente interpretata.
Ciò che sicuramente emerge e resta impresso nella mente del lettore è l'immagine di un popolo capace - collettivamente e individualmente - di lavorare in maniera indefessa per il raggiungimento di qualunque obiettivo e a cui nessuna impresa appare troppo ardua da realizzare. D'altra parte, soltanto da queste premesse si può provare a spiegarsi la straordinaria ascesa economica della Cina e il suo assurgere a indiscussa potenza mondiale.
Se poi questo sia anche frutto di un lungo e mai interrotto lavoro di manipolazione delle coscienze degli individui sta al lettore chiederselo e provare a darsi una risposta, per quanto parziale e di parte.
Un lavoro che varrebbe la pena di far leggere nelle scuole.
Voto: 4/5
mercoledì 21 agosto 2019
Una vita cinese / Li Kunwu e Philippe Otié
lunedì 19 agosto 2019
Lazzaro felice
In una breve vacanza pre-ferragostana nelle Marche nella zona del mio amico M., ho la fortuna di essere a Montefiore dell'Aso nei giorni della rassegna estiva di cinema, organizzata dallo scenografo Giancarlo Basili che è del luogo e le cui opere sono esposte al locale Polo museale (visitato il giorno primo e assolutamente consigliato).
La rassegna dura poco ma i film scelti dimostrano che dietro la selezione c'è qualcuno che di cinema ne capisce. Io e M. decidiamo di andare a vedere Lazzaro felice, il film di Alice Rohrwacher che nessuno dei due ha visto questo inverno.
Siamo in campagna in un luogo e in un tempo imprecisati. Il luogo - scoprirò dopo - è l'affascinante e selvaggia zona dei calanchi che si sviluppa nella zona tra il viterbese e il ternano. In quanto all'epoca, potrebbero essere gli anni cinquanta per il modo in cui vivono e lavorano i contadini della Marchesa De Luna (Nicoletta Braschi), ma - man mano che la narrazione prosegue - capiamo che siamo probabilmente all'inizio degli anni Novanta.
In questo mondo arcaico dove i contadini vivono inconsapevoli di quello che accade fuori dal loro microcosmo e tenuti volontariamente all'oscuro di tutto dalla Marchesa che li tratta come mezzadri, nonostante la mezzadria sia stata abolita da tempo, vive anche Lazzaro (Adriano Tardiolo), un giovane dall'aria ingenua e dal gran cuore, che lavora sodo e non si tira mai indietro di fronte a nessuna richiesta pur di far contenti gli altri.
Quando arriva alla tenuta dell'Inviolata la marchesa con suo figlio Tancredi, Lazzaro fa amicizia con quest'ultimo e lo asseconda nel suo tentativo di attirare l'attenzione della madre fingendo di essere stato rapito.
Questo "scherzo" fa precipitare gli eventi. I carabinieri scoprono la situazione illegale in cui si trova la tenuta e portano via i contadini, mentre Lazzaro cade in un dirupo.
Quando si sveglia sono passati 20 anni e tutto è cambiato, tranne lui. Lazzaro torna alla tenuta dove non trova più nessuno cosicché si dirige verso la città dove incontra molti degli ex contadini e lo stesso Tancredi, i primi ancora più poveri di com'erano e il secondo decaduto e ridotto in povertà.
Quella di Alice Rohrwacher è una fiaba triste dentro la quale confluiscono molti temi e spunti di riflessione.
Innanzitutto la parabola - tanto più efficace in quanto sviluppata dentro un tempo compresso - di un'intera società in cui i poveri e gli sfruttati, pur passando da servi a uomini liberi, restano degli emarginati impegnati in una quotidiana lotta per la sopravvivenza. E mentre gli sfruttatori che furono sono ridotti anch'essi alla fame, nuovi sfruttatori meno identificabili e più volatili sono emersi.
In secondo luogo la trasversalità e la continuità di un qualcosa che, pur essendo una caratteristica che appartiene all'umanità, appare straordinaria e miracolosa, ossia la bontà incarnata da Lazzaro, destinata a essere scambiata a seconda dei casi per ingenuità o santità, risultando in generale incompresa e alla fine soffocata.
Negli occhi puliti e privi di preconcetti e malizia di Adriano Tardiolo c'è un'umanità primitiva - che poi forse non è mai esistita - basata sulla fiducia nell'altro e sulla collaborazione, che non ha posto nel consesso umano come il lupo ormai troppo debole per cacciare che viene espulso dal branco.
Una riflessione amara sul progresso e sui suoi frutti amari, conseguenza di un'umanità cieca e accecata dal dio denaro.
Voto: 3,5/5
La rassegna dura poco ma i film scelti dimostrano che dietro la selezione c'è qualcuno che di cinema ne capisce. Io e M. decidiamo di andare a vedere Lazzaro felice, il film di Alice Rohrwacher che nessuno dei due ha visto questo inverno.
Siamo in campagna in un luogo e in un tempo imprecisati. Il luogo - scoprirò dopo - è l'affascinante e selvaggia zona dei calanchi che si sviluppa nella zona tra il viterbese e il ternano. In quanto all'epoca, potrebbero essere gli anni cinquanta per il modo in cui vivono e lavorano i contadini della Marchesa De Luna (Nicoletta Braschi), ma - man mano che la narrazione prosegue - capiamo che siamo probabilmente all'inizio degli anni Novanta.
In questo mondo arcaico dove i contadini vivono inconsapevoli di quello che accade fuori dal loro microcosmo e tenuti volontariamente all'oscuro di tutto dalla Marchesa che li tratta come mezzadri, nonostante la mezzadria sia stata abolita da tempo, vive anche Lazzaro (Adriano Tardiolo), un giovane dall'aria ingenua e dal gran cuore, che lavora sodo e non si tira mai indietro di fronte a nessuna richiesta pur di far contenti gli altri.
Quando arriva alla tenuta dell'Inviolata la marchesa con suo figlio Tancredi, Lazzaro fa amicizia con quest'ultimo e lo asseconda nel suo tentativo di attirare l'attenzione della madre fingendo di essere stato rapito.
Questo "scherzo" fa precipitare gli eventi. I carabinieri scoprono la situazione illegale in cui si trova la tenuta e portano via i contadini, mentre Lazzaro cade in un dirupo.
Quando si sveglia sono passati 20 anni e tutto è cambiato, tranne lui. Lazzaro torna alla tenuta dove non trova più nessuno cosicché si dirige verso la città dove incontra molti degli ex contadini e lo stesso Tancredi, i primi ancora più poveri di com'erano e il secondo decaduto e ridotto in povertà.
Quella di Alice Rohrwacher è una fiaba triste dentro la quale confluiscono molti temi e spunti di riflessione.
Innanzitutto la parabola - tanto più efficace in quanto sviluppata dentro un tempo compresso - di un'intera società in cui i poveri e gli sfruttati, pur passando da servi a uomini liberi, restano degli emarginati impegnati in una quotidiana lotta per la sopravvivenza. E mentre gli sfruttatori che furono sono ridotti anch'essi alla fame, nuovi sfruttatori meno identificabili e più volatili sono emersi.
In secondo luogo la trasversalità e la continuità di un qualcosa che, pur essendo una caratteristica che appartiene all'umanità, appare straordinaria e miracolosa, ossia la bontà incarnata da Lazzaro, destinata a essere scambiata a seconda dei casi per ingenuità o santità, risultando in generale incompresa e alla fine soffocata.
Negli occhi puliti e privi di preconcetti e malizia di Adriano Tardiolo c'è un'umanità primitiva - che poi forse non è mai esistita - basata sulla fiducia nell'altro e sulla collaborazione, che non ha posto nel consesso umano come il lupo ormai troppo debole per cacciare che viene espulso dal branco.
Una riflessione amara sul progresso e sui suoi frutti amari, conseguenza di un'umanità cieca e accecata dal dio denaro.
Voto: 3,5/5
venerdì 16 agosto 2019
Disobbedienza / Naomi Alderman
Disobbedienza / Naomi Alderman; trad. di Maria Baiocchi. Milano: nottetempo, 2018.
Dopo aver visto il film di Sebastian Lelio, come spesso mi accade quando la sceneggiatura è tratta da un romanzo, mi è venuta voglia di leggere l'opera originale. In questo caso si tratta dell'omonimo romanzo di Naomi Alderman, recentemente riedito da nottetempo con la traduzione di Maria Baiocchi.
Ovviamente quando si legge un libro di cui si è visto il film, si va inevitabilmente alla ricerca delle differenze, soprattutto dal punto di vista narrativo.
Leggendo il romanzo, almeno fino alla metà si ha la sensazione che Lelio sia stato molto fedele alla narrazione originale e si sia concesso solo qualche variante narrativa tutto sommato trascurabile (penso al fatto che è Dovid e non Esti a chiamare Ronit a New York per informarla della morte del padre, o al fatto che a New York Ronit fa l'analista finanziaria e non la fotografa, e ha una storia con un uomo sposato che è anche il suo capo e non storie occasionali, al fatto che Fruma la moglie di Hartog sia un personaggio negativo e sgradevole e non affettuoso verso Ronit).
Man mano però che la lettura procede diventano sempre più evidenti le differenze tra il punto di vista del regista e quello della scrittrice. Lelio si concentra sul rapporto tra Ronit ed Esti: l'una da sempre ribelle di fronte all'ortodossia ebraica e fuggitiva rispetto alla chiusura dell'ambiente di provenienza, l'altra che ha fatto invece la scelta di restare e di trovare una propria strada e serenità nella comunità ebraica di Hendon, dove ha sposato Dovid, l'amico comune avviato a diventare rabbino dopo la morte di Rav Krushka. Il regista utilizza l'incontro tra Ronit ed Esti come l'occasione per riportare alla luce i sentimenti tra le due e la fatica di Esti nello scegliere l'ortodossia. Il film di Lelio racconta un percorso di liberazione e di ricerca della propria libertà individuale di fronte a qualunque condizionamento e per questo non può che far trionfare l'amore tra Ronit ed Esti.
Il racconto della Alderman è invece molto più complesso e meno lineare. Innanzitutto è necessario prestare attenzione alle scelte stilistiche e narrative della scrittrice. Ogni capitolo è infatti organizzato in tre parti: c'è una citazione da un testo sacro ebraico che viene spiegata e interpretata nell'ottica dell'ortodossia ebraica. Il tema sollevato e la relativa interpretazione sono la chiave di lettura delle vicende che seguono e che vengono narrate in terza persona, facendo sviluppare la storia. L'ultima parte del capitolo, identificata anche da un font diverso, riporta i pensieri e le riflessioni di Ronit in prima persona, il suo punto di vista e la sua lettura delle cose. La religione ebraica nel romanzo non è solo un ostacolo e una costrizione, bensì un fattore inestricabilmente intrecciato con le vite individuali, compresa quella di Ronit, come lei stessa ammetterà e chiarirà nelle pagine finali dicendo che c'è qualcosa di simile tra l'essere ebreo ed essere gay, ossia che entrambe le condizioni non sono una scelta, ma un dato di fatto con cui giocoforza bisogna confrontarsi.
E così, rispetto allo sviluppo narrativo del film che va nella direzione dell'inevitabile rottura per poter essere sé stessi, il libro ci descrive scelte molto meno dirompenti e forse anche meno comprensibili, una specie di ribellione interna che Esti sceglie come strada opposta e speculare a quella intrapresa da Ronit. Esti decide di restare, ma rompe il silenzio della sua comunità costringendo tutti a fare i conti con la verità. D'altra parte Ronit dovrà confrontarsi con il fatto che anche la sua vita a New York non è perfetta solo perché è la negazione dell'ortodossia ebraica, bensì richiede anch'essa impegno e spirito di costruzione.
Se il film di Lelio era liberatorio e per questo pacificante, il romanzo della Alderman è destabilizzante e riconciliante in modo inaspettato e forse anche non facile da accettare.
Come spesso accade, la forza dei libri - ovviamente di quelli buoni - sta nel sollevare domande più che nel dare risposte, e nel costringerci ad assumere un punto di vista altro, che in molti casi non ci appartiene e che proprio per questo ci mette silenziosamente in discussione e forse ci fa uscire un pochino dalla nostra comfort zone.
Voto: 4/5
Dopo aver visto il film di Sebastian Lelio, come spesso mi accade quando la sceneggiatura è tratta da un romanzo, mi è venuta voglia di leggere l'opera originale. In questo caso si tratta dell'omonimo romanzo di Naomi Alderman, recentemente riedito da nottetempo con la traduzione di Maria Baiocchi.
Ovviamente quando si legge un libro di cui si è visto il film, si va inevitabilmente alla ricerca delle differenze, soprattutto dal punto di vista narrativo.
Leggendo il romanzo, almeno fino alla metà si ha la sensazione che Lelio sia stato molto fedele alla narrazione originale e si sia concesso solo qualche variante narrativa tutto sommato trascurabile (penso al fatto che è Dovid e non Esti a chiamare Ronit a New York per informarla della morte del padre, o al fatto che a New York Ronit fa l'analista finanziaria e non la fotografa, e ha una storia con un uomo sposato che è anche il suo capo e non storie occasionali, al fatto che Fruma la moglie di Hartog sia un personaggio negativo e sgradevole e non affettuoso verso Ronit).
Man mano però che la lettura procede diventano sempre più evidenti le differenze tra il punto di vista del regista e quello della scrittrice. Lelio si concentra sul rapporto tra Ronit ed Esti: l'una da sempre ribelle di fronte all'ortodossia ebraica e fuggitiva rispetto alla chiusura dell'ambiente di provenienza, l'altra che ha fatto invece la scelta di restare e di trovare una propria strada e serenità nella comunità ebraica di Hendon, dove ha sposato Dovid, l'amico comune avviato a diventare rabbino dopo la morte di Rav Krushka. Il regista utilizza l'incontro tra Ronit ed Esti come l'occasione per riportare alla luce i sentimenti tra le due e la fatica di Esti nello scegliere l'ortodossia. Il film di Lelio racconta un percorso di liberazione e di ricerca della propria libertà individuale di fronte a qualunque condizionamento e per questo non può che far trionfare l'amore tra Ronit ed Esti.
Il racconto della Alderman è invece molto più complesso e meno lineare. Innanzitutto è necessario prestare attenzione alle scelte stilistiche e narrative della scrittrice. Ogni capitolo è infatti organizzato in tre parti: c'è una citazione da un testo sacro ebraico che viene spiegata e interpretata nell'ottica dell'ortodossia ebraica. Il tema sollevato e la relativa interpretazione sono la chiave di lettura delle vicende che seguono e che vengono narrate in terza persona, facendo sviluppare la storia. L'ultima parte del capitolo, identificata anche da un font diverso, riporta i pensieri e le riflessioni di Ronit in prima persona, il suo punto di vista e la sua lettura delle cose. La religione ebraica nel romanzo non è solo un ostacolo e una costrizione, bensì un fattore inestricabilmente intrecciato con le vite individuali, compresa quella di Ronit, come lei stessa ammetterà e chiarirà nelle pagine finali dicendo che c'è qualcosa di simile tra l'essere ebreo ed essere gay, ossia che entrambe le condizioni non sono una scelta, ma un dato di fatto con cui giocoforza bisogna confrontarsi.
E così, rispetto allo sviluppo narrativo del film che va nella direzione dell'inevitabile rottura per poter essere sé stessi, il libro ci descrive scelte molto meno dirompenti e forse anche meno comprensibili, una specie di ribellione interna che Esti sceglie come strada opposta e speculare a quella intrapresa da Ronit. Esti decide di restare, ma rompe il silenzio della sua comunità costringendo tutti a fare i conti con la verità. D'altra parte Ronit dovrà confrontarsi con il fatto che anche la sua vita a New York non è perfetta solo perché è la negazione dell'ortodossia ebraica, bensì richiede anch'essa impegno e spirito di costruzione.
Se il film di Lelio era liberatorio e per questo pacificante, il romanzo della Alderman è destabilizzante e riconciliante in modo inaspettato e forse anche non facile da accettare.
Come spesso accade, la forza dei libri - ovviamente di quelli buoni - sta nel sollevare domande più che nel dare risposte, e nel costringerci ad assumere un punto di vista altro, che in molti casi non ci appartiene e che proprio per questo ci mette silenziosamente in discussione e forse ci fa uscire un pochino dalla nostra comfort zone.
Voto: 4/5
mercoledì 14 agosto 2019
Dolcissime
In un rilassante semi-deserto tardo pomeriggio romano di inizio agosto, non essendoci molto altro al cinema da vedere, con G. decidiamo di andare a vedere il film di Francesco Ghiaccio, Dolcissime, in programmazione al cinema Lux.
La storia è quella di tre adolescenti, Chiara, Letizia e Mariagrazia, detta Mary, amiche per la pelle accomunate - tra le altre cose - dal fatto di amare mangiare e di essere parecchio in sovrappeso, con tutte le conseguenze sulla vita sociale che questo comporta.
Messe alla berlina da un video pubblicato su Internet, si vendicano con la responsabile, Alice, una loro compagna di scuola, nonché capitana della squadra di nuoto sincronizzato, minacciandola di postare online un video che la mostra con un uomo molto più grande di lei. Dietro questa minaccia Alice accetta di allenarle per la competizione di nuoto sincronizzato.
In questa vicinanza forzata, le quattro ragazze impareranno a conoscersi e a superare i reciproci pregiudizi, mettendosi a nudo in tutte le loro fragilità e difficoltà e sostenendosi reciprocamente. Lo svelamento al mondo esterno rispetto al microcosmo della loro amicizia sarà faticoso e costellato di rotture e conflitti, ma alla fine le farà ritrovare più forti, più consapevoli e più unite di prima.
Quella di Francesco Ghiaccio è una bella favola costellata di buone intenzioni e buoni sentimenti, ma un po' troppo semplicistica e fors'anche consolatoria. La focalizzazione sulle tre adolescenti "chiattone" e sulla loro amicizia con la ragazza magra, sportiva e di successo della scuola, vuole proporre una riflessione sul tema dell'accettazione di sé e dell'altro suggerendo che essa non può che passare attraverso la relazione e la conoscenza.
Ciò detto lo sviluppo narrativo risulta prevedibile e didascalico, il ritmo è piuttosto lento e appesantito da un numero decisamente eccessivo di riprese subacquee dei corpi delle ragazze in piscina (che pure sono affascinanti e hanno un loro perché), i personaggi secondari (e a tratti anche quelli principali) sono poco approfonditi e sfuggenti, a tratti stereotipati, e la recitazione delle giovani attrici lascia molto a desiderare, togliendo naturalezza e spontaneità all'intreccio, che comunque soffre sicuramente a monte di qualche rigidità della scrittura.
Insomma un film di cui è ammirevole l'intento, ma che mostra molti difetti di realizzazione e che quindi è probabilmente destinato ad affogare nel limbo della programmazione estiva.
Voto: 2,5/5
La storia è quella di tre adolescenti, Chiara, Letizia e Mariagrazia, detta Mary, amiche per la pelle accomunate - tra le altre cose - dal fatto di amare mangiare e di essere parecchio in sovrappeso, con tutte le conseguenze sulla vita sociale che questo comporta.
Messe alla berlina da un video pubblicato su Internet, si vendicano con la responsabile, Alice, una loro compagna di scuola, nonché capitana della squadra di nuoto sincronizzato, minacciandola di postare online un video che la mostra con un uomo molto più grande di lei. Dietro questa minaccia Alice accetta di allenarle per la competizione di nuoto sincronizzato.
In questa vicinanza forzata, le quattro ragazze impareranno a conoscersi e a superare i reciproci pregiudizi, mettendosi a nudo in tutte le loro fragilità e difficoltà e sostenendosi reciprocamente. Lo svelamento al mondo esterno rispetto al microcosmo della loro amicizia sarà faticoso e costellato di rotture e conflitti, ma alla fine le farà ritrovare più forti, più consapevoli e più unite di prima.
Quella di Francesco Ghiaccio è una bella favola costellata di buone intenzioni e buoni sentimenti, ma un po' troppo semplicistica e fors'anche consolatoria. La focalizzazione sulle tre adolescenti "chiattone" e sulla loro amicizia con la ragazza magra, sportiva e di successo della scuola, vuole proporre una riflessione sul tema dell'accettazione di sé e dell'altro suggerendo che essa non può che passare attraverso la relazione e la conoscenza.
Ciò detto lo sviluppo narrativo risulta prevedibile e didascalico, il ritmo è piuttosto lento e appesantito da un numero decisamente eccessivo di riprese subacquee dei corpi delle ragazze in piscina (che pure sono affascinanti e hanno un loro perché), i personaggi secondari (e a tratti anche quelli principali) sono poco approfonditi e sfuggenti, a tratti stereotipati, e la recitazione delle giovani attrici lascia molto a desiderare, togliendo naturalezza e spontaneità all'intreccio, che comunque soffre sicuramente a monte di qualche rigidità della scrittura.
Insomma un film di cui è ammirevole l'intento, ma che mostra molti difetti di realizzazione e che quindi è probabilmente destinato ad affogare nel limbo della programmazione estiva.
Voto: 2,5/5
venerdì 9 agosto 2019
Tesnota (Closeness)
Siamo a Nalchik, capitale della Repubblica di Cabardino-Balcaria, piccolo stato della Federazione russa nel Caucaso settentrionale, di cui - ammetto la mia ignoranza - non avevo mai sentito parlare.
In questa città è nato nel 1991 Kantemir Balagov, il giovane regista russo che ha studiato alla scuola di Sokurov e che ha presentato questa sua opera prima a Cannes nella sezione Un certain regard, ottenendo molti apprezzamenti e riconoscimenti.
Le vicende qui raccontate sono ambientate nel 1998 e - come il regista chiarisce all'inizio del film - sono ispirate a fatti di cronaca reali.
Al centro dell'intreccio c'è una famiglia di ebrei ortodossi formata da padre, madre e due figli, David (Veniamin Kac), che sta per sposare Lea, e Ilana (una straordinaria Darya Zhovnar), che lavora nell'officina da meccanico del padre e frequenta di nascosto Zalim (Nazir Zhukov), un ragazzo cabardo che lavora presso una pompa di benzina.
Subito dopo aver annunciato il loro matrimonio, David e Lea vengono rapiti e i rapitori chiedono un grosso riscatto per liberarli. La comunità ebreo-ortodossa, che è una minoranza ghettizzata dalla popolazione cabarda musulmana ma anche auto-ghettizzata dalle proprie scelte, decide di non rivolgersi alla polizia, bensì di attingere alla solidarietà interna per raggiungere la cifra del riscatto. La somma raccolta basta però per la liberazione di uno solo dei due giovani e si decide che servirà a liberare Lea che è figlia unica.
La famiglia di David si ritrova così a dover prima vendere a un prezzo stracciato l'officina con tutta l'attrezzatura e poi ad accettare la proposta di un'altra famiglia ebrea di dare in sposa Ilana al loro figlio in cambio dei soldi necessari a far liberare David.
Ilana, pur essendo molto legata al fratello - che tra l'altro gode di una posizione privilegiata nel sistema degli affetti familiari, in particolare da parte della madre -, non ci sta ad accettare il destino che è stato scritto per lei dai suoi genitori. La sua ribellione passerà dunque prima attraverso un ulteriore avvicinamento a Zalim e al suo mondo fatto di tossici e sballati che passano le giornate a bere, a farsi, a ballare in discoteca o a vedere in televisione video artigianali dei militanti ceceni che ammazzano brutalmente i prigionieri di guerra; poi attraverso una scelta estrema di sacrificio personale che non è quello che i genitori avevano pensato per lei ma grazie al quale riesce a ottenere comunque il denaro per salvare suo fratello.
Alla liberazione del fratello la famiglia, che non ha più niente né motivo per rimanere a Nalchik, decide di trasferirsi in un'altra zona della Russia dalla zia, e sarà proprio Ilana l'unica dei due figli a seguirli in questo trasferimento, una scelta che nasce da un groviglio di sentimenti contraddittori e che in ogni caso non segna un vero riavvicinamento affettivo ai genitori, in particolare alla madre.
Il film è interamente girato in formato 4:3, un formato ormai totalmente inusuale sul grande schermo che in questo caso è strettamente funzionale alla cifra emotiva del film. Intento di Bagalov è infatti quello di svelare il carattere ambivalente della "vicinanza" richiamata nel titolo del film, portando allo scoperto da un lato la forza dei legami affettivi, dall'altro la costrizione claustrofobica che ne deriva, due aspetti entrambi perfettamente incarnati nella figura di Ilana. Dentro questi fotogrammi compressi, il regista alterna momenti in cui sta addosso ai suoi protagonisti ad altri in cui li osserva da prospettive sghembe e anomale, come nel caso della scena di sesso; in generale i protagonisti si muovono in un mondo in cui l'oscurità regna sovrana (nelle case buie e nelle notti desolate di Nalchik), un'oscurità interrotta di tanto in tanto dai colori quasi fluorescenti indossati dai giovani (il verde smeraldo di David e Lea, il blu elettrico di Ilana e Zalim) e dalle luci accecanti che talvolta li avvolgono (quelle della discoteca o dei fari delle macchine).
Di fronte al film di Bagalov non si può non rimanere affascinati, ma al contempo interdetti e disorientati rispetto a un mondo in cui la modernità si è innestata su una struttura sociale tribale e basata sul conflitto senza riuscire a compensare la desolazione urbanistica e umana e che - pur non essendo così lontano nel tempo e nello spazio - risulta a tratti incomprensibile per effetto della distanza culturale ed emotiva.
Voto: 3,5/5
In questa città è nato nel 1991 Kantemir Balagov, il giovane regista russo che ha studiato alla scuola di Sokurov e che ha presentato questa sua opera prima a Cannes nella sezione Un certain regard, ottenendo molti apprezzamenti e riconoscimenti.
Le vicende qui raccontate sono ambientate nel 1998 e - come il regista chiarisce all'inizio del film - sono ispirate a fatti di cronaca reali.
Al centro dell'intreccio c'è una famiglia di ebrei ortodossi formata da padre, madre e due figli, David (Veniamin Kac), che sta per sposare Lea, e Ilana (una straordinaria Darya Zhovnar), che lavora nell'officina da meccanico del padre e frequenta di nascosto Zalim (Nazir Zhukov), un ragazzo cabardo che lavora presso una pompa di benzina.
Subito dopo aver annunciato il loro matrimonio, David e Lea vengono rapiti e i rapitori chiedono un grosso riscatto per liberarli. La comunità ebreo-ortodossa, che è una minoranza ghettizzata dalla popolazione cabarda musulmana ma anche auto-ghettizzata dalle proprie scelte, decide di non rivolgersi alla polizia, bensì di attingere alla solidarietà interna per raggiungere la cifra del riscatto. La somma raccolta basta però per la liberazione di uno solo dei due giovani e si decide che servirà a liberare Lea che è figlia unica.
La famiglia di David si ritrova così a dover prima vendere a un prezzo stracciato l'officina con tutta l'attrezzatura e poi ad accettare la proposta di un'altra famiglia ebrea di dare in sposa Ilana al loro figlio in cambio dei soldi necessari a far liberare David.
Ilana, pur essendo molto legata al fratello - che tra l'altro gode di una posizione privilegiata nel sistema degli affetti familiari, in particolare da parte della madre -, non ci sta ad accettare il destino che è stato scritto per lei dai suoi genitori. La sua ribellione passerà dunque prima attraverso un ulteriore avvicinamento a Zalim e al suo mondo fatto di tossici e sballati che passano le giornate a bere, a farsi, a ballare in discoteca o a vedere in televisione video artigianali dei militanti ceceni che ammazzano brutalmente i prigionieri di guerra; poi attraverso una scelta estrema di sacrificio personale che non è quello che i genitori avevano pensato per lei ma grazie al quale riesce a ottenere comunque il denaro per salvare suo fratello.
Alla liberazione del fratello la famiglia, che non ha più niente né motivo per rimanere a Nalchik, decide di trasferirsi in un'altra zona della Russia dalla zia, e sarà proprio Ilana l'unica dei due figli a seguirli in questo trasferimento, una scelta che nasce da un groviglio di sentimenti contraddittori e che in ogni caso non segna un vero riavvicinamento affettivo ai genitori, in particolare alla madre.
Il film è interamente girato in formato 4:3, un formato ormai totalmente inusuale sul grande schermo che in questo caso è strettamente funzionale alla cifra emotiva del film. Intento di Bagalov è infatti quello di svelare il carattere ambivalente della "vicinanza" richiamata nel titolo del film, portando allo scoperto da un lato la forza dei legami affettivi, dall'altro la costrizione claustrofobica che ne deriva, due aspetti entrambi perfettamente incarnati nella figura di Ilana. Dentro questi fotogrammi compressi, il regista alterna momenti in cui sta addosso ai suoi protagonisti ad altri in cui li osserva da prospettive sghembe e anomale, come nel caso della scena di sesso; in generale i protagonisti si muovono in un mondo in cui l'oscurità regna sovrana (nelle case buie e nelle notti desolate di Nalchik), un'oscurità interrotta di tanto in tanto dai colori quasi fluorescenti indossati dai giovani (il verde smeraldo di David e Lea, il blu elettrico di Ilana e Zalim) e dalle luci accecanti che talvolta li avvolgono (quelle della discoteca o dei fari delle macchine).
Di fronte al film di Bagalov non si può non rimanere affascinati, ma al contempo interdetti e disorientati rispetto a un mondo in cui la modernità si è innestata su una struttura sociale tribale e basata sul conflitto senza riuscire a compensare la desolazione urbanistica e umana e che - pur non essendo così lontano nel tempo e nello spazio - risulta a tratti incomprensibile per effetto della distanza culturale ed emotiva.
Voto: 3,5/5
mercoledì 7 agosto 2019
La misteriosa morte della compagna Guan / Qiu Xiaolong
La misteriosa morte della compagna Guan / Qiu Xiaolong; trad. di Paola Vertuani. Venezia: Marsilio; Milano: Feltrinelli, 2018.
Dopo aver scoperto Qiu Xialong con la lettura di Di sangue e di seta e averlo molto apprezzato ho deciso di ripartire dal principio (lo stesso mi era capitato a suo tempo con i libri di Fred Vargas con protagonista Adamsberg). E così ho comprato la prima inchiesta del commissario Chen Cao nella recente edizione all'interno della collana Universale Economica di Feltrinelli, pubblicata in collaborazione con Marsilio, l'editore storico di Xiaolong.
La misteriosa morte della compagna Guan mi ha accompagnata per un'intera settimana di vacanza e si è rivelato una lettura impegnativa, tanto che non ho fatto in tempo a leggere nient'altro. Però questo primo appuntamento con Chen Cao, il suo assistente Yu e sua moglie Peiqin, il segretario di partito Li, e tutti gli altri personaggi del mondo creato da Xiaolong mi ha confermato le qualità narrative dell'autore cinese e mi ha aiutato a delineare meglio il personaggio principale.
I libri di Xiaolong si confermano dei "diesel". Partono sempre piuttosto lentamente e per un po' sembrano trascinarsi, poi il ritmo e l'intensità crescono trasportando il lettore nei meandri di una società cinese per noi non facilissima da interpretare.
Del resto, proprio questo è forse l'aspetto più interessante dei gialli di Xiaolong, che sono sostanzialmente un pretesto per raccontare i cambiamenti della Cina negli ultimi decenni, per parlare del passato di questo paese e per approfondirne i modi di vivere, la cultura, le abitudini sociali, la letteratura.
Personalmente trovo alcune parti illuminanti e i racconti di Xiaolong mi aiutano a comprendere meglio un mondo che, pur essendo ormai sempre più vicino al nostro, da certi punti di vista ci è invece totalmente estraneo, soprattutto per la forte eredità - in positivo e in negativo - che il passato continua a esercitare sulla Cina contemporanea.
In questo caso il romanzo è ambientato alla fine degli anni Novanta, a due anni dal noto episodio di piazza Tienanmen, e si focalizza particolarmente sulle difficoltà del governo cinese di gestire una transizione che non metta in discussione la posizione del Partito.
L'omicidio con cui si apre il libro è quello di una giovane donna ritrovata in un canale a diversi chilometri dalla città. La donna si rivela essere Guan Hongying, una Lavoratrice Modello della Nazione, della cui morte è sospettato Wu Xiaoming, un fotografo figlio di un alto quadro del partito. Il caso diventa dunque ben presto politico, mentre per il Commissario Chen è l'occasione di una riflessione anche molto personale sulla propria vita e sulle sue prospettive, nonché di un confronto con alcune figure che hanno avuto un significato nel suo passato.
Questo primo romanzo di Xiaolong ci racconta anche le origini dell'amicizia con l'assistente Yu, inizialmente ostile nei confronti di Chen che lo ha scavalcato nell'ottenere un alloggio, e ci introduce alle passioni del commissario, principalmente la poesia (Chen è anche un poeta modernista) e il cibo (il commissario è anche un buongustaio). In questo libro veniamo anche a conoscenza delle passioni private di Chen Cao e della sua sensibilità al fascino femminile che però - con grande disappunto della madre - non si traduce in una relazione stabile e dunque in un matrimonio.
Come nell'altro romanzo che avevo letto, il giallo - pure interessante - non è l'aspetto di punta dei libri di Xiaolong, che piaceranno soprattutto a chi ha curiosità per la società cinese e vuole davvero capirne di più di questo mondo così affascinante e inquietante al contempo.
Voto: 4/5
Dopo aver scoperto Qiu Xialong con la lettura di Di sangue e di seta e averlo molto apprezzato ho deciso di ripartire dal principio (lo stesso mi era capitato a suo tempo con i libri di Fred Vargas con protagonista Adamsberg). E così ho comprato la prima inchiesta del commissario Chen Cao nella recente edizione all'interno della collana Universale Economica di Feltrinelli, pubblicata in collaborazione con Marsilio, l'editore storico di Xiaolong.
La misteriosa morte della compagna Guan mi ha accompagnata per un'intera settimana di vacanza e si è rivelato una lettura impegnativa, tanto che non ho fatto in tempo a leggere nient'altro. Però questo primo appuntamento con Chen Cao, il suo assistente Yu e sua moglie Peiqin, il segretario di partito Li, e tutti gli altri personaggi del mondo creato da Xiaolong mi ha confermato le qualità narrative dell'autore cinese e mi ha aiutato a delineare meglio il personaggio principale.
I libri di Xiaolong si confermano dei "diesel". Partono sempre piuttosto lentamente e per un po' sembrano trascinarsi, poi il ritmo e l'intensità crescono trasportando il lettore nei meandri di una società cinese per noi non facilissima da interpretare.
Del resto, proprio questo è forse l'aspetto più interessante dei gialli di Xiaolong, che sono sostanzialmente un pretesto per raccontare i cambiamenti della Cina negli ultimi decenni, per parlare del passato di questo paese e per approfondirne i modi di vivere, la cultura, le abitudini sociali, la letteratura.
Personalmente trovo alcune parti illuminanti e i racconti di Xiaolong mi aiutano a comprendere meglio un mondo che, pur essendo ormai sempre più vicino al nostro, da certi punti di vista ci è invece totalmente estraneo, soprattutto per la forte eredità - in positivo e in negativo - che il passato continua a esercitare sulla Cina contemporanea.
In questo caso il romanzo è ambientato alla fine degli anni Novanta, a due anni dal noto episodio di piazza Tienanmen, e si focalizza particolarmente sulle difficoltà del governo cinese di gestire una transizione che non metta in discussione la posizione del Partito.
L'omicidio con cui si apre il libro è quello di una giovane donna ritrovata in un canale a diversi chilometri dalla città. La donna si rivela essere Guan Hongying, una Lavoratrice Modello della Nazione, della cui morte è sospettato Wu Xiaoming, un fotografo figlio di un alto quadro del partito. Il caso diventa dunque ben presto politico, mentre per il Commissario Chen è l'occasione di una riflessione anche molto personale sulla propria vita e sulle sue prospettive, nonché di un confronto con alcune figure che hanno avuto un significato nel suo passato.
Questo primo romanzo di Xiaolong ci racconta anche le origini dell'amicizia con l'assistente Yu, inizialmente ostile nei confronti di Chen che lo ha scavalcato nell'ottenere un alloggio, e ci introduce alle passioni del commissario, principalmente la poesia (Chen è anche un poeta modernista) e il cibo (il commissario è anche un buongustaio). In questo libro veniamo anche a conoscenza delle passioni private di Chen Cao e della sua sensibilità al fascino femminile che però - con grande disappunto della madre - non si traduce in una relazione stabile e dunque in un matrimonio.
Come nell'altro romanzo che avevo letto, il giallo - pure interessante - non è l'aspetto di punta dei libri di Xiaolong, che piaceranno soprattutto a chi ha curiosità per la società cinese e vuole davvero capirne di più di questo mondo così affascinante e inquietante al contempo.
Voto: 4/5
lunedì 5 agosto 2019
Iron & Wine + Calexico. Villa Ada incontra il mondo, 24 luglio 2019
Dal mio punto di vista e rispetto alle mie personali aspettative, l'estate romana è stata piuttosto deludente in quanto a live musicali. Pur essendo l'offerta piuttosto ampia, mi è sembrato che la programmazione abbia oscillato tra un sostanziale provincialismo da un lato e alcuni grandi nomi (talvolta però passati un po' di moda) dall'altro.
In questo panorama per me non entusiasmante avevo però adocchiato da tempo - nel programma di Villa Ada incontra il mondo - il concerto di Iron & Wine e Calexico insieme.
Iron & Wine è il nome d'arte del musicista Samuel Ervin Beam, un bell'uomo con la barba lunghissima, ben oltre l'iconografia hipster, che canta e suona la chitarra, mentre i Calexico sono una band i cui due componenti storici sono Joey Burns (voce e chitarra) e John Convertino (batteria), a suo tempo componenti anche dei Giant Sand di Howe Gelb. Vengono tutti dagli Stati Uniti, Sam Beam dal North Carolina (ma ha vissuto anche in Texas), e i Calexico dall'Arizona, e tutti hanno respirato e fatto proprie le sonorità della musica tradizionale americana reinterpretandola ciascuno a modo proprio.
Ebbene questi musicisti - che hanno gloriose carriere autonome alle spalle, ma che con anime e sensibilità diverse si muovono entrambi nell'ambito dell'indie folk - in alcuni momenti di queste carriere si sono incontrati in un terreno musicale comune dando vita a progetti condivisi: era accaduto nel 2005 con l'album In the reins ed è accaduto a distanza di circa 15 anni con l'album uscito in questo 2019 dal titolo Years to burn.
Questo nuovo disco ha dato l'avvio a un tour in cui i Calexico e Iron & Wine si esibiscono insieme sul palco, accompagnati da una band che ne valorizza appieno le sonorità e le aspirazioni musicali, tra cui il trombettista Jacob Valenzuela, uno straordinario bassista che fa anche un grande assolo al contrabbasso, e un eccellente tastierista che offre anche delle esibizioni alla fisarmonica.
Prima che salgano sul palco gli ospiti d'onore della serata, il live inizia con l'opening dei Panta, una band italiana per me sconosciuta, formata da un cantante-chitarrista, una seconda voce femminile, un altro chitarrista, un bassista, un percussionista e una tastierista. I Panta cantano in italiano e fanno un genere che a me è sembrato fondamentalmente un indie-pop, anche se probabilmente dal loro punto di vista questa etichetta potrebbe essere riduttiva. Il gruppo ci propone una selezione del proprio repertorio in parte confluito nel primo album dal titolo Incubisogni. La loro esibizione suscita reazioni diverse nel pubblico: qualcuno si fa conquistare e apprezza, qualcuno è sostanzialmente indifferente e qualcun altro mostra segni di fastidio rispetto alla presunta artigianalità dell'esibizione. A me più che altro le canzoni dei Panta non dicono molto e non riesco ad appassionarmi granché né ai testi né alle melodie che non mi suonano particolarmente originali.
Al termine della loro esibizione e dopo le prove sugli strumenti, salgono sul palco Sam Beam, che si posiziona al microfono a sinistra, con a fianco uno sgabello su cui è poggiato un bicchiere di vino, e Joey Burns, che - con il suo cappello bianco calcato sulla testa e la sua chitarra - si posiziona a destra. Inizia così un live in cui si alternano le sonorità un po' tex mex dei Calexico e quelle più folk-intimistiche di Iron & Wine. Nell'incontro di queste due anime musicali, accade che le cose più riuscite sia non tanto quelle in cui esse si fondono perdendo di identità (come in parte accade nel disco, che - devo ammettere - non mi ha conquistata), bensì quelle in cui emerge lo spirito più proprio di ciascuno. E dunque nella prima parte del concerto sono molto belle le esecuzioni che mettono in campo al massimo grado gli strumenti, soprattutto la tromba, la fisarmonica e il contrabbasso, alzando il ritmo e la passione (che sono poi i punti di forza dei Calexico), mentre nella seconda parte, quella in cui Sam Bean e Joey Burns duettano da soli sul palco, emerge la componente più cantautoriale e romantica che è la cifra stilistica che meglio si confà ad Iron & Wine.
In sostanza, come accade nei matrimoni meglio riusciti, non è la fusione e l'annullamento delle individualità che produce i risultati migliori, bensì la valorizzazione delle singolarità e la disponibilità di ciascuno a mettersi di volta in volta e reciprocamente al servizio dell'identità musicale altrui.
Il risultato è decisamente affascinante, e il pubblico - nonostante l'ora tarda e il caldo che ti incolla addosso i vestiti - ascolta rapito e attento questo riuscito esperimento musicale, in cui due cantanti in parte simili ma anche molto diversi per personalità e scelte musicali offrono al pubblico la parte migliore di sé avvalendosi anche dell'apporto dell'altro.
I musicisti ci offrono anche un paio di divertenti siparietti: Sam Bean a un certo punto fa entrare sul palco quello che chiama il suo "personale sommelier" che gli mostra una bottiglia di vino bianco e gliene versa un po' nel bicchiere ormai vuoto, mentre Joey Burns ci mostra la sua bottiglia di acqua minerale sulla cui etichetta ha modificato a penna il nome (intuibile) trasformandolo in FIGO e che - come lui dice - è diventata ormai la sua acqua preferita.
Al termine del live il pubblico li richiama a gran voce e tutti i musicisti tornano sul palco per eseguire la canzone omonima dell'album Years to burn, con cui si chiude questa bella serata musicale nel magnifico scenario di Villa Ada.
Voto: 3,5/5
In questo panorama per me non entusiasmante avevo però adocchiato da tempo - nel programma di Villa Ada incontra il mondo - il concerto di Iron & Wine e Calexico insieme.
Iron & Wine è il nome d'arte del musicista Samuel Ervin Beam, un bell'uomo con la barba lunghissima, ben oltre l'iconografia hipster, che canta e suona la chitarra, mentre i Calexico sono una band i cui due componenti storici sono Joey Burns (voce e chitarra) e John Convertino (batteria), a suo tempo componenti anche dei Giant Sand di Howe Gelb. Vengono tutti dagli Stati Uniti, Sam Beam dal North Carolina (ma ha vissuto anche in Texas), e i Calexico dall'Arizona, e tutti hanno respirato e fatto proprie le sonorità della musica tradizionale americana reinterpretandola ciascuno a modo proprio.
Ebbene questi musicisti - che hanno gloriose carriere autonome alle spalle, ma che con anime e sensibilità diverse si muovono entrambi nell'ambito dell'indie folk - in alcuni momenti di queste carriere si sono incontrati in un terreno musicale comune dando vita a progetti condivisi: era accaduto nel 2005 con l'album In the reins ed è accaduto a distanza di circa 15 anni con l'album uscito in questo 2019 dal titolo Years to burn.
Questo nuovo disco ha dato l'avvio a un tour in cui i Calexico e Iron & Wine si esibiscono insieme sul palco, accompagnati da una band che ne valorizza appieno le sonorità e le aspirazioni musicali, tra cui il trombettista Jacob Valenzuela, uno straordinario bassista che fa anche un grande assolo al contrabbasso, e un eccellente tastierista che offre anche delle esibizioni alla fisarmonica.
Prima che salgano sul palco gli ospiti d'onore della serata, il live inizia con l'opening dei Panta, una band italiana per me sconosciuta, formata da un cantante-chitarrista, una seconda voce femminile, un altro chitarrista, un bassista, un percussionista e una tastierista. I Panta cantano in italiano e fanno un genere che a me è sembrato fondamentalmente un indie-pop, anche se probabilmente dal loro punto di vista questa etichetta potrebbe essere riduttiva. Il gruppo ci propone una selezione del proprio repertorio in parte confluito nel primo album dal titolo Incubisogni. La loro esibizione suscita reazioni diverse nel pubblico: qualcuno si fa conquistare e apprezza, qualcuno è sostanzialmente indifferente e qualcun altro mostra segni di fastidio rispetto alla presunta artigianalità dell'esibizione. A me più che altro le canzoni dei Panta non dicono molto e non riesco ad appassionarmi granché né ai testi né alle melodie che non mi suonano particolarmente originali.
Al termine della loro esibizione e dopo le prove sugli strumenti, salgono sul palco Sam Beam, che si posiziona al microfono a sinistra, con a fianco uno sgabello su cui è poggiato un bicchiere di vino, e Joey Burns, che - con il suo cappello bianco calcato sulla testa e la sua chitarra - si posiziona a destra. Inizia così un live in cui si alternano le sonorità un po' tex mex dei Calexico e quelle più folk-intimistiche di Iron & Wine. Nell'incontro di queste due anime musicali, accade che le cose più riuscite sia non tanto quelle in cui esse si fondono perdendo di identità (come in parte accade nel disco, che - devo ammettere - non mi ha conquistata), bensì quelle in cui emerge lo spirito più proprio di ciascuno. E dunque nella prima parte del concerto sono molto belle le esecuzioni che mettono in campo al massimo grado gli strumenti, soprattutto la tromba, la fisarmonica e il contrabbasso, alzando il ritmo e la passione (che sono poi i punti di forza dei Calexico), mentre nella seconda parte, quella in cui Sam Bean e Joey Burns duettano da soli sul palco, emerge la componente più cantautoriale e romantica che è la cifra stilistica che meglio si confà ad Iron & Wine.
In sostanza, come accade nei matrimoni meglio riusciti, non è la fusione e l'annullamento delle individualità che produce i risultati migliori, bensì la valorizzazione delle singolarità e la disponibilità di ciascuno a mettersi di volta in volta e reciprocamente al servizio dell'identità musicale altrui.
Il risultato è decisamente affascinante, e il pubblico - nonostante l'ora tarda e il caldo che ti incolla addosso i vestiti - ascolta rapito e attento questo riuscito esperimento musicale, in cui due cantanti in parte simili ma anche molto diversi per personalità e scelte musicali offrono al pubblico la parte migliore di sé avvalendosi anche dell'apporto dell'altro.
I musicisti ci offrono anche un paio di divertenti siparietti: Sam Bean a un certo punto fa entrare sul palco quello che chiama il suo "personale sommelier" che gli mostra una bottiglia di vino bianco e gliene versa un po' nel bicchiere ormai vuoto, mentre Joey Burns ci mostra la sua bottiglia di acqua minerale sulla cui etichetta ha modificato a penna il nome (intuibile) trasformandolo in FIGO e che - come lui dice - è diventata ormai la sua acqua preferita.
Al termine del live il pubblico li richiama a gran voce e tutti i musicisti tornano sul palco per eseguire la canzone omonima dell'album Years to burn, con cui si chiude questa bella serata musicale nel magnifico scenario di Villa Ada.
Voto: 3,5/5
venerdì 2 agosto 2019
Il nostro meglio / Thi Bui
Il nostro meglio / Thi Bui; trad. di Veronica Raimo. Milano: Mondadori, 2018.
La Mondadori pubblica nella collana "Oscar Ink" l'edizione italiana del graphic memoir The best we could do (tradotto in italiano con Il nostro meglio), di Thi Bui, una insegnante, fumettista e scrittrice americana di origine vietnamita.
L'opera di Thi Bui nasce dall'urgenza di scavare nella storia familiare, nel momento in cui la donna partorisce il suo primo figlio e si trova di fronte al senso di responsabilità enorme che questo comporta. È qui che la donna comincia a interrogarsi sui suoi genitori e a voler comprendere cosa si nasconde dietro i loro comportamenti e quali sono le radici di alcuni loro modi di essere.
In questa ricostruzione, Thi Bui risale indietro nel tempo fino agli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, in un Vietnam che faceva parte dell'Indocina francese e dove vivevano i suoi nonni. Attraversiamo così la storia di un paese che ha subito le pesanti conseguenze della colonizzazione, ritrovandosi nel secondo dopoguerra e poi con l'inizio della contrapposizione dei blocchi, spaccato in due: il nord comunista e il sud filo-occidentale. Un paese che ha vissuto l'ingerenza bellica degli Stati Uniti, ma che al ritiro delle truppe americane ha vissuto una guerra civile ancora più orribile che ha messo i vietnamiti gli uni contro gli altri e ha costretto molti alla fuga per sfuggire alle violenze, alla fame e alle epurazioni.
La famiglia di Thi Bui, formata oltre che dai due genitori da altre due sorelle e un fratello (nato in un campo profughi) e che porta con sé l'ombra di altre due figlie morte dopo la nascita, ha fatto parte dei boat people che sono scappati in barca in Malesia e hanno vissuto in un campo profughi, fino alla ricollocazione negli Stati Uniti, anche grazie al fatto che lì già viveva una sorella della mamma che ha fatto da garante per loro.
Agli orrori, alle fatiche, alle enormi difficoltà vissute in patria e come profughi in Malesia è seguita poi la vita da immigrati negli Stati Uniti, non certo meno facile o più accogliente, con un padre a casa a gestire i figli piccoli e una madre impegnata fuori casa per tutta la giornata in un lavoro sottopagato .
Questo viaggio nel tempo e nelle storie personali dei suoi genitori (e dei genitori dei suoi genitori) è una specie di viaggio alle radici del dolore che questa famiglia e lei stessa si portano dentro, quel dolore con cui Thi Bui ha dovuto fare i conti e venire a patti, fino a perdonare i genitori e i loro limiti, ma in fondo anche sé stessa e i propri limiti presenti e futuri verso suo figlio. Perché "the best we could do" non è necessariamente il meglio in assoluto, ma il meglio possibile stanti le condizioni e le esperienze individuali.
Il nostro meglio è una profonda riflessione sul rapporto genitori-figli, sulla necessità che ogni generazione conosca, comprenda e perdoni la precedente per guardare avanti e trasmetta il passato e i suoi valori al futuro senza per questo imbrigliarlo.
Ma soprattutto questo fumetto è l'occasione di conoscere e comprendere meglio la storia di un paese, le cui vicende sono note solo attraverso la lente delle diverse propagande ideologiche, nonché uno straordinario racconto di cosa significa essere costretti a fuggire dal proprio paese e iniziare una nuova vita in un posto in cui ci si sente estranei, facendoci vivere quasi sulla pelle la paura e il dolore di una vita continuamente minacciata e in fuga, ma anche l'istinto di sopravvivenza che ci guida nelle situazioni peggiori e la solidarietà che talvolta fa capolino nella barbarie.
Un grandissimo fumetto da cui farsi indignare e commuovere senza ritegno.
Voto: 4,5/5
La Mondadori pubblica nella collana "Oscar Ink" l'edizione italiana del graphic memoir The best we could do (tradotto in italiano con Il nostro meglio), di Thi Bui, una insegnante, fumettista e scrittrice americana di origine vietnamita.
L'opera di Thi Bui nasce dall'urgenza di scavare nella storia familiare, nel momento in cui la donna partorisce il suo primo figlio e si trova di fronte al senso di responsabilità enorme che questo comporta. È qui che la donna comincia a interrogarsi sui suoi genitori e a voler comprendere cosa si nasconde dietro i loro comportamenti e quali sono le radici di alcuni loro modi di essere.
In questa ricostruzione, Thi Bui risale indietro nel tempo fino agli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, in un Vietnam che faceva parte dell'Indocina francese e dove vivevano i suoi nonni. Attraversiamo così la storia di un paese che ha subito le pesanti conseguenze della colonizzazione, ritrovandosi nel secondo dopoguerra e poi con l'inizio della contrapposizione dei blocchi, spaccato in due: il nord comunista e il sud filo-occidentale. Un paese che ha vissuto l'ingerenza bellica degli Stati Uniti, ma che al ritiro delle truppe americane ha vissuto una guerra civile ancora più orribile che ha messo i vietnamiti gli uni contro gli altri e ha costretto molti alla fuga per sfuggire alle violenze, alla fame e alle epurazioni.
La famiglia di Thi Bui, formata oltre che dai due genitori da altre due sorelle e un fratello (nato in un campo profughi) e che porta con sé l'ombra di altre due figlie morte dopo la nascita, ha fatto parte dei boat people che sono scappati in barca in Malesia e hanno vissuto in un campo profughi, fino alla ricollocazione negli Stati Uniti, anche grazie al fatto che lì già viveva una sorella della mamma che ha fatto da garante per loro.
Agli orrori, alle fatiche, alle enormi difficoltà vissute in patria e come profughi in Malesia è seguita poi la vita da immigrati negli Stati Uniti, non certo meno facile o più accogliente, con un padre a casa a gestire i figli piccoli e una madre impegnata fuori casa per tutta la giornata in un lavoro sottopagato .
Questo viaggio nel tempo e nelle storie personali dei suoi genitori (e dei genitori dei suoi genitori) è una specie di viaggio alle radici del dolore che questa famiglia e lei stessa si portano dentro, quel dolore con cui Thi Bui ha dovuto fare i conti e venire a patti, fino a perdonare i genitori e i loro limiti, ma in fondo anche sé stessa e i propri limiti presenti e futuri verso suo figlio. Perché "the best we could do" non è necessariamente il meglio in assoluto, ma il meglio possibile stanti le condizioni e le esperienze individuali.
Il nostro meglio è una profonda riflessione sul rapporto genitori-figli, sulla necessità che ogni generazione conosca, comprenda e perdoni la precedente per guardare avanti e trasmetta il passato e i suoi valori al futuro senza per questo imbrigliarlo.
Ma soprattutto questo fumetto è l'occasione di conoscere e comprendere meglio la storia di un paese, le cui vicende sono note solo attraverso la lente delle diverse propagande ideologiche, nonché uno straordinario racconto di cosa significa essere costretti a fuggire dal proprio paese e iniziare una nuova vita in un posto in cui ci si sente estranei, facendoci vivere quasi sulla pelle la paura e il dolore di una vita continuamente minacciata e in fuga, ma anche l'istinto di sopravvivenza che ci guida nelle situazioni peggiori e la solidarietà che talvolta fa capolino nella barbarie.
Un grandissimo fumetto da cui farsi indignare e commuovere senza ritegno.
Voto: 4,5/5
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