Sono ormai 15 anni che vivo a Roma e sono almeno altrettanti anni che sento parlare delle meraviglie del giardino di Ninfa. Non era però mai arrivata l’occasione giusta per andarci, anche perché il giardino non è aperto tutto l’anno e anche nei periodi in cui è aperto bisogna prenotarsi per tempo, per non rischiare di trovare il tutto esaurito nella data prescelta.
Quest’anno, però, con l’adattamento progressivo al contesto e anche grazie al supporto di F., riesco finalmente a organizzare la gita fuori porta attesa da tempo.
Il programma della giornata prevede prima una visita alla cittadina di Sermoneta e al suo castello, che si trovano a soli 15 minuti da Ninfa e facevano sempre parte dei possedimenti dei Caetani, e poi quella al giardino di Ninfa dove abbiamo prenotato per il turno delle 15.
Da Roma ci vuole circa un’ora e mezza per arrivare a Sermoneta con la nostra Pandina del car sharing. Una volta lì puntiamo direttamente al castello, attraversando la strada principale del centro storico del paese, perché F. ha letto che l’ultimo ingresso utile per la visita guidata è a mezzogiorno.
Appena arriviamo effettivamente si sta formando un gruppo per la visita, cui prontamente ci aggreghiamo. Il castello è imponente e la visita ci consente di ammirarlo in tutta la sua complessità e bellezza. Come per la maggior parte dei castelli, la sua proprietà è cambiata nel corso del tempo (prima gli Annibaldi, poi i Caetani, quindi i Borgia, e infine nuovamente i Caetani) e ogni famiglia che è entrata in possesso di questa proprietà ha apportato le sue migliorie e fatto costruire corpi di fabbrica nuovi.
Il risultato – considerato anche l’ambiente naturale e architettonico nel quale si colloca – è molto affascinante. La visita guidata ci consente di visitare quasi tutti gli spazi interni, nonché le scuderie e le cucine; inoltre, passeggiamo sul camminamento delle mura di cinta e attraversiamo un passaggio segreto interno alle mura che ci consente di uscire al primo ponte levatoio dove la nostra visita finisce.
Dopo la visita è il momento di pranzo, e per non perdere troppo tempo decidiamo di prendere un panino con la porchetta (o con il prosciutto, ricordiamo che questa è la zona di Bassiano!) che andiamo a mangiare nel giardino degli aranci, che ci viene consigliato dalla ragazza della norcineria.
A questo punto siamo pronte a perderci per le strade del centro storico di Sermoneta, un borgo medievale che sembra davvero essere rimasto sospeso nel tempo (a parte la presenza delle automobili!). C’è un signore per strada che restaura mobili antichi e una vecchina alla finestra che si nasconde dietro le piante, forse per non essere fotografata.
Vorremmo prendere un gelato prima di andar via ma qualche goccia di pioggia ci convince a tornare in macchina. Mentre andiamo verso il giardino di Ninfa viene giù il diluvio universale (una specie di pioggia torrenziale di tipo subtropicale, come è ormai sempre più frequente nel nostro paese) e dobbiamo fermarci nel parcheggio del giardino, sperando che smetta di piovere prima che arrivi il nostro orario della visita.
La fortuna ci assiste e così eccoci in fila per l’ingresso ai giardini. Abbiamo una guida simpatica e preparata che rende la visita di un posto già di per sé meraviglioso ancora più affascinante. Scopriamo – grazie alla nostra guida – che Ninfa non nasce come un giardino, bensì era una importante città medievale, punto di transito di merci e persone, sempre di proprietà dei Caetani, come Sermoneta. Quindi quelli che vedremo nella nostra passeggiata all’interno del giardino sono i resti della città medievale, case, chiese, edifici e piazze. Il tutto in un contesto naturalistico di eccezione, un mix di stili di giardino (primo fra tutti lo stile romantico) che è stato ammirato fin dai tempi antichi e negli ultimi anni è stato più volte nominato dal "New York Times" come uno dei giardini più belli del mondo.
La cosa straordinaria di questo luogo - che è difficile esprimere a parole e di cui si può avere solo una vaga idea attraverso le fotografie - è che durante il percorso è possibile ammirare fiori e piante di tutti i tipi (dalle più comuni alle più rare), ma anche scorci affascinanti, fiumi e cascatelle, nonché resti archeologici di un passato che oggi sembra inimmaginabile.
Al termine della visita al giardino chi vuole – e noi vogliamo – può concludere il percorso facendo un giro al cosiddetto Hortus conclusus, un annesso del giardino di Ninfa in cui prevalgono gli alberi di agrumi e dove abita una famiglia di cigni con i loro anatroccoli. Nella vasca di fronte a quella dei cigni abbiamo anche la possibilità di fare la conoscenza di un’oca selvatica che durante la migrazione si è staccata dal gruppo e pare per il momento aver trovato una sua casa (probabilmente provvisoria) in questo luogo.
All’uscita dal giardino di Ninfa decidiamo – come ci è stato suggerito dalla guida – di andare a fare una visita anche all’Abbazia di Valvisciolo, un’abbazia cistercense con un bellissimo chiostro molto ben conservato.
Soddisfatte torniamo verso Roma e, nonostante un lungo rallentamento sulla via Pontina, dopo tanta bellezza riusciamo anche a sopportare il traffico che ci accoglie al rientro nella città.
giovedì 31 maggio 2018
martedì 29 maggio 2018
Prima di andar via / di e con Filippo Gili. Teatro Piccolo Eliseo, 18 maggio 2018
Dopo aver scoperto leggendo il Rapporto ISTAT 2018 che appartengo al circa 20% della popolazione italiana che va a teatro almeno una volta all’anno (ma forse al 2% che ci va regolarmente nel corso dell’anno), mi do una spiegazione del perché a ogni spettacolo teatrale che vado a vedere (indipendentemente dalla sua qualità e dal suo costo) il pubblico occupa sempre meno della metà della sala.
Non fa eccezione il pubblico di questo spettacolo - bello e potente - in scena al Piccolo Eliseo, Prima di andar via, scritto e interpretato da Filippo Gili (insieme a Giorgio Colangeli, Michela Martini, Barbara Ronchi e Aurora Peres), per la regia di Francesco Frangipane.
Sul palco un interno familiare: una cucina con un tavolo attorno al quale una famiglia, padre e madre piuttosto anziani e tre figli, un maschio e due femmine, la più piccola delle quali sta finendo un dottorato, è riunita per una cena in cui si parla del più e del meno e ognuno racconta la propria vita e le ultime cose che gli sono capitate.
L’unico silenzioso è Francesco, il figlio maggiore, che a un certo punto interrompe l’allegra chiacchiera familiare per annunciare che il giorno dopo non ci sarà più. Segue un silenzio infinito nello smarrimento generale, che vede ciascun membro della famiglia indietreggiare nella difficoltà di gestire emotivamente e praticamente questa notizia.
A poco a poco il capofamiglia trova la forza di rompere il silenzio dell’incredulità e dello shock per chiedere spiegazioni al figlio. Francesco confessa che ha deciso di suicidarsi perché la sua vita non ha più senso dopo la morte della moglie, ma ha deciso di dirlo a tutti loro per evitargli inutili e immotivati sensi di colpa.
Il vaso familiare è ormai in frantumi, e ciascuno dei membri della famiglia fa dei tentativi più o meno faticosi e impacciati per affrontare questa sconvolgente notizia che gli è stata rivelata. Ognuno di loro deve gestire in momenti diversi la rabbia e il dolore, e reagisce passando dalla volontà di ascoltare alla difficoltà di comprendere, dal tentativo di far ragionare Francesco o ricattarlo affettivamente per fargli cambiare idea alla rassegnazione e all’accettazione di una volontà che sembra irremovibile e rispetto alla quale niente si può.
Questa girandola di sentimenti produce conflitti e tensioni all’interno del nucleo familiare, ognuno è chiamato a prendere una posizione di fronte a questa decisione, in un mix confuso di sentimenti che si aggrovigliano nella mente di ciascuno in un alternarsi di lucidità e folle dolore.
Di fronte all’impotenza - il sentimento, secondo me, più forte con cui siamo chiamati a fare i conti nella vita - inizia la straziante girandola dei saluti, e ognuno cerca il proprio modo personale con cui dire addio a Francesco, fino al momento in cui questi si chiude la porta alle spalle, lasciando la sua famiglia smarrita e dispersa nei quattro angoli della casa. Una famiglia che si ricomporrà poi nell’attesa e in una speranza probabilmente vana, lasciando prefigurare cosa aspetta ognuno di loro per la vita a venire.
Uno spettacolo, quello di Filippo Gili, ben scritto e direi altrettanto ben recitato (a parte qualche momento un pochino troppo sopra le righe per i miei gusti, ma è solo una valutazione personale). La situazione è un classico topos narrativo: un equilibrio familiare mandato in frantumi da una rivelazione sconvolgente, ma il tema è direi piuttosto nuovo e lo sviluppo va – mi pare – al di là della riflessione sulle dinamiche familiari (rispetto alle quali non mi sembra che dica niente di nuovo) per parlare invece della difficoltà – che è di tutti ma ancora di più è propria di un contesto familiare – ad affrontare una scelta che non si può comprendere in alcun modo.
L’elemento paradossale che sta in questo testo, la decisione di Francesco di raccontare alla sua famiglia la sua decisione per evitare sensi di colpa, è il suo punto forte, quello che rende lo sviluppo imprevisto e imprevedibile, nonché potente per il pubblico che assiste, altrettanto scioccato e sospirante di fronte a una situazione in cui nessuno vorrebbe venirsi a trovare.
Voto: 3,5/5
Non fa eccezione il pubblico di questo spettacolo - bello e potente - in scena al Piccolo Eliseo, Prima di andar via, scritto e interpretato da Filippo Gili (insieme a Giorgio Colangeli, Michela Martini, Barbara Ronchi e Aurora Peres), per la regia di Francesco Frangipane.
Sul palco un interno familiare: una cucina con un tavolo attorno al quale una famiglia, padre e madre piuttosto anziani e tre figli, un maschio e due femmine, la più piccola delle quali sta finendo un dottorato, è riunita per una cena in cui si parla del più e del meno e ognuno racconta la propria vita e le ultime cose che gli sono capitate.
L’unico silenzioso è Francesco, il figlio maggiore, che a un certo punto interrompe l’allegra chiacchiera familiare per annunciare che il giorno dopo non ci sarà più. Segue un silenzio infinito nello smarrimento generale, che vede ciascun membro della famiglia indietreggiare nella difficoltà di gestire emotivamente e praticamente questa notizia.
A poco a poco il capofamiglia trova la forza di rompere il silenzio dell’incredulità e dello shock per chiedere spiegazioni al figlio. Francesco confessa che ha deciso di suicidarsi perché la sua vita non ha più senso dopo la morte della moglie, ma ha deciso di dirlo a tutti loro per evitargli inutili e immotivati sensi di colpa.
Il vaso familiare è ormai in frantumi, e ciascuno dei membri della famiglia fa dei tentativi più o meno faticosi e impacciati per affrontare questa sconvolgente notizia che gli è stata rivelata. Ognuno di loro deve gestire in momenti diversi la rabbia e il dolore, e reagisce passando dalla volontà di ascoltare alla difficoltà di comprendere, dal tentativo di far ragionare Francesco o ricattarlo affettivamente per fargli cambiare idea alla rassegnazione e all’accettazione di una volontà che sembra irremovibile e rispetto alla quale niente si può.
Questa girandola di sentimenti produce conflitti e tensioni all’interno del nucleo familiare, ognuno è chiamato a prendere una posizione di fronte a questa decisione, in un mix confuso di sentimenti che si aggrovigliano nella mente di ciascuno in un alternarsi di lucidità e folle dolore.
Di fronte all’impotenza - il sentimento, secondo me, più forte con cui siamo chiamati a fare i conti nella vita - inizia la straziante girandola dei saluti, e ognuno cerca il proprio modo personale con cui dire addio a Francesco, fino al momento in cui questi si chiude la porta alle spalle, lasciando la sua famiglia smarrita e dispersa nei quattro angoli della casa. Una famiglia che si ricomporrà poi nell’attesa e in una speranza probabilmente vana, lasciando prefigurare cosa aspetta ognuno di loro per la vita a venire.
Uno spettacolo, quello di Filippo Gili, ben scritto e direi altrettanto ben recitato (a parte qualche momento un pochino troppo sopra le righe per i miei gusti, ma è solo una valutazione personale). La situazione è un classico topos narrativo: un equilibrio familiare mandato in frantumi da una rivelazione sconvolgente, ma il tema è direi piuttosto nuovo e lo sviluppo va – mi pare – al di là della riflessione sulle dinamiche familiari (rispetto alle quali non mi sembra che dica niente di nuovo) per parlare invece della difficoltà – che è di tutti ma ancora di più è propria di un contesto familiare – ad affrontare una scelta che non si può comprendere in alcun modo.
L’elemento paradossale che sta in questo testo, la decisione di Francesco di raccontare alla sua famiglia la sua decisione per evitare sensi di colpa, è il suo punto forte, quello che rende lo sviluppo imprevisto e imprevedibile, nonché potente per il pubblico che assiste, altrettanto scioccato e sospirante di fronte a una situazione in cui nessuno vorrebbe venirsi a trovare.
Voto: 3,5/5
domenica 27 maggio 2018
The Constitution - Due insolite storie d'amore
Dopo che F. mi aveva parlato molto bene di questo film mi sono messa d'impegno per seguirne la programmazione all'Apollo Undici e riuscire ad andare a vederlo. E così a un certo punto è arrivato il momento giusto.
In sala siamo in quattro o cinque in tutto, probabilmente il risultato del fatto che questa proiezione è l'ennesima programmata dall'Apollo Undici e chi era interessato a vederlo - nella non numerosa nicchia di appassionati cinefili - magari ci era già andato.
Il film The Constitution per la regia di Rajko Grlić è un film croato che mette proprio la costituzione croata al centro dell'intreccio narrativo. Vjeko (Nebojša Glogovac, interprete bravissimo purtroppo deceduto all'inizio di quest'anno) è un insegnante di scuola superiore che vive a casa con il padre anziano, a suo tempo fiancheggiatore dei nazisti, ormai immobilizzato a letto. Vjeko in realtà ha una doppia vita e, se durante il giorno insegna la storia croata ponendo l'accento sulla dura battaglia che il popolo croato ha dovuto fare per raggiungere l'indipendenza, la notte si traveste da donna e va in giro per la città semivuota e i bar, ricordando e rimpiangendo il suo grande amore perduto, il violoncellista Bobo.
Una notte Vjeko viene aggredito da un gruppo di ragazzi per strada per la sua omosessualità e finisce in ospedale. Qui viene medicato dalla sua vicina di casa che lo aiuterà anche al ritorno a casa, in particolare per la gestione di suo padre. Si verifica così un avvicinamento tra Vjeko, colto, raffinato, omosessuale, nazionalista, ben inserito nella politica nazionale, e la coppia dei vicini, una donna croata che fa l'infermiera e il marito poliziotto, di nazionalità serba, che deve sostenere un esame sulla Costituzione croata.
La donna chiederà al professore di aiutare suo marito a preparare l'esame, ma l'incontro tra questi due uomini rivelerà tutte le contraddizioni non solo di Vjeko, ma della stessa società croata, e lo farà attraverso il contrasto tra una costituzione basata sui principi della tolleranza, dell'accoglienza e della non violenza e una realtà nella quale il nazionalismo esasperato diventa intolleranza non solo verso chi non è croato ma anche verso chi non risponde all'ideale croato, compreso lo stesso Vjeko che pure ne è un propugnatore.
Il film si muove tra il dramma e la commedia, e non cerca la tragedia finale catartica, bensì consola in qualche modo lo spettatore con un finale sicuramente un po' buonista che compone i conflitti sociali e umani in una ritrovata armonia, a dire il vero un po' poco credibile.
Del resto il regista sembra in qualche modo voler lasciare una porta aperta alla speranza e lo fa anche attraverso la bella figura di Maja (Ksenija Marinkovic), la vicina di casa infermiera, che nella sua semplicità in qualche modo è il motore del processo di conciliazione di questa storia. Ed è molto bello che questo ruolo sia affidato a una donna.
Voto: 3,5/5
In sala siamo in quattro o cinque in tutto, probabilmente il risultato del fatto che questa proiezione è l'ennesima programmata dall'Apollo Undici e chi era interessato a vederlo - nella non numerosa nicchia di appassionati cinefili - magari ci era già andato.
Il film The Constitution per la regia di Rajko Grlić è un film croato che mette proprio la costituzione croata al centro dell'intreccio narrativo. Vjeko (Nebojša Glogovac, interprete bravissimo purtroppo deceduto all'inizio di quest'anno) è un insegnante di scuola superiore che vive a casa con il padre anziano, a suo tempo fiancheggiatore dei nazisti, ormai immobilizzato a letto. Vjeko in realtà ha una doppia vita e, se durante il giorno insegna la storia croata ponendo l'accento sulla dura battaglia che il popolo croato ha dovuto fare per raggiungere l'indipendenza, la notte si traveste da donna e va in giro per la città semivuota e i bar, ricordando e rimpiangendo il suo grande amore perduto, il violoncellista Bobo.
Una notte Vjeko viene aggredito da un gruppo di ragazzi per strada per la sua omosessualità e finisce in ospedale. Qui viene medicato dalla sua vicina di casa che lo aiuterà anche al ritorno a casa, in particolare per la gestione di suo padre. Si verifica così un avvicinamento tra Vjeko, colto, raffinato, omosessuale, nazionalista, ben inserito nella politica nazionale, e la coppia dei vicini, una donna croata che fa l'infermiera e il marito poliziotto, di nazionalità serba, che deve sostenere un esame sulla Costituzione croata.
La donna chiederà al professore di aiutare suo marito a preparare l'esame, ma l'incontro tra questi due uomini rivelerà tutte le contraddizioni non solo di Vjeko, ma della stessa società croata, e lo farà attraverso il contrasto tra una costituzione basata sui principi della tolleranza, dell'accoglienza e della non violenza e una realtà nella quale il nazionalismo esasperato diventa intolleranza non solo verso chi non è croato ma anche verso chi non risponde all'ideale croato, compreso lo stesso Vjeko che pure ne è un propugnatore.
Il film si muove tra il dramma e la commedia, e non cerca la tragedia finale catartica, bensì consola in qualche modo lo spettatore con un finale sicuramente un po' buonista che compone i conflitti sociali e umani in una ritrovata armonia, a dire il vero un po' poco credibile.
Del resto il regista sembra in qualche modo voler lasciare una porta aperta alla speranza e lo fa anche attraverso la bella figura di Maja (Ksenija Marinkovic), la vicina di casa infermiera, che nella sua semplicità in qualche modo è il motore del processo di conciliazione di questa storia. Ed è molto bello che questo ruolo sia affidato a una donna.
Voto: 3,5/5
giovedì 24 maggio 2018
Mektoub, My Love - Canto Uno
Abdellatif Kechiche ci ha ormai abituati a film che durano non meno di due ore e mezzo. Anzi, col passare degli anni, sembra che la sua poetica abbia bisogno di sempre più tempo per osservare e far emergere i contenuti direttamente dall'osservazione.
Con il suo ultimo lavoro cinematografico, ispirato al romanzo La Blessure la vraie di François Bégaudeau (sempre da questo autore era tratta anche la sceneggiatura del film La classe di Laurent Cantet), Kechiche non riesce a stare nella durata di un solo film e progetta un'opera in più parti (inizialmente si diceva una trilogia, ora pare invece che i film previsti siano due).
Mektoub, My Love - Canto Uno racconta un'estate del 1994 a Sète, un piccolo paese di pescatori sulla costa mediterranea della Francia. Qui torna Amin (Shain Boumedine), che ha interrotto gli studi di medicina per dedicarsi alle sue vere passioni, la sceneggiatura e la fotografia. E infatti quello che Amin fa in questa estate è osservare e rielaborare, senza partecipare veramente.
In questi paesaggi bruciati dal sole i personaggi sono spesso ripresi in controluce con abbondante uso di lens flare, che - come ha detto qualcuno - fa parecchio effetto "pubblicità del cornetto Algida". A me il film in generale ha fatto un po' effetto Sapore di mare in salsa francese e anni Novanta e con un approccio che vuol essere più intellettualistico. L'omaggio ad Aldo Maccione richiama inoltre la figura del seduttore italico tipica di tutto un genere cinematografico italiano degli anni Settanta.
Amin si fa spettatore - fin dall'attacco del film (dove si trova a spiare un amplesso) - della girandola di incontri, relazioni, passioni che vedono protagonisti in particolare la sua più cara amica, Ophélie (da cui parrebbe attratto o addirittura innamorato ma senza speranza), suo cugino Tony, un seduttore seriale che ha una storia apparentemente segreta con la stessa Ophélie, la quale è a sua volta fidanzata con Clément che è all'estero in missione militare, Charlotte e Céline, due ragazze di Nizza in vacanza a Sète, alla ricerca di divertimento e forse anche dell'amore. Intorno a questi personaggi molti altri animano quest'estate assolata durante la quale Amin aspetta il proprio incontro con il Mektoub, il destino.
Il film si sviluppa per sequenze più o meno lunghe che si svolgono in parte in interni (in discoteca, nella fattoria della famiglia di Ophélie, nella casa di Amin, nel ristorante delle famiglie di Tony e Amin), in parte all'esterno, prevalentemente in spiaggia e in acqua. Qui si consumano seduzioni, amori estivi, chiacchiere da spiaggia, pettegolezzi, balli scatenati che coinvolgono in primis i giovani, i quali manifestano la tipica voracità giovanile in fatto di relazioni, ma anche i meno giovani, che spesso veicolano nostalgie per la spensieratezza giovanile, dimenticandone però le delusioni e le difficoltà.
In tutto ciò, Amin osserva quanto accade intorno a lui, forse incapace di cogliere le occasioni che gli si presentano, o ancora indeciso e irrisolto sui suoi effettivi desideri, al punto da svolgere più spesso il ruolo di amico e confidente che quello di amante.
Personalmente mi ha infastidito l'insistenza di Kechiche sui corpi femminili, e in particolari sui "culi" delle donne, perché l'ho trovato uno sguardo non solo molto maschile (e non potrebbe essere diversamente visto che il protagonista è un uomo e anzi - per l'esattezza - il suo sguardo), ma parecchio maschilista per il modo in cui le donne sono guardate e rappresentate, sebbene diverse tra loro - le stesse Ophélie, Charlotte e Celine - dimostrino nel corso del film di essere molto più di questo e di saper scegliere se e come stare al gioco.
È evidente che questo ultimo film di Kechiche è destinato a dividere pubblico e critica: in giro per il web c'è chi grida al capolavoro e chi non nasconde la delusione. Io non sono uscita del tutto convinta, pur riconoscendo la maestria del regista.
In particolare, mi pare che il cinema di Kechiche tenda a diventare nel tempo sempre più autoreferenziale fino ad avvitarsi su se stesso: in questo film si sprecano le citazioni (o quanto meno la ripetizione di stilemi tipici) dei suoi film precedenti, tra cui il modo in cui i protagonisti mangiano gli spaghetti al sugo, ovvero le danze scatenate che scuotono procaci corpi femminili, o ancora gli sguardi all'interno della comunità franco-tunisina.
A questo proposito nel film non c'è solo un racconto di formazione individuale, ma anche un punto di vista politico, quello con cui Kechiche guarda a una società francese che sta ancora al di qua della guerra di civiltà e che sembra non conoscere il conflitto etnico e religioso che ha assunto toni esasperati nella Francia degli ultimi anni. Qui i giovani e i meno giovani si identificano non per la loro origine etnica o culturale ma per i loro comportamenti.
Si esce con tanta voglia e nostalgia d'estate e di giovinezza. O forse anche no.
Voto: 3/5
Con il suo ultimo lavoro cinematografico, ispirato al romanzo La Blessure la vraie di François Bégaudeau (sempre da questo autore era tratta anche la sceneggiatura del film La classe di Laurent Cantet), Kechiche non riesce a stare nella durata di un solo film e progetta un'opera in più parti (inizialmente si diceva una trilogia, ora pare invece che i film previsti siano due).
Mektoub, My Love - Canto Uno racconta un'estate del 1994 a Sète, un piccolo paese di pescatori sulla costa mediterranea della Francia. Qui torna Amin (Shain Boumedine), che ha interrotto gli studi di medicina per dedicarsi alle sue vere passioni, la sceneggiatura e la fotografia. E infatti quello che Amin fa in questa estate è osservare e rielaborare, senza partecipare veramente.
In questi paesaggi bruciati dal sole i personaggi sono spesso ripresi in controluce con abbondante uso di lens flare, che - come ha detto qualcuno - fa parecchio effetto "pubblicità del cornetto Algida". A me il film in generale ha fatto un po' effetto Sapore di mare in salsa francese e anni Novanta e con un approccio che vuol essere più intellettualistico. L'omaggio ad Aldo Maccione richiama inoltre la figura del seduttore italico tipica di tutto un genere cinematografico italiano degli anni Settanta.
Amin si fa spettatore - fin dall'attacco del film (dove si trova a spiare un amplesso) - della girandola di incontri, relazioni, passioni che vedono protagonisti in particolare la sua più cara amica, Ophélie (da cui parrebbe attratto o addirittura innamorato ma senza speranza), suo cugino Tony, un seduttore seriale che ha una storia apparentemente segreta con la stessa Ophélie, la quale è a sua volta fidanzata con Clément che è all'estero in missione militare, Charlotte e Céline, due ragazze di Nizza in vacanza a Sète, alla ricerca di divertimento e forse anche dell'amore. Intorno a questi personaggi molti altri animano quest'estate assolata durante la quale Amin aspetta il proprio incontro con il Mektoub, il destino.
Il film si sviluppa per sequenze più o meno lunghe che si svolgono in parte in interni (in discoteca, nella fattoria della famiglia di Ophélie, nella casa di Amin, nel ristorante delle famiglie di Tony e Amin), in parte all'esterno, prevalentemente in spiaggia e in acqua. Qui si consumano seduzioni, amori estivi, chiacchiere da spiaggia, pettegolezzi, balli scatenati che coinvolgono in primis i giovani, i quali manifestano la tipica voracità giovanile in fatto di relazioni, ma anche i meno giovani, che spesso veicolano nostalgie per la spensieratezza giovanile, dimenticandone però le delusioni e le difficoltà.
In tutto ciò, Amin osserva quanto accade intorno a lui, forse incapace di cogliere le occasioni che gli si presentano, o ancora indeciso e irrisolto sui suoi effettivi desideri, al punto da svolgere più spesso il ruolo di amico e confidente che quello di amante.
Personalmente mi ha infastidito l'insistenza di Kechiche sui corpi femminili, e in particolari sui "culi" delle donne, perché l'ho trovato uno sguardo non solo molto maschile (e non potrebbe essere diversamente visto che il protagonista è un uomo e anzi - per l'esattezza - il suo sguardo), ma parecchio maschilista per il modo in cui le donne sono guardate e rappresentate, sebbene diverse tra loro - le stesse Ophélie, Charlotte e Celine - dimostrino nel corso del film di essere molto più di questo e di saper scegliere se e come stare al gioco.
È evidente che questo ultimo film di Kechiche è destinato a dividere pubblico e critica: in giro per il web c'è chi grida al capolavoro e chi non nasconde la delusione. Io non sono uscita del tutto convinta, pur riconoscendo la maestria del regista.
In particolare, mi pare che il cinema di Kechiche tenda a diventare nel tempo sempre più autoreferenziale fino ad avvitarsi su se stesso: in questo film si sprecano le citazioni (o quanto meno la ripetizione di stilemi tipici) dei suoi film precedenti, tra cui il modo in cui i protagonisti mangiano gli spaghetti al sugo, ovvero le danze scatenate che scuotono procaci corpi femminili, o ancora gli sguardi all'interno della comunità franco-tunisina.
A questo proposito nel film non c'è solo un racconto di formazione individuale, ma anche un punto di vista politico, quello con cui Kechiche guarda a una società francese che sta ancora al di qua della guerra di civiltà e che sembra non conoscere il conflitto etnico e religioso che ha assunto toni esasperati nella Francia degli ultimi anni. Qui i giovani e i meno giovani si identificano non per la loro origine etnica o culturale ma per i loro comportamenti.
Si esce con tanta voglia e nostalgia d'estate e di giovinezza. O forse anche no.
Voto: 3/5
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