Ed eccomi qua alla nuova stagione di Unplugged in Monti nella sede del Blackmarket, attirata a questo concerto dal fatto che Le Millipede è un nuovo progetto musicale cui si stanno dedicando i fratelli Markus e Micha Archer, divenuti famosi come fondatori e animatori del gruppo dei Notwist.
Come al solito faccio in questi casi, provo ad ascoltare qualcosa su Internet e poi - se ispirata da quello che ho sentito - compro i biglietti per il concerto. In questo caso mi porto dietro anche mio nipote P. che è a Roma in questi giorni e la mia amica F. che è diventata anche lei ormai una habitué del Blackmarket.
Questa sera il palco del Blackmarket è parecchio affollato, innanzitutto perché i Millipede sono in cinque: oltre ai fratelli Archer, che occupano la seconda fila del palco, ci sono Mathias Götz, Nicolas Sierig e Manuela Rytzki. In secondo luogo perché sul palco c'è un numero esagerato di strumenti: la batteria suonata da Markus, il basso tuba e quello che se ho capito bene è un armonium suonati da Micha, poi altre tastiere e sintetizzatori vari di cui si occupano Nicolas Sierig e Manuela Rytzki, e infine il trombone di Mathias Götz, il quale però fa risuonare anche un gran numero di campanellini e percussioni varie di cui è tappezzato il palco.
Il motivo lo si capisce presto: Le millipede fanno musica strumentale, e che musica strumentale! Una musica che è un mix di jazz, di folk, di musica bandistica, di rock e tante altre cose cui io non sono nemmeno in grado di dare dei nomi.
Il concerto va avanti per un'ora e mezzo e conquista progressivamente il pubblico cosicché quando la scaletta finisce è immancabile il bis e un lungo applauso.
Mentre io, F. e P. usciamo, riflettiamo sul fatto che quella di Le Millipede è una musica che forse noi non ascolteremmo in macchina o a casa, ma che certamente ascoltarla dal vivo è puro godimento sonoro dovuto forse anche all'entusiasmo di vedere all'opera musicisti di questo livello e passione.
Voto: 3,5/5
venerdì 30 settembre 2016
martedì 27 settembre 2016
Escobar. Paradise lost
Insieme a P., mio nipote che è venuto a trovarmi a Roma, decidiamo di dedicare una delle nostre serate al cinema e scegliamo insieme il film Escobar che interessa a entrambi e di cui la mia amica F. ci ha parlato bene.
Il film racconta la storia di Nick (Josh Hutcherson), un ragazzo canadese che insieme al fratello si è trasferito a vivere su una spiaggia colombiana all'inseguimento del sogno di una vita libera e a contatto con la natura. Ma i due fratelli a poco a poco cominceranno a conoscere la complessità di una realtà come quella colombiana all'inizio degli anni Novanta e ne resteranno coinvolti, soprattutto dopo che Nick si innamorerà di Maria (Claudia Traisac), una ragazza colombiana che è la nipote del noto trafficante di droga Pablo Escobar (Benicio Del Toro).
La fascinazione di Maria - e non solo - per la leadership di Escobar e il sogno che quest'uomo possa portare un futuro di prosperità e di uguaglianza al popolo colombiano risucchiano anche Nick, che si ritrova in men che non si dica fagocitato nel mondo di Escobar, nei suoi loschi traffici e in quella spirale di violenza e terrore che porta con sé.
A un certo punto Nick si troverà a scegliere da che parte stare, ma forse a quel punto sarà ormai troppo tardi.
L'opera prima di Andrea Di Stefano (fin qui noto come attore) è un film con una struttura piuttosto solida, magnificamente interpretato da Benicio Del Toro (un po' meno da Josh Hutcherson devo dire), e con una trama e uno sviluppo quasi da action movie che tiene incollati alla sedia fino all'ultimo minuto.
All'uscita della sala però e a un esame più distaccato, quando la tensione emotiva si è ormai sciolta, il film appare infine piuttosto semplice nel suo impianto narrativo e, pur ricostruendo con cura e attenzione un pezzo della storia di Pablo Escobar e fornendo al pubblico interessanti chiavi di lettura, appare invece un po' debole nella storia principale, ossia la vicenda di Nick, che d'altra parte costituisce l'occasione e il punto di vista prescelto per narrare la vicenda e la figura fortemente ambigua e volutamente non risolta del narcotrafficante.
Voto: 3/5
Il film racconta la storia di Nick (Josh Hutcherson), un ragazzo canadese che insieme al fratello si è trasferito a vivere su una spiaggia colombiana all'inseguimento del sogno di una vita libera e a contatto con la natura. Ma i due fratelli a poco a poco cominceranno a conoscere la complessità di una realtà come quella colombiana all'inizio degli anni Novanta e ne resteranno coinvolti, soprattutto dopo che Nick si innamorerà di Maria (Claudia Traisac), una ragazza colombiana che è la nipote del noto trafficante di droga Pablo Escobar (Benicio Del Toro).
La fascinazione di Maria - e non solo - per la leadership di Escobar e il sogno che quest'uomo possa portare un futuro di prosperità e di uguaglianza al popolo colombiano risucchiano anche Nick, che si ritrova in men che non si dica fagocitato nel mondo di Escobar, nei suoi loschi traffici e in quella spirale di violenza e terrore che porta con sé.
A un certo punto Nick si troverà a scegliere da che parte stare, ma forse a quel punto sarà ormai troppo tardi.
L'opera prima di Andrea Di Stefano (fin qui noto come attore) è un film con una struttura piuttosto solida, magnificamente interpretato da Benicio Del Toro (un po' meno da Josh Hutcherson devo dire), e con una trama e uno sviluppo quasi da action movie che tiene incollati alla sedia fino all'ultimo minuto.
All'uscita della sala però e a un esame più distaccato, quando la tensione emotiva si è ormai sciolta, il film appare infine piuttosto semplice nel suo impianto narrativo e, pur ricostruendo con cura e attenzione un pezzo della storia di Pablo Escobar e fornendo al pubblico interessanti chiavi di lettura, appare invece un po' debole nella storia principale, ossia la vicenda di Nick, che d'altra parte costituisce l'occasione e il punto di vista prescelto per narrare la vicenda e la figura fortemente ambigua e volutamente non risolta del narcotrafficante.
Voto: 3/5
sabato 24 settembre 2016
Love addict. Confessioni di un seduttore seriale / Koren Shadmi
Love addict. Confessioni di un seduttore seriale / Koren Shadmi. Milano: Bao Publishing, 2015.
K, il protagonista di questo graphic novel, è un disegnatore e animatore un po’ nerd, che vive a New York dividendo casa con un coinquilino. Ha una vita sentimentale come tutti. Un giorno conosce per caso una ragazza e inizia una storia. Poi dopo un anno la storia va in crisi e K rimane da solo a deprimersi e a farsi consolare dagli amici. Fino a quando il suo coinquilino lo convince a iscriversi a una chat di incontri, Lovebug, cui lui è già iscritto, e gli spiega tutti i segreti e i trucchetti per rimorchiare il più possibile.
Dopo un avvio piuttosto burrascoso e una serie di incontri con persone decisamente borderline, K diventa a poco a poco più bravo e più spregiudicato e la chat diventa per lui una vera e propria ossessione, così come il sesso che finalmente riesce a ottenere con poco sforzo e tutto sommato senza dover gestire quasi nessuna conseguenza sentimentale.
K diventa sempre più sicuro di sé al punto tale da pensare di poter fare a meno della sua psicologa e di aver raggiunto il suo ideale di vita e felicità. Ma sarà davvero così?
Il graphic novel di Koren Shadmi, un fumettista di origine israeliana trapiantato a New York, ci racconta l’amore – o forse meglio sarebbe dire il sesso – ai tempi di Internet, con tutte le contraddizioni che si porta dietro. Perché le possibilità offerte da Internet da un lato sono il riscatto di tutti i timidi e gli insicuri (uomini e donne) che nella vita hanno sempre fatto una fatica boia ad approcciare gli altri e dunque hanno rinunciato – anche quando lo avrebbero voluto – a quel po’ di sesso senza implicazioni sentimentali che, pur condannato da considerazioni moralistiche di vario genere, fa in qualche modo parte di come siamo fatti. Dall’altro, come spesso accade, la facilità produce una ubriacatura, una vera e propria indigestione che – oltre certi limiti – fa male al corpo e allo spirito, innescando un circolo che da virtuoso si fa vizioso, producendo vere e proprie dipendenze dalla possibilità continua di ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni superficiali, ma anche producendo alti livelli di frustrazione e insofferenza all’impegno che un relazione umana richiede.
Love addict non è certo una riflessione di spessore elevato su un tema complesso e delicato come quello che tratta; si limita a raccontare una storia con onestà e senza giudizi morali, bensì semplicemente mettendone in evidenza le ricadute positive e le conseguenze negative.
Forse, tra le righe, Koren Shadmi ci sta dicendo che il passaggio da un mondo in cui conoscere una persona e portarsela a letto richiedeva tempo e applicazione a uno in cui tutto diventa così facile da favorire la serialità è qualcosa con cui ancora dobbiamo fare i conti, rispetto al quale non siamo ancora del tutto attrezzati emotivamente e psicologicamente, e in cui ancora non siamo in grado di ricercare un virtuoso giusto mezzo.
Internet fa ormai parte delle nostre vite e le ha cambiate profondamente in moltissimi ambiti, compreso quello della sessualità e dei sentimenti. E come sempre quando abbiamo a disposizione strumenti e possibilità nuove, è necessario un tempo di adattamento evoluzionistico che permetta al genere umano di farne un uso che sia possibilmente vantaggioso e non autodistruttivo. Dall’albo di Shadmi sembrerebbe che la fase costruttiva sia ancora di là da venire.
Voto: 3,5/5
K, il protagonista di questo graphic novel, è un disegnatore e animatore un po’ nerd, che vive a New York dividendo casa con un coinquilino. Ha una vita sentimentale come tutti. Un giorno conosce per caso una ragazza e inizia una storia. Poi dopo un anno la storia va in crisi e K rimane da solo a deprimersi e a farsi consolare dagli amici. Fino a quando il suo coinquilino lo convince a iscriversi a una chat di incontri, Lovebug, cui lui è già iscritto, e gli spiega tutti i segreti e i trucchetti per rimorchiare il più possibile.
Dopo un avvio piuttosto burrascoso e una serie di incontri con persone decisamente borderline, K diventa a poco a poco più bravo e più spregiudicato e la chat diventa per lui una vera e propria ossessione, così come il sesso che finalmente riesce a ottenere con poco sforzo e tutto sommato senza dover gestire quasi nessuna conseguenza sentimentale.
K diventa sempre più sicuro di sé al punto tale da pensare di poter fare a meno della sua psicologa e di aver raggiunto il suo ideale di vita e felicità. Ma sarà davvero così?
Il graphic novel di Koren Shadmi, un fumettista di origine israeliana trapiantato a New York, ci racconta l’amore – o forse meglio sarebbe dire il sesso – ai tempi di Internet, con tutte le contraddizioni che si porta dietro. Perché le possibilità offerte da Internet da un lato sono il riscatto di tutti i timidi e gli insicuri (uomini e donne) che nella vita hanno sempre fatto una fatica boia ad approcciare gli altri e dunque hanno rinunciato – anche quando lo avrebbero voluto – a quel po’ di sesso senza implicazioni sentimentali che, pur condannato da considerazioni moralistiche di vario genere, fa in qualche modo parte di come siamo fatti. Dall’altro, come spesso accade, la facilità produce una ubriacatura, una vera e propria indigestione che – oltre certi limiti – fa male al corpo e allo spirito, innescando un circolo che da virtuoso si fa vizioso, producendo vere e proprie dipendenze dalla possibilità continua di ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni superficiali, ma anche producendo alti livelli di frustrazione e insofferenza all’impegno che un relazione umana richiede.
Love addict non è certo una riflessione di spessore elevato su un tema complesso e delicato come quello che tratta; si limita a raccontare una storia con onestà e senza giudizi morali, bensì semplicemente mettendone in evidenza le ricadute positive e le conseguenze negative.
Forse, tra le righe, Koren Shadmi ci sta dicendo che il passaggio da un mondo in cui conoscere una persona e portarsela a letto richiedeva tempo e applicazione a uno in cui tutto diventa così facile da favorire la serialità è qualcosa con cui ancora dobbiamo fare i conti, rispetto al quale non siamo ancora del tutto attrezzati emotivamente e psicologicamente, e in cui ancora non siamo in grado di ricercare un virtuoso giusto mezzo.
Internet fa ormai parte delle nostre vite e le ha cambiate profondamente in moltissimi ambiti, compreso quello della sessualità e dei sentimenti. E come sempre quando abbiamo a disposizione strumenti e possibilità nuove, è necessario un tempo di adattamento evoluzionistico che permetta al genere umano di farne un uso che sia possibilmente vantaggioso e non autodistruttivo. Dall’albo di Shadmi sembrerebbe che la fase costruttiva sia ancora di là da venire.
Voto: 3,5/5
giovedì 22 settembre 2016
Kobane calling / Zerocalcare
Kobane calling. Facce, parole, scarabocchi da Rebibbia al confine turco siriano / Zerocalcare. Milano: Bao Publishing, 2016.
Chi legge il mio blog sa che non sono una fan di Zerocalcare, nel senso che non sono tra coloro che si appostano sul suo blog per leggere per prima le strisce del lunedì, né tra coloro che si sono entusiasmati alla lettura dei suoi albi contenenti le storie lunghe. Le strisce mi piacciono, in alcuni casi abbastanza, in altri casi parecchio, in altri ancora tantissimo. Degli albi con le storie lunghe ne ho letti due, Un polpo alla gola, che mi è piaciuto così così, e Dimentica il mio nome, che mi è piaciuto di più.
Insomma, per sintetizzare non sono di quelli che vanno in visibilio per Zerocalcare, però lo apprezzo molto sia come fumettista sia come personaggio pubblico.
Ebbene, partendo da queste premesse il suo graphic novel Kobane Calling mi ha conquistata. Innanzitutto, devo dirgli grazie perché mi ha consentito di capirci qualche cosa in più di Kobane, del Rojava, della guerra che si combatte tra Iraq, Siria e Turchia, anzi – vi dirò di più – in alcuni casi mi ha fatto conoscere delle cose che non sapevo o su cui avevo le idee confusissime.
Ora – come lui stesso più volte ribadisce – è chiaro che il suo non è un trattato di geopolitica, né un trattato di sociologia o di antropologia, e dunque chi vuole approfondire deve guardare altrove, ma vi assicuro che – grazie ai due viaggi al confine turco-siriano da lui compiuti nel novembre del 2014 e nel luglio del 2015 – Zerocalcare fa un’operazione straordinaria di graphic journalism con risultati eccellenti.
In questo albo lo stile narrativo di Zerocalcare mi ha ricordato il migliore Guy Delisle, anche se l’ironia molto franco-canadese di quest’ultimo è qui sostituita dalla verve comico-romanesca di Zerocalcare che conosciamo molto bene. Risate e commozione si alternano con grandissima naturalezza e tra le une e l’altra transitano molte informazioni e racconti di prima mano importanti e in alcuni momenti illuminanti.
Ho apprezzato sommamente anche l’onestà intellettuale di Zerocalcare, tanto che immagino che non accetterebbe la definizione di graphic journalism che io ho attribuito al suo lavoro. Pagina dopo pagina, infatti, il fumettista non solo si schermisce rispetto a una presunta funzione giornalistica svolta dalle sue tavole, ma puntella il suo racconto di “disclaimer” in cui esplicita tutti i suoi dubbi, le sue domande, le poche certezze, a dimostrazione del fatto che non dà niente per scontato, anzi sembra quasi che cerchi in ogni modo di andare al di là della propria bolla ideologica e di sottoporla a tutte le controprove possibili.
Il risultato è dunque certamente un albo pieno di passione politica, ma anche animato dal fortissimo desiderio di capire al di là di qualunque pregiudizio, positivo o negativo.
Certo, poi il racconto e il percorso di comprensione sono fatti nella maniera unica e inimitabile di Zerocalcare, con la sua straordinaria autoironia e la capacità di togliere retorica ed epicità a qualunque situazione tirando fuori il lato comico e “ignorante” della vita, ma sorprendendoci poi con il suo cuore grande in cui c’è il sogno di un mondo più giusto e – come dire – la capacità di prendere posizione, senza per questo risultare acritici.
Kobane calling è un libro che andrebbe fatto leggere in tutte le scuole, almeno dalle medie in poi; sono convinta che Zerocalcare, con il suo stile naturalmente accattivante, potrebbe far venire ai ragazzi delle curiosità su una guerra lontana, ma in fondo anche vicina (per le conseguenze che ha sul nostro mondo occidentale), smontando i luoghi comuni che molti altri canali di comunicazione hanno costruito in questi anni.
Poi è chiaro che le cose sono sempre più complicate di quello che vorremmo (si legga per esempio questo interessante articolo del New York Times) e mai i giudizi e le interpretazioni su quanto accade - soprattutto in realtà così lontane dalla nostra - possono essere netti e definitivi, ma non accontentarsi delle banalità ripetute fino allo sfinimento dai mass media è sempre e comunque sano.
Bravissimo Zerocalcare!
Voto: 4,5/5
Chi legge il mio blog sa che non sono una fan di Zerocalcare, nel senso che non sono tra coloro che si appostano sul suo blog per leggere per prima le strisce del lunedì, né tra coloro che si sono entusiasmati alla lettura dei suoi albi contenenti le storie lunghe. Le strisce mi piacciono, in alcuni casi abbastanza, in altri casi parecchio, in altri ancora tantissimo. Degli albi con le storie lunghe ne ho letti due, Un polpo alla gola, che mi è piaciuto così così, e Dimentica il mio nome, che mi è piaciuto di più.
Insomma, per sintetizzare non sono di quelli che vanno in visibilio per Zerocalcare, però lo apprezzo molto sia come fumettista sia come personaggio pubblico.
Ebbene, partendo da queste premesse il suo graphic novel Kobane Calling mi ha conquistata. Innanzitutto, devo dirgli grazie perché mi ha consentito di capirci qualche cosa in più di Kobane, del Rojava, della guerra che si combatte tra Iraq, Siria e Turchia, anzi – vi dirò di più – in alcuni casi mi ha fatto conoscere delle cose che non sapevo o su cui avevo le idee confusissime.
Ora – come lui stesso più volte ribadisce – è chiaro che il suo non è un trattato di geopolitica, né un trattato di sociologia o di antropologia, e dunque chi vuole approfondire deve guardare altrove, ma vi assicuro che – grazie ai due viaggi al confine turco-siriano da lui compiuti nel novembre del 2014 e nel luglio del 2015 – Zerocalcare fa un’operazione straordinaria di graphic journalism con risultati eccellenti.
In questo albo lo stile narrativo di Zerocalcare mi ha ricordato il migliore Guy Delisle, anche se l’ironia molto franco-canadese di quest’ultimo è qui sostituita dalla verve comico-romanesca di Zerocalcare che conosciamo molto bene. Risate e commozione si alternano con grandissima naturalezza e tra le une e l’altra transitano molte informazioni e racconti di prima mano importanti e in alcuni momenti illuminanti.
Ho apprezzato sommamente anche l’onestà intellettuale di Zerocalcare, tanto che immagino che non accetterebbe la definizione di graphic journalism che io ho attribuito al suo lavoro. Pagina dopo pagina, infatti, il fumettista non solo si schermisce rispetto a una presunta funzione giornalistica svolta dalle sue tavole, ma puntella il suo racconto di “disclaimer” in cui esplicita tutti i suoi dubbi, le sue domande, le poche certezze, a dimostrazione del fatto che non dà niente per scontato, anzi sembra quasi che cerchi in ogni modo di andare al di là della propria bolla ideologica e di sottoporla a tutte le controprove possibili.
Il risultato è dunque certamente un albo pieno di passione politica, ma anche animato dal fortissimo desiderio di capire al di là di qualunque pregiudizio, positivo o negativo.
Certo, poi il racconto e il percorso di comprensione sono fatti nella maniera unica e inimitabile di Zerocalcare, con la sua straordinaria autoironia e la capacità di togliere retorica ed epicità a qualunque situazione tirando fuori il lato comico e “ignorante” della vita, ma sorprendendoci poi con il suo cuore grande in cui c’è il sogno di un mondo più giusto e – come dire – la capacità di prendere posizione, senza per questo risultare acritici.
Kobane calling è un libro che andrebbe fatto leggere in tutte le scuole, almeno dalle medie in poi; sono convinta che Zerocalcare, con il suo stile naturalmente accattivante, potrebbe far venire ai ragazzi delle curiosità su una guerra lontana, ma in fondo anche vicina (per le conseguenze che ha sul nostro mondo occidentale), smontando i luoghi comuni che molti altri canali di comunicazione hanno costruito in questi anni.
Poi è chiaro che le cose sono sempre più complicate di quello che vorremmo (si legga per esempio questo interessante articolo del New York Times) e mai i giudizi e le interpretazioni su quanto accade - soprattutto in realtà così lontane dalla nostra - possono essere netti e definitivi, ma non accontentarsi delle banalità ripetute fino allo sfinimento dai mass media è sempre e comunque sano.
Bravissimo Zerocalcare!
Voto: 4,5/5
lunedì 19 settembre 2016
Milan, l’è un gran Milan
Qualche mese fa avevo convinto (direi facilmente!) F. a organizzare una trasferta milanese per andare a vedere a Milano il concerto dei Daughter il primo settembre nell’ambito della manifestazione Unaltrofestival al Circolo Magnolia. A quel tempo la data milanese era l’unica del gruppo prevista in Italia; poi in realtà i Daughter sono venuti anche a Roma, a Villa Ada, ma per fortuna non mi sono dovuta mangiare le mani perché non ci sarei potuta andare!
E così, dopo tutte le trasferte vacanziere, eccoci qui a settembre, pronte al treno per partire.
Arriviamo a Milano verso le 19,30 e andiamo immediatamente al nostro b&b che abbiamo trovato su airbnb e che si rivelerà un’ottima soluzione perché, oltre a essere collocato quasi di fronte a Pavè, un posto molto buono soprattutto per la colazione, è a metà strada tra due stazioni della metro su due linee diverse e dunque perfetto per esplorare la città.
Una volta posate le borse e messa su una maglietta e un pantalone adatti al concerto usciamo dirette verso il Circolo Magnolia, che sta praticamente all’Idroscalo, dopo l’aeroporto di Linate. Autobus 73 da San Babila, poi da lì a piedi lungo la pista ciclabile totalmente al buio e finalmente siamo al Circolo, dove il Festival è già cominciato, ma noi stiamo svenendo dalla fame. I food truck hanno finito quasi tutto, ma per fortuna riusciamo a raccattare un paio di cartocci di fritti e due birre per placare i nostri stomaci, ed eccoci in posizione in mezzo a una folla di milanesi e stranieri, tutti un pochino hipster, per assistere al concerto.
Stanno cantando Edward Sharpe & the Magnetic Zeros, che né io né F. conosciamo, mentre la folla è praticamente in visibilio. Effettivamente il gruppo guidato dal cantante Alex Ebert, con il suo stile un po’ folk e un po’ hippie è parecchio trascinante e anche noi cominciamo a ballicchiare a ritmo di musica. Quando finiscono di cantare mi dico che una volta a casa andrò a cercarmi la loro musica per capire se si è trattato solo dell’effetto Festival, oppure effettivamente il gruppo merita. Dopo un breve cambio di palco, puntualissimi arrivano i Daughter, il gruppo fondato da Elena Tonra che si è costituito come un trio insieme al chitarrista Igor Haefeli e al batterista Remi Aguilella.
La cantante è molto timida, e all’inizio sembra quasi senza voce. Ma dopo un paio di canzoni e qualche aggiustamento anche da parte del tecnico del suono, il concerto decolla e il pubblico si scalda sempre di più, soprattutto quando Elena – di solito schiva – si apre in grandi sorrisi verso il pubblico e conquista tutti. I Daughter cantano per circa un’ora proponendo il meglio dei loro due album If you leave e Not to disappear, e, come mi è capitato già altre volte con altri gruppi, a me fanno l’effetto di regalarmi emozioni ed entusiasmo che l’ascolto della loro musica registrata non sempre è in grado di garantirmi.
A mezzanotte e qualcosa siamo fuori dal Magnolia e poco dopo a Linate, dove prendiamo un taxi per tornare al b&b, dopo una lunghissima, ma soddisfacente giornata.
Il giorno dopo sono previsti un po’ di giri per Milano alla scoperta di cose ancora non viste, ma anche per shopping, approfittando dei saldi di fine estate. In particolare, vedremo il piccolo ma interessante Orto Botanico nella zona di Brera (peccato solo essere stata letteralmente mangiata dalle zanzare) e la sorprendente chiesa di San Maurizio, in via Magenta, che viene chiama la “cappella sistina” di Milano, per il fatto di essere completamente affrescata (la bellezza della chiesa sta anche nella sua struttura architettonica, con la divisione tra l’area per i fedeli e quella per le suore dietro un muro su cui si apre solo una grata). Troviamo anche il tempo di fare un giro dentro l’enorme negozio di fumetti che fa angolo tra via Lecco e via Casati, La borsa del fumetto, e dove ovviamente non posso non comprare almeno una cosa.
A pranzo ci fermiamo in zona Brera in un ristorante libanese contemporaneo, dove mangiamo molto bene, anche se non ci è chiaro dove starebbe la contemporaneità, forse nell’ambiente.
La sera vogliamo fare un giro nel quartiere di Isola e Porta Nuova, dove F. non è mai stata. Prima però decidiamo di andare a mangiare. Vorremmo mangiare milanese, e un po’ frettolosamente cerchiamo qualcosa di aperto e di non troppo ricercato, ma buono. Sui preferiti di Puntarella rossa notiamo il ristorante L’altra isola, che è un po’ fuori dal cuore del quartiere, in zona viale Jenner. Telefoniamo e F. rimane già colpita dal fatto che la persona che gli risponde al telefono non è molto reattiva.
Quando arriviamo davanti alla porta, ci sono parecchi adesivi di segnalazioni (almeno fino al 2015) e, anche se dalla finestra avevamo visto che era vuoto, decidiamo di entrare lo stesso, ma ecco ciò che ci si presenta davanti: un ottantenne che gioca a carte a un tavolo con una cinquantenne cinese, mentre nella cucina altri due cinesi (?) si girano un po’ i pollici. Cominciamo ad avere un pessimo presentimento, che diventa riso e pianto insieme quando vediamo il menu, dove il risotto alla milanese costa 13 euro, la cotoletta ne costa 30 (avete capito bene e io non ho sbagliato a scrivere) e dei funghi trifolati 20 euro!!!! Abbiamo capito di aver preso la sòla, così ingurgitiamo un risotto alla milanese salato e uno al salto piuttosto duro, paghiamo i nostri 15 euro e fuggiamo. Siamo piuttosto depresse, ma dopo un po’ anche divertite, però abbiamo proprio bisogno di tirarci su. Così innanzitutto facciamo un giro per il quartiere Isola, molto bello, passeggiamo fino alla zona di porta nuova, in mezzo ai grattacieli di Boeri e alle costruzioni di piazza Gae Aulenti. Poi quando siamo stanche di guardare il nuovo skyline della città e questa commistione tra case di ringhiera e grandi grattacieli di cemento e vetro ci fermiamo da Malù a prendere un dolcino e un prosecco per terminare degnamente la serata.
E comunque, a questo giro, il mio contapassi sul cellulare conta 35.000 passi, praticamente record assoluto!
Il sabato, nostro ultimo giorno di questa trasferta milanese, dopo una ricca colazione da Pavè, andiamo in zona Duomo, perché il nostro obiettivo è andare a visitare la mostra di Escher, che avevamo perso a Roma. Un’esperienza bellissima, grazie a una mostra ricchissima che permette di seguire passo passo il percorso artistico e intellettuale di questo personaggio, nonché di divertirsi in maniera anche interattiva con i giochi visivi che Escher ha sperimentato nelle sue creazioni durante tutta la vita. La mostra prende praticamente tutta la mattinata, anche se nemmeno ce ne accorgiamo. Quando usciamo fa caldissimo, ci dirigiamo verso la Galleria Vittorio Emanuele perché abbiamo letto da qualche parte che in occasione dell’Expo è stato inaugurato un percorso sopra i tetti della Galleria, che si chiama Highline Galleria. Il percorso è carino e offre qualche scorcio suggestivo e originale sulla città, ma decisamente l’ingresso costa troppo.
A piedi imbocchiamo via Torino, dove ci fermiamo a visitare la chiesa di San Satiro (che come quella di San Maurizio è tenuta aperta meritoriamente dai volontari del Touring Club) e scopriamo un altro piccolo gioiellino in particolare per la sacrestia bramantesca, il sacello, il gruppo ligneo della pietà e l’abside pochissimo profondo ma dipinto e decorato in maniera da creare un effetto ottico di profondità. Da qui ci dirigiamo poi alle colonne di San Lorenzo, un altro scorcio molto suggestivo della città che non avevo mai visto, e lì vicino mangiamo un’insalata e un panino in un posto che si chiama Panini di mare, dove devo dire che la qualità di ciò che mangiamo (un polpo gustosissimo e morbidissimo) giustifica i prezzi un tantino alti. Una volta rifocillate proseguiamo fino alla darsena e poi lungo Alzaia Naviglio Grande per andare a vedere il vicolo dei Lavandai, con il canaletto coperto dalla tettoia di legno, dove appunto si andavano a lavare i panni.
Due giornate intensissime alla scoperta di una Milano non scontata e ricca di sorprese (per la maggior parte positive!). Sabato sera eccoci di ritorno nella nostra Roma, certo bellissima, ma senza dubbio rimpiangeremo la facilità e rapidità degli spostamenti milanesi. Alla prossima.
E così, dopo tutte le trasferte vacanziere, eccoci qui a settembre, pronte al treno per partire.
Arriviamo a Milano verso le 19,30 e andiamo immediatamente al nostro b&b che abbiamo trovato su airbnb e che si rivelerà un’ottima soluzione perché, oltre a essere collocato quasi di fronte a Pavè, un posto molto buono soprattutto per la colazione, è a metà strada tra due stazioni della metro su due linee diverse e dunque perfetto per esplorare la città.
Una volta posate le borse e messa su una maglietta e un pantalone adatti al concerto usciamo dirette verso il Circolo Magnolia, che sta praticamente all’Idroscalo, dopo l’aeroporto di Linate. Autobus 73 da San Babila, poi da lì a piedi lungo la pista ciclabile totalmente al buio e finalmente siamo al Circolo, dove il Festival è già cominciato, ma noi stiamo svenendo dalla fame. I food truck hanno finito quasi tutto, ma per fortuna riusciamo a raccattare un paio di cartocci di fritti e due birre per placare i nostri stomaci, ed eccoci in posizione in mezzo a una folla di milanesi e stranieri, tutti un pochino hipster, per assistere al concerto.
Stanno cantando Edward Sharpe & the Magnetic Zeros, che né io né F. conosciamo, mentre la folla è praticamente in visibilio. Effettivamente il gruppo guidato dal cantante Alex Ebert, con il suo stile un po’ folk e un po’ hippie è parecchio trascinante e anche noi cominciamo a ballicchiare a ritmo di musica. Quando finiscono di cantare mi dico che una volta a casa andrò a cercarmi la loro musica per capire se si è trattato solo dell’effetto Festival, oppure effettivamente il gruppo merita. Dopo un breve cambio di palco, puntualissimi arrivano i Daughter, il gruppo fondato da Elena Tonra che si è costituito come un trio insieme al chitarrista Igor Haefeli e al batterista Remi Aguilella.
La cantante è molto timida, e all’inizio sembra quasi senza voce. Ma dopo un paio di canzoni e qualche aggiustamento anche da parte del tecnico del suono, il concerto decolla e il pubblico si scalda sempre di più, soprattutto quando Elena – di solito schiva – si apre in grandi sorrisi verso il pubblico e conquista tutti. I Daughter cantano per circa un’ora proponendo il meglio dei loro due album If you leave e Not to disappear, e, come mi è capitato già altre volte con altri gruppi, a me fanno l’effetto di regalarmi emozioni ed entusiasmo che l’ascolto della loro musica registrata non sempre è in grado di garantirmi.
A mezzanotte e qualcosa siamo fuori dal Magnolia e poco dopo a Linate, dove prendiamo un taxi per tornare al b&b, dopo una lunghissima, ma soddisfacente giornata.
Il giorno dopo sono previsti un po’ di giri per Milano alla scoperta di cose ancora non viste, ma anche per shopping, approfittando dei saldi di fine estate. In particolare, vedremo il piccolo ma interessante Orto Botanico nella zona di Brera (peccato solo essere stata letteralmente mangiata dalle zanzare) e la sorprendente chiesa di San Maurizio, in via Magenta, che viene chiama la “cappella sistina” di Milano, per il fatto di essere completamente affrescata (la bellezza della chiesa sta anche nella sua struttura architettonica, con la divisione tra l’area per i fedeli e quella per le suore dietro un muro su cui si apre solo una grata). Troviamo anche il tempo di fare un giro dentro l’enorme negozio di fumetti che fa angolo tra via Lecco e via Casati, La borsa del fumetto, e dove ovviamente non posso non comprare almeno una cosa.
A pranzo ci fermiamo in zona Brera in un ristorante libanese contemporaneo, dove mangiamo molto bene, anche se non ci è chiaro dove starebbe la contemporaneità, forse nell’ambiente.
La sera vogliamo fare un giro nel quartiere di Isola e Porta Nuova, dove F. non è mai stata. Prima però decidiamo di andare a mangiare. Vorremmo mangiare milanese, e un po’ frettolosamente cerchiamo qualcosa di aperto e di non troppo ricercato, ma buono. Sui preferiti di Puntarella rossa notiamo il ristorante L’altra isola, che è un po’ fuori dal cuore del quartiere, in zona viale Jenner. Telefoniamo e F. rimane già colpita dal fatto che la persona che gli risponde al telefono non è molto reattiva.
Quando arriviamo davanti alla porta, ci sono parecchi adesivi di segnalazioni (almeno fino al 2015) e, anche se dalla finestra avevamo visto che era vuoto, decidiamo di entrare lo stesso, ma ecco ciò che ci si presenta davanti: un ottantenne che gioca a carte a un tavolo con una cinquantenne cinese, mentre nella cucina altri due cinesi (?) si girano un po’ i pollici. Cominciamo ad avere un pessimo presentimento, che diventa riso e pianto insieme quando vediamo il menu, dove il risotto alla milanese costa 13 euro, la cotoletta ne costa 30 (avete capito bene e io non ho sbagliato a scrivere) e dei funghi trifolati 20 euro!!!! Abbiamo capito di aver preso la sòla, così ingurgitiamo un risotto alla milanese salato e uno al salto piuttosto duro, paghiamo i nostri 15 euro e fuggiamo. Siamo piuttosto depresse, ma dopo un po’ anche divertite, però abbiamo proprio bisogno di tirarci su. Così innanzitutto facciamo un giro per il quartiere Isola, molto bello, passeggiamo fino alla zona di porta nuova, in mezzo ai grattacieli di Boeri e alle costruzioni di piazza Gae Aulenti. Poi quando siamo stanche di guardare il nuovo skyline della città e questa commistione tra case di ringhiera e grandi grattacieli di cemento e vetro ci fermiamo da Malù a prendere un dolcino e un prosecco per terminare degnamente la serata.
E comunque, a questo giro, il mio contapassi sul cellulare conta 35.000 passi, praticamente record assoluto!
Il sabato, nostro ultimo giorno di questa trasferta milanese, dopo una ricca colazione da Pavè, andiamo in zona Duomo, perché il nostro obiettivo è andare a visitare la mostra di Escher, che avevamo perso a Roma. Un’esperienza bellissima, grazie a una mostra ricchissima che permette di seguire passo passo il percorso artistico e intellettuale di questo personaggio, nonché di divertirsi in maniera anche interattiva con i giochi visivi che Escher ha sperimentato nelle sue creazioni durante tutta la vita. La mostra prende praticamente tutta la mattinata, anche se nemmeno ce ne accorgiamo. Quando usciamo fa caldissimo, ci dirigiamo verso la Galleria Vittorio Emanuele perché abbiamo letto da qualche parte che in occasione dell’Expo è stato inaugurato un percorso sopra i tetti della Galleria, che si chiama Highline Galleria. Il percorso è carino e offre qualche scorcio suggestivo e originale sulla città, ma decisamente l’ingresso costa troppo.
A piedi imbocchiamo via Torino, dove ci fermiamo a visitare la chiesa di San Satiro (che come quella di San Maurizio è tenuta aperta meritoriamente dai volontari del Touring Club) e scopriamo un altro piccolo gioiellino in particolare per la sacrestia bramantesca, il sacello, il gruppo ligneo della pietà e l’abside pochissimo profondo ma dipinto e decorato in maniera da creare un effetto ottico di profondità. Da qui ci dirigiamo poi alle colonne di San Lorenzo, un altro scorcio molto suggestivo della città che non avevo mai visto, e lì vicino mangiamo un’insalata e un panino in un posto che si chiama Panini di mare, dove devo dire che la qualità di ciò che mangiamo (un polpo gustosissimo e morbidissimo) giustifica i prezzi un tantino alti. Una volta rifocillate proseguiamo fino alla darsena e poi lungo Alzaia Naviglio Grande per andare a vedere il vicolo dei Lavandai, con il canaletto coperto dalla tettoia di legno, dove appunto si andavano a lavare i panni.
Due giornate intensissime alla scoperta di una Milano non scontata e ricca di sorprese (per la maggior parte positive!). Sabato sera eccoci di ritorno nella nostra Roma, certo bellissima, ma senza dubbio rimpiangeremo la facilità e rapidità degli spostamenti milanesi. Alla prossima.
giovedì 15 settembre 2016
Up all night / Giulia Argnani
Up all night / Giulia Argnani. Bologna: Renbooks, 2015.
Chiara vive ancora a casa con i genitori, o meglio in una parte indipendente della casa dove vivono i genitori, ma di fatto sente ancora forte la loro presenza nella sua vita. Le piace fotografare, ma da tempo - presa dagli impegni di tutti i giorni - ha messo da parte la sua macchina fotografica e si è fatta travolgere dagli eventi. Esce con le amiche di sempre, quelle per le quali la sua sessualità non è un mistero né un problema, ma rimanda da tempo il viaggio in California dove si è trasferita la sua migliore amica, perché ha paura di prendere l'aereo.
Un giorno incontra in un locale Greta, una cantante e musicista, che si è appena esibita con il suo gruppo.
Inizia un'amicizia che poi si trasforma in amore. E, come spesso accade, l'amore smuove tutto quello che fin lì era rimasto sedimentato e forse un po' impaludato. Chiara comincia dunque a seguire Greta in tutti i suoi concerti e in sala prove, riprende in mano la sua macchina fotografica, comincia ad allargare i suoi orizzonti, a mollare le redini del controllo costante della sua vita.
Così, quanto Greta va in Sardegna per la stagione estiva, Chiara è pronta a prendere un aereo e a lasciarsi tutto alle spalle. Ma in realtà è Greta a non essere pronta per un rapporto duraturo e stabile, troppo impegnata ancora nella realizzazione della sua carriera e nell'inseguimento del suo sogno di musicista.
Chiara però ha ormai preso il volo e fatto un salto di consapevolezza da cui non si torna più indietro, ma si può solo guardare con fiducia avanti.
Quella di Up all night è una storia piccola e semplice, ma ha due meriti sopra tutto il resto: innanzitutto la nitidezza e la bellezza dei disegni di Giulia Argnani, sia quelli delle persone sia quelli dei paesaggi sia quelli evocativi, in secondo luogo la colonna sonora: ogni capitolo di questo graphic novel è infatti preceduto dalle parole tratte da una canzone scelta dall'autrice che illuminano e danno significato ai diversi momenti della storia.
Sul retro di copertina è disponibile il QR code con il quale è possibile ascoltare su Spotify la playlist del racconto, a conferma della forte connessione che c'è in questo graphic novel tra disegni e musica, sia sul piano formale che sul piano narrativo.
Un piccolo lavoro quello di Giulia Argnani, che però trasuda grazia e sincerità da tutti i pori.
Voto: 3,5/5
martedì 13 settembre 2016
Tommaso
Settembre. Ricomincia la stagione cinematografica, e così il primo weekend utile eccomi al cinema. Stavolta scelgo principalmente per comodità (il film sta in un cinema molto vicino a casa mia) e perché Kim Rossi Stuart mi è simpatico e trovo che abbia fatto un percorso cinematografico apprezzabile, sia come attore che come regista.
Il suo Tommaso è un’opera dall’impianto piuttosto teatrale, sia dal punto di vista dei contenuti narrativi - che ruotano tutti intorno al protagonista -, sia dal punto di vista della recitazione, che utilizza alcune modalità e stilemi propri delle opere teatrali, in bilico tra una recitazione realistica e una sopra le righe.
Il film racconta – in modo volutamente didascalico e forse anche finalizzato a un esito catartico – la storia di Tommaso (Kim Rossi Stuart), un attore quarantenne irrisolto e con un rapporto complicato con le donne. Sta con Chiara (Jasmine Trinca), ma non la sopporta più, eppure non riesce a lasciarla; finalmente si fa lasciare, ma reagisce come il protagonista di una tragedia classica; quindi comincia una storia con Federica (Cristiana Capotondi), ma dopo un inizio idilliaco, si ritrova in una condizione di insofferenza e insoddisfazione. Infine, incontra Sonia (Camilla Diana), una ragazza più giovane ma con una personalità molto particolare, che – nella sua follia – non è accondiscendente, rompe tutti i suoi schemi, probabilmente non lo ama, e lo conduce all’inevitabile confronto con il nucleo più profondo dei suoi problemi e alla necessità di prendersi davvero cura di se stesso.
Tommaso è un personaggio apparentemente borderline, nel suo essere disconnesso dalle sue emozioni più profonde, nel suo essere incapace di trovare una via reale e possibile alle sue fantasie, nel suo tentativo costantemente fallimentare di confrontarsi con la banalità del reale, nella schiavitù da un cervello che non si spegne mai e che fa fatica a mettersi seriamente in comunicazione con il cuore e con il corpo, nel suo interpretare un personaggio anche nella vita reale. In questo suo modo di essere, Tommaso ci fa un po’ sorridere, perché ne riconosciamo dall’esterno le rigidità e le idiosincrasie, e un po’ ci muove a compassione perché non vediamo una via d’uscita al loop mentale nel quale si agita come un criceto e di cui è perfettamente consapevole senza riuscire a impedirne il ripetersi, e infine un po’ ci chiama in causa e ci mette in discussione, perché tutti ci sentiamo un po’ Tommaso quando ci mettiamo alla prova dentro una relazione.
Il film di Kim Rossi Stuart è sincero nel suo essere artefatto e fa di questa contraddizione il suo punto di forza, sebbene indugi un po’ troppo in quella componente metaforica e onirica (che viene poi essa stessa ridicolizzata visto che il protagonista vorrebbe debuttare da regista e sceneggiatore con un film fatto solo di sogni) che appare un po’ troppo esplicativa e finisce per ricondurre dentro sentieri battuti quei rivoli di follia che forse sarebbero stati più potenti se lasciati muoversi liberamente. Anche la conclusione – pur parzialmente aperta – appare un po’ troppo consolatoria rispetto alle premesse. E se il messaggio è che la relazione funziona se e quando le nostre personali follie sono compatibili con quelle del nostro partner, posso essere anche sostanzialmente d’accordo, ma come al solito la realtà è persino più complicata di quanto possiamo raccontarcela.
Comunque bella la citazione di What’s on a man’s mind della locandina!
Voto: 3/5
Il suo Tommaso è un’opera dall’impianto piuttosto teatrale, sia dal punto di vista dei contenuti narrativi - che ruotano tutti intorno al protagonista -, sia dal punto di vista della recitazione, che utilizza alcune modalità e stilemi propri delle opere teatrali, in bilico tra una recitazione realistica e una sopra le righe.
Il film racconta – in modo volutamente didascalico e forse anche finalizzato a un esito catartico – la storia di Tommaso (Kim Rossi Stuart), un attore quarantenne irrisolto e con un rapporto complicato con le donne. Sta con Chiara (Jasmine Trinca), ma non la sopporta più, eppure non riesce a lasciarla; finalmente si fa lasciare, ma reagisce come il protagonista di una tragedia classica; quindi comincia una storia con Federica (Cristiana Capotondi), ma dopo un inizio idilliaco, si ritrova in una condizione di insofferenza e insoddisfazione. Infine, incontra Sonia (Camilla Diana), una ragazza più giovane ma con una personalità molto particolare, che – nella sua follia – non è accondiscendente, rompe tutti i suoi schemi, probabilmente non lo ama, e lo conduce all’inevitabile confronto con il nucleo più profondo dei suoi problemi e alla necessità di prendersi davvero cura di se stesso.
Tommaso è un personaggio apparentemente borderline, nel suo essere disconnesso dalle sue emozioni più profonde, nel suo essere incapace di trovare una via reale e possibile alle sue fantasie, nel suo tentativo costantemente fallimentare di confrontarsi con la banalità del reale, nella schiavitù da un cervello che non si spegne mai e che fa fatica a mettersi seriamente in comunicazione con il cuore e con il corpo, nel suo interpretare un personaggio anche nella vita reale. In questo suo modo di essere, Tommaso ci fa un po’ sorridere, perché ne riconosciamo dall’esterno le rigidità e le idiosincrasie, e un po’ ci muove a compassione perché non vediamo una via d’uscita al loop mentale nel quale si agita come un criceto e di cui è perfettamente consapevole senza riuscire a impedirne il ripetersi, e infine un po’ ci chiama in causa e ci mette in discussione, perché tutti ci sentiamo un po’ Tommaso quando ci mettiamo alla prova dentro una relazione.
Il film di Kim Rossi Stuart è sincero nel suo essere artefatto e fa di questa contraddizione il suo punto di forza, sebbene indugi un po’ troppo in quella componente metaforica e onirica (che viene poi essa stessa ridicolizzata visto che il protagonista vorrebbe debuttare da regista e sceneggiatore con un film fatto solo di sogni) che appare un po’ troppo esplicativa e finisce per ricondurre dentro sentieri battuti quei rivoli di follia che forse sarebbero stati più potenti se lasciati muoversi liberamente. Anche la conclusione – pur parzialmente aperta – appare un po’ troppo consolatoria rispetto alle premesse. E se il messaggio è che la relazione funziona se e quando le nostre personali follie sono compatibili con quelle del nostro partner, posso essere anche sostanzialmente d’accordo, ma come al solito la realtà è persino più complicata di quanto possiamo raccontarcela.
Comunque bella la citazione di What’s on a man’s mind della locandina!
Voto: 3/5
domenica 11 settembre 2016
Palacinche. Storia di un'esule fiumana / Caterina Sansone e Alessandro Tota
Palacinche. Storia di un'esule fiumana / Caterina Sansone e Alessandro Tota. Roma: Fandango Libri, 2012.
Caterina Sansone e Alessandro Tota sono rispettivamente una fotografa e un fumettista. Nella vita sono una coppia (ovviamente non so se lo sono ancora).
E in questa pubblicazione ci sono un po' tutte queste componenti: ci sono i disegni di Alessandro (di cui io avevo adorato il primo albo, Yeti), ci sono le fotografie di Caterina, e poi c'è la storia della famiglia di Caterina che è diventata di riflesso, e almeno parzialmente, la storia di Alessandro.
Oggetto dell'albo è infatti la storia di Elena, la madre di Caterina, che quando aveva 8 anni dovette lasciare Fiume insieme alla sua famiglia (i genitori e la sorella Meri) e visse dodici anni in campi profughi, passando per Trieste e Udine, e poi per Palermo, il Parco di Capodimonte, Bagnoli, infine Napoli, prima del trasferimento definitivo a Firenze.
Il progetto editoriale di Tota e Sansone è parecchio originale, perché i due hanno deciso di compiere a ritroso il viaggio degli avi di Caterina, raccontando questo viaggio attraverso i disegni di Alessandro, le fotografie di Caterina ai luoghi e agli edifici così come si presentano oggi e le fotografie scattate a suo tempo, che Caterina ha trovato in una scatola di latta e che sono all'origine di tutto.
Il risultato è un graphic novel sui generis in cui da un lato viene presentato in chiave ironica il rapporto umano e professionale tra questi due artisti e la bellezza e la difficoltà di collaborare su un progetto che li coinvolge anche sul piano personale, dall'altro ci viene proposta la ricostruzione della storia di una famiglia attraverso la quale si racconta la vicenda dei tanti profughi fiumani che hanno vissuto la medesima esperienza, gettando luce su una vicenda non propriamente nota ai più.
Il graphic novel si mette dunque al servizio di una vera e propria indagine giornalistica, che senza venir meno al rigore documentario attinge però anche alla leggerezza del linguaggio dei fumetti, producendo un risultato interessante, ma anche divertente. Un bel modo di imparare un pezzo importante della storia di una parte del popolo italiano.
Disegni in bianco e nero, disegni a colori (utilizzati per i racconti riguardanti il passato), riproduzioni di documenti, fotografie originali e fotografie contemporanee trovano un modo bello e per niente faticoso di dialogare tra loro.
E forse non è secondario ricordare che in fondo anche Alessandro e Caterina, che vivono a Parigi, sono degli esuli, certamente degli esuli di "lusso" come dicono loro, ma forse in qualche modo anch'essi costretti a lasciare il loro luogo di nascita per avere l'opportunità di seguire un sogno lavorativo.
Ripercorrere le tracce di questa famiglia forse significa anche ricordare che la storia dell'umanità è da sempre attraversata da movimenti di singoli e gruppi da un paese all'altro, in fuga dalla povertà o dalle guerre, alla ricerca di una vita migliore e di una maggiore dignità, all'inseguimento di un sogno o di un progetto. Ma che il legame con le origini rimane sempre importante e forte, foss'anche quando si manifesta attraverso la ricetta di un dolce molto buono, come le palacinche!
Voto: 3,5/5
Caterina Sansone e Alessandro Tota sono rispettivamente una fotografa e un fumettista. Nella vita sono una coppia (ovviamente non so se lo sono ancora).
E in questa pubblicazione ci sono un po' tutte queste componenti: ci sono i disegni di Alessandro (di cui io avevo adorato il primo albo, Yeti), ci sono le fotografie di Caterina, e poi c'è la storia della famiglia di Caterina che è diventata di riflesso, e almeno parzialmente, la storia di Alessandro.
Oggetto dell'albo è infatti la storia di Elena, la madre di Caterina, che quando aveva 8 anni dovette lasciare Fiume insieme alla sua famiglia (i genitori e la sorella Meri) e visse dodici anni in campi profughi, passando per Trieste e Udine, e poi per Palermo, il Parco di Capodimonte, Bagnoli, infine Napoli, prima del trasferimento definitivo a Firenze.
Il progetto editoriale di Tota e Sansone è parecchio originale, perché i due hanno deciso di compiere a ritroso il viaggio degli avi di Caterina, raccontando questo viaggio attraverso i disegni di Alessandro, le fotografie di Caterina ai luoghi e agli edifici così come si presentano oggi e le fotografie scattate a suo tempo, che Caterina ha trovato in una scatola di latta e che sono all'origine di tutto.
Il risultato è un graphic novel sui generis in cui da un lato viene presentato in chiave ironica il rapporto umano e professionale tra questi due artisti e la bellezza e la difficoltà di collaborare su un progetto che li coinvolge anche sul piano personale, dall'altro ci viene proposta la ricostruzione della storia di una famiglia attraverso la quale si racconta la vicenda dei tanti profughi fiumani che hanno vissuto la medesima esperienza, gettando luce su una vicenda non propriamente nota ai più.
Il graphic novel si mette dunque al servizio di una vera e propria indagine giornalistica, che senza venir meno al rigore documentario attinge però anche alla leggerezza del linguaggio dei fumetti, producendo un risultato interessante, ma anche divertente. Un bel modo di imparare un pezzo importante della storia di una parte del popolo italiano.
Disegni in bianco e nero, disegni a colori (utilizzati per i racconti riguardanti il passato), riproduzioni di documenti, fotografie originali e fotografie contemporanee trovano un modo bello e per niente faticoso di dialogare tra loro.
E forse non è secondario ricordare che in fondo anche Alessandro e Caterina, che vivono a Parigi, sono degli esuli, certamente degli esuli di "lusso" come dicono loro, ma forse in qualche modo anch'essi costretti a lasciare il loro luogo di nascita per avere l'opportunità di seguire un sogno lavorativo.
Ripercorrere le tracce di questa famiglia forse significa anche ricordare che la storia dell'umanità è da sempre attraversata da movimenti di singoli e gruppi da un paese all'altro, in fuga dalla povertà o dalle guerre, alla ricerca di una vita migliore e di una maggiore dignità, all'inseguimento di un sogno o di un progetto. Ma che il legame con le origini rimane sempre importante e forte, foss'anche quando si manifesta attraverso la ricetta di un dolce molto buono, come le palacinche!
Voto: 3,5/5
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