Questa volta l'iniziativa del concerto la prende F. cui è capitato di ascoltare Fantastic Negrito e se n'è innamorata. Cosicché non solo mi ha passato i suoi album, ma non si è lasciata sfuggire la possibilità di vederlo dal vivo.
Io l'ho ascoltato un po' e ho capito che - al di là di qualunque considerazione - si trattava di un'occasione da non perdere.
E così eccoci al Largo Venue a tentare come al solito di guadagnare le prime file per goderci appieno lo spettacolo (e poi così io sono contenta perché riesco a fare anche qualche foto).
Il palco è sovraffollato di strumenti tanto che non riusciamo a capire esattamente quale dovrebbe essere la posizione di Fantastic Negrito. Ma scopriamo presto che l'allestimento nasce dal fatto che prima del cantante si esibiranno come opening i Superdownhome. E dire che qualche dubbio doveva venirci visto che in fondo al palco campeggiava una grande tenda scura con la scritta "superdowhome"! Si tratta di due musicisti provenienti da Brescia che fanno musica rock-blues tradizionale. Entrambi si presentano con abbigliamento consono (stivaletto, camicia bianca, panciotto, laccetto al collo, occhiali a goccia, e uno dei due ha anche una bombetta nera), e sul palco occupano ciascuno la propria posizione: uno alla batteria e l'altro su un basso sgabello dove suonerà molteplici tipi di strumenti a corde che chiamerò riduttivamente chitarre, ma che sicuramente hanno nomi specifici.
I Superdownhome sono ottimi musicisti e certamente energia ed entusiasmo non gli mancano, cosicché l'atmosfera si scalda in men che non si dica e il pubblico - via via più numeroso - partecipa battendo le mani e muovendosi a tempo di musica. Personalmente, li ascolto volentieri senza esserne conquistata, ma del resto non è il tipo di musica che io preferisco e la sensazione di già sentito - fors'anche ingenua - resta troppo forte.
In ogni caso il pubblico apprezza e i Superdownhome al termine della loro esibizione sono visibilmente contenti e salutano affettuosamente il pubblico romano.
Il tempo di risistemare il palco, dove al centro viene posizionato un microfono a un'altezza improponibile che annuncia l'arrivo dell'ospite d'onore della serata, ed ecco che arrivano i musicisti di Fantastic Negrito: un batterista di colore che finirà il concerto quasi nudo, un tastierista anche lui di colore vestito con camicia a righe e cravatta che sembra un predicatore battista, e un chitarrista bianco con un abbigliamento e un atteggiamento tra il naif e il libertino.
Appena i musicisti sono ai loro posti, sale sul palco Fantastic Negrito, con un'acconciatura fantastica (i capelli sono raccolti in dread orientati in tutte le direzioni), nonché dei pantaloni larghi e delle scarpe a punta e una casacca viola senza maniche dallo stile orientale.
Da qui in poi inizia un concerto che forse sarebbe meglio chiamare performance, perché - pur nell'alternarsi delle canzoni che provengono da tutti gli album del musicista (quello omonimo, poi The last days of Oakland e Please, don't be dead) - non c'è soluzione di continuità né vera cesura tra canzoni, intermezzi musicali e parlato.
Fantastic Negrito canta anche quando si rivolge al pubblico e crea connessioni linguistiche e sonore tra una canzone e l'altra, anche con il supporto dei suoi musicisti che sono straordinari nella capacità di stargli appresso.
Se andate a cercare delle informazioni su questo musicista, al secolo Xavier Amin Dphrepaulezz, non ci metterete molto a rendervi conto che ha una storia quasi incredibile: dopo un’infanzia in una famiglia molto religiosa e dalle regole rigide, Xavier viene a contatto con il mondo della droga e gli ambienti della criminalità, prima di imparare la musica infiltrandosi alle lezioni tenute all’Università senza essere iscritto. In tempi più recenti Xavier è stato vittima di un incidente quasi mortale ed è stato in coma per quasi tre mesi. Non si esagera perciò nel dire che Fantastic Negrito è un sopravvissuto che porta anche su di sé i segni di questa vita accidentata, ma è anche uno di quelli che la musica ha salvato da sé stesso.
Sul palco il talento di questo cantante e musicista è palese e quasi sovrabbondante e trova mille canali per esprimersi: dalle straordinarie capacità vocali che coprono un'estensione davvero notevole al modo in cui si muove, dall'interlocuzione e l'interazione con il pubblico e quella con i musicisti.
Il suo repertorio affonda le radici in molteplici generi, dal gospel al blues, al folk al rock, fino ad arrivare all'R&B, producendo un mix originale nel quale Fantastic Negrito dimostra di essere sempre a suo agio, qualunque sia il tipo di sonorità prevalente.
E non importa se poi a me piace soprattutto quando canta cose come In the pines (che non è sua, bensì appartiene al repertorio della musica folk tradizionale dei neri d’America ed è soprattutto associata al bluesman Lead Belly, oltre che a una famosa versione suonata dai Nirvana). Del resto, come dice Fantastic Negrito, il suo intento non è certo quello di piacere a tutti e di rassicurare, semmai – e questo è evidente in ogni dettaglio – di destabilizzare e far uscire dalla propria comfort zone. Non a caso il suo bis sarà la canzone Bullshit Anthem, degna conclusione di questa serata caldissima, in cui alla fine non sudano solo i musicisti sul palco e il pubblico, ma anche le tubature sul soffitto la cui condensa ci cade addosso a grosse gocce.
Voto: 4/5
venerdì 21 giugno 2019
mercoledì 19 giugno 2019
Joan as Police Woman. Monk, 8 giugno 2019
Ho perso ormai il conto del numero di volte che ho visto e ascoltato Joan as Police Woman (al secolo Joan Wasser) dal vivo. Ogni volta mi dico che potrebbe anche bastare, ma poi Joan mi offre sempre un nuovo motivo per rinnovare l'appuntamento.
Questo ultimo concerto al Monk (una location che, come lei stessa non manca mai di sottolineare, Joan ama visceralmente - è infatti la terza volta in poco tempo che ci torna) è forse uno dei vertici più alti delle sue performance dal vivo, almeno tra quelle a cui ho avuto la fortuna di assistere.
Da poco è uscito il suo doppio album, Joanthology, un'ampia selezione dei suoi successi che offre una panoramica sulla sua ormai vasta produzione, oltre a qualche brano fin qui mai inciso, due dei quali la cantante newyorkese ci propone anche nella performance dal vivo, ossia Kiss and What a world (di quest’ultima dice che sono stati i fans – dopo aver sentito eseguire dal vivo questa canzone – a spingere perché la incidesse e su questo stimolo Joan ha trovato la chiave di lettura giusta per farlo).
Questo tour è dunque sì legato all'uscita di questo album ma è anche l'occasione per proporre un concerto intimo e la versione musicale di sé stessa che io personalmente preferisco: voce sola sul palco accompagnata dai suoi due strumenti più amati, il pianoforte e la chitarra (rosa, in omaggio - come dice lei - al pride tenutosi nel pomeriggio nelle strade di Roma).
Joan sale sul palco poco prima delle 22, vestita con una delle sue tipiche tute eleganti e un paio di scarpe dorate con la zeppa, un abbigliamento che addosso a chiunque altro risulterebbe kitschissimo e invece su di lei riesce a fare un effetto di eleganza, grazie alla disinvoltura e alla classe con cui lei lo porta.
Comincia il concerto seduta al pianoforte a coda (un Alfonsi) e per le prime canzoni si offre ai fotografi (e pure a me che, approfittando di essere seduta in prima fila grazie a F., mi posiziono sotto il palco insieme agli altri fotografi per immortalarla mentre canta e suona il piano). Poi alla quarta canzone, quando si sposta alla chitarra, comincia a interloquire con gli spettatori, com’è solita fare nei suoi concerti. Oggi la cantante sembra particolarmente di buonumore, affettuosa e ironica al tempo stesso, fors’anche grazie all’alchimia perfetta che si crea con questo pubblico, cosa che sarà sempre più evidente nel corso della serata.
Il suo primo messaggio è per i fotografi: dice che a lei piacciono le fotografie e che per queste prime canzoni ha permesso ai fotografi di sfogarsi, anzi si mette in posa appositamente con la sua chitarra e fa finta di cantare per consentire a tutti di scattare ancora qualche foto, ma che, a partire dalla canzone successiva, per potersi concentrare ha bisogno di smettere di sentire i click degli scatti. Tutti – tranne uno che probabilmente non capisce l’inglese e che verrà fulminato dallo sguardo di Joan appena inizia a suonare – mettiamo da parte le nostre macchine fotografiche e lo facciamo volentieri per goderci questo splendido spettacolo.
Joan alterna canzoni eseguite al pianoforte e altre alla chitarra, integrandole al massimo con una base registrata. Ci offre alcuni dei suoi classici, da Flash a Warning bell, da The magic a We don’t own it, da The ride a Your song, da Human condition a Good together, fino a The silence. In alcuni casi – come ad esempio quando ci canta Christobel – dice che ci proporrà una versione da lei riarrangiata al pianoforte, rispetto alla versione classica eseguita alla chitarra, e spera che questa versione non farà arrabbiare un suo amico che ama particolarmente questa canzone.
Prima di cantare Real life ci racconta che questa canzone è stata scritta come una lettera d’amore per qualcuno che lei ha conosciuto e che dopo cinque minuti ha pensato fosse la persona della sua vita, a 600.000 miglia di distanza! E aggiunge che ovviamente non era così, e che in fondo questa è una storia a lieto fine perché per fortuna l’ha capito!
Su Tell me il pubblico inizia a battere le mani simulando la batteria nel ritornello; Joan ne è piacevolmente sorpresa, dice più volte “Amazing” e il feeling positivo della serata cresce talmente tanto che Joan invita persino il pubblico a cantare qualche ritornello o a farle da base.
Stasera abbiamo certamente avuto il privilegio di poter ascoltare un’artista in grande forma, ma il miracolo è dovuto anche alla magia che talvolta la performance dal vivo riesce a creare, trasformando la semplice esecuzione dei brani in un’esperienza che coinvolge non solo il musicista ma anche il pubblico.
Per questo, quando il concerto finisce dopo circa un’ora e mezza di grande musica, Joan non si fa pregare per tornare sul palco di fronte a questo pubblico appassionato e competente, ripagandolo con altre tre canzoni e con un affetto sincero che davvero arriva a ciascuno di noi.
Un’artista generosa che – oltre a confermare le sue indubbie qualità musicali – ci regala uno spettacolo di grande intensità e calore umano, come raramente si vede sui palchi della musica dal vivo.
Grazie, Joan. Alla prossima.
(Qui una galleria di foto su Behance)
Voto: 4,5/5
Questo ultimo concerto al Monk (una location che, come lei stessa non manca mai di sottolineare, Joan ama visceralmente - è infatti la terza volta in poco tempo che ci torna) è forse uno dei vertici più alti delle sue performance dal vivo, almeno tra quelle a cui ho avuto la fortuna di assistere.
Da poco è uscito il suo doppio album, Joanthology, un'ampia selezione dei suoi successi che offre una panoramica sulla sua ormai vasta produzione, oltre a qualche brano fin qui mai inciso, due dei quali la cantante newyorkese ci propone anche nella performance dal vivo, ossia Kiss and What a world (di quest’ultima dice che sono stati i fans – dopo aver sentito eseguire dal vivo questa canzone – a spingere perché la incidesse e su questo stimolo Joan ha trovato la chiave di lettura giusta per farlo).
Questo tour è dunque sì legato all'uscita di questo album ma è anche l'occasione per proporre un concerto intimo e la versione musicale di sé stessa che io personalmente preferisco: voce sola sul palco accompagnata dai suoi due strumenti più amati, il pianoforte e la chitarra (rosa, in omaggio - come dice lei - al pride tenutosi nel pomeriggio nelle strade di Roma).
Joan sale sul palco poco prima delle 22, vestita con una delle sue tipiche tute eleganti e un paio di scarpe dorate con la zeppa, un abbigliamento che addosso a chiunque altro risulterebbe kitschissimo e invece su di lei riesce a fare un effetto di eleganza, grazie alla disinvoltura e alla classe con cui lei lo porta.
Comincia il concerto seduta al pianoforte a coda (un Alfonsi) e per le prime canzoni si offre ai fotografi (e pure a me che, approfittando di essere seduta in prima fila grazie a F., mi posiziono sotto il palco insieme agli altri fotografi per immortalarla mentre canta e suona il piano). Poi alla quarta canzone, quando si sposta alla chitarra, comincia a interloquire con gli spettatori, com’è solita fare nei suoi concerti. Oggi la cantante sembra particolarmente di buonumore, affettuosa e ironica al tempo stesso, fors’anche grazie all’alchimia perfetta che si crea con questo pubblico, cosa che sarà sempre più evidente nel corso della serata.
Il suo primo messaggio è per i fotografi: dice che a lei piacciono le fotografie e che per queste prime canzoni ha permesso ai fotografi di sfogarsi, anzi si mette in posa appositamente con la sua chitarra e fa finta di cantare per consentire a tutti di scattare ancora qualche foto, ma che, a partire dalla canzone successiva, per potersi concentrare ha bisogno di smettere di sentire i click degli scatti. Tutti – tranne uno che probabilmente non capisce l’inglese e che verrà fulminato dallo sguardo di Joan appena inizia a suonare – mettiamo da parte le nostre macchine fotografiche e lo facciamo volentieri per goderci questo splendido spettacolo.
Joan alterna canzoni eseguite al pianoforte e altre alla chitarra, integrandole al massimo con una base registrata. Ci offre alcuni dei suoi classici, da Flash a Warning bell, da The magic a We don’t own it, da The ride a Your song, da Human condition a Good together, fino a The silence. In alcuni casi – come ad esempio quando ci canta Christobel – dice che ci proporrà una versione da lei riarrangiata al pianoforte, rispetto alla versione classica eseguita alla chitarra, e spera che questa versione non farà arrabbiare un suo amico che ama particolarmente questa canzone.
Prima di cantare Real life ci racconta che questa canzone è stata scritta come una lettera d’amore per qualcuno che lei ha conosciuto e che dopo cinque minuti ha pensato fosse la persona della sua vita, a 600.000 miglia di distanza! E aggiunge che ovviamente non era così, e che in fondo questa è una storia a lieto fine perché per fortuna l’ha capito!
Su Tell me il pubblico inizia a battere le mani simulando la batteria nel ritornello; Joan ne è piacevolmente sorpresa, dice più volte “Amazing” e il feeling positivo della serata cresce talmente tanto che Joan invita persino il pubblico a cantare qualche ritornello o a farle da base.
Stasera abbiamo certamente avuto il privilegio di poter ascoltare un’artista in grande forma, ma il miracolo è dovuto anche alla magia che talvolta la performance dal vivo riesce a creare, trasformando la semplice esecuzione dei brani in un’esperienza che coinvolge non solo il musicista ma anche il pubblico.
Per questo, quando il concerto finisce dopo circa un’ora e mezza di grande musica, Joan non si fa pregare per tornare sul palco di fronte a questo pubblico appassionato e competente, ripagandolo con altre tre canzoni e con un affetto sincero che davvero arriva a ciascuno di noi.
Un’artista generosa che – oltre a confermare le sue indubbie qualità musicali – ci regala uno spettacolo di grande intensità e calore umano, come raramente si vede sui palchi della musica dal vivo.
Grazie, Joan. Alla prossima.
(Qui una galleria di foto su Behance)
Voto: 4,5/5
lunedì 17 giugno 2019
Selfie
Agostino Ferrente è andato al rione Traiano di Napoli dopo la morte del sedicenne Davide Bifolco, ucciso nel 2014 dalla pallottola di un carabiniere che lo aveva probabilmente scambiato per un latitante.
Qui Ferrente prova a capire come vivono e che aspirazioni hanno i ragazzi che abitano in questo quartiere e che hanno la stessa età del ragazzo ucciso. Lo fa creando uno spazio che è una specie di confessionale modello "Grande fratello", dove i ragazzi possono presentarsi spontaneamente e raccontare di sé. Ci sono due ragazze sedicenni che si confrontano sul loro rapporto con il quartiere e si chiedono come comportarsi nel caso in cui il loro futuro uomo finisse in galera, due ragazzini più piccoli, di 12 e 10 anni, che vogliono scroccare una sigaretta, dei ragazzi più grandi che cercano un'occasione di visibilità.
Tra i numerosi giovani che il regista incontra c'è anche Alessandro, che lavora come barista, e ne resta colpito, cosicché gli affida un telefono con una buona telecamera e gli chiede di girare un video-selfie raccontando la sua vita. È qui che entra in scena Pietro, aspirante parrucchiere sovrappeso, che è il miglior amico di Alessandro e che proprio per questo viene coinvolto anche lui nelle riprese.
Entrambi avranno dunque il compito di costruire - insieme e separatamente - il racconto video del loro quartiere e delle loro vite. I due cominciano così ad andare in giro con lo smartphone, entrando rapidamente nella parte dei registi in erba (parlano di montaggio e di stile di ripresa; tra l'altro è buffo come Alessandro si riprenda dall'alto verso il basso e Pietro invece quasi sempre dal basso verso l'alto) e diventando dei catalizzatori per la varia umanità che li circonda.
Ne viene fuori il ritratto di due ragazzi che in fondo non sono molto diversi dai loro coetanei di tutto il mondo (amano scherzare, girare in motorino, divertirsi, andare al mare, piacere alle ragazze e sognare un futuro migliore), solo che Alessandro e Pietro - come molti altri ragazzi del loro quartiere - vengono da famiglie disgregate, non vanno più a scuola, hanno già vissuto la morte violenta di amici e parenti, conoscono da vicino il mondo dello spaccio, e devono imparare ogni giorno ad accontentarsi di quello che hanno e ad andare avanti senza farsi risucchiare in quegli ambienti malavitosi con cui sono a contatto ogni giorno.
Ma quello di Ferrente non è un film lacrimevole. Selfie è lo specchio - raccontato in presa diretta - della vitalità esuberante, scomposta e rumorosa dei sedicenni, e per questo fa sorridere e ridere a più riprese suscitando nello spettatore un moto di tenerezza o partecipazione a seconda dei casi. Il fatto è che, attraverso le risate e gli sguardi giocosi di Alessandro e Pietro, si fa spesso spazio una malinconia e una tristezza che in parte sono tipiche dell'adolescenza, ma che in questo caso stringono il cuore perché sono il frutto dello spegnersi della speranza e dei sogni che a quell'età più che a qualunque altra dovrebbero appartenere.
Dopo la delicatezza e la profondità de Le cose belle, Ferrente dimostra con questo film di avere un tocco speciale e una capacità particolare di raccontare Napoli attraverso gli occhi dei bambini e dei ragazzi, forse perché dai suoi film trasuda un'affezione verso di loro, la partecipazione emotiva alle loro vite e la totale assenza di giudizio. Un'empatia che passa intatta attraverso lo schermo e arriva a toccare il cuore dello spettatore.
Forse ha ragione chi ha scritto che, rispetto a La paranza dei bambini, Ferrente restituisce un'immagine più vera dei volti e del mondo dei più giovani che abitano la Napoli delle periferie, ma in fondo i due racconti non sono in contraddizione, bensì in qualche modo si rafforzano reciprocamente. Certamente, quello di Ferrente è un racconto di gran lunga più originale e paradossalmente - nell'affondare le radici nella realtà più vera - riesce persino a trasmettere un senso di speranza nella convinzione che, anche in questi luoghi difficili e abbandonati dalle istituzioni, ci sono tanti piccoli Alessandro e Pietro che a modo loro resistono al degrado e cercano una normalità possibile.
Voto: 3,5/5
Qui Ferrente prova a capire come vivono e che aspirazioni hanno i ragazzi che abitano in questo quartiere e che hanno la stessa età del ragazzo ucciso. Lo fa creando uno spazio che è una specie di confessionale modello "Grande fratello", dove i ragazzi possono presentarsi spontaneamente e raccontare di sé. Ci sono due ragazze sedicenni che si confrontano sul loro rapporto con il quartiere e si chiedono come comportarsi nel caso in cui il loro futuro uomo finisse in galera, due ragazzini più piccoli, di 12 e 10 anni, che vogliono scroccare una sigaretta, dei ragazzi più grandi che cercano un'occasione di visibilità.
Tra i numerosi giovani che il regista incontra c'è anche Alessandro, che lavora come barista, e ne resta colpito, cosicché gli affida un telefono con una buona telecamera e gli chiede di girare un video-selfie raccontando la sua vita. È qui che entra in scena Pietro, aspirante parrucchiere sovrappeso, che è il miglior amico di Alessandro e che proprio per questo viene coinvolto anche lui nelle riprese.
Entrambi avranno dunque il compito di costruire - insieme e separatamente - il racconto video del loro quartiere e delle loro vite. I due cominciano così ad andare in giro con lo smartphone, entrando rapidamente nella parte dei registi in erba (parlano di montaggio e di stile di ripresa; tra l'altro è buffo come Alessandro si riprenda dall'alto verso il basso e Pietro invece quasi sempre dal basso verso l'alto) e diventando dei catalizzatori per la varia umanità che li circonda.
Ne viene fuori il ritratto di due ragazzi che in fondo non sono molto diversi dai loro coetanei di tutto il mondo (amano scherzare, girare in motorino, divertirsi, andare al mare, piacere alle ragazze e sognare un futuro migliore), solo che Alessandro e Pietro - come molti altri ragazzi del loro quartiere - vengono da famiglie disgregate, non vanno più a scuola, hanno già vissuto la morte violenta di amici e parenti, conoscono da vicino il mondo dello spaccio, e devono imparare ogni giorno ad accontentarsi di quello che hanno e ad andare avanti senza farsi risucchiare in quegli ambienti malavitosi con cui sono a contatto ogni giorno.
Ma quello di Ferrente non è un film lacrimevole. Selfie è lo specchio - raccontato in presa diretta - della vitalità esuberante, scomposta e rumorosa dei sedicenni, e per questo fa sorridere e ridere a più riprese suscitando nello spettatore un moto di tenerezza o partecipazione a seconda dei casi. Il fatto è che, attraverso le risate e gli sguardi giocosi di Alessandro e Pietro, si fa spesso spazio una malinconia e una tristezza che in parte sono tipiche dell'adolescenza, ma che in questo caso stringono il cuore perché sono il frutto dello spegnersi della speranza e dei sogni che a quell'età più che a qualunque altra dovrebbero appartenere.
Dopo la delicatezza e la profondità de Le cose belle, Ferrente dimostra con questo film di avere un tocco speciale e una capacità particolare di raccontare Napoli attraverso gli occhi dei bambini e dei ragazzi, forse perché dai suoi film trasuda un'affezione verso di loro, la partecipazione emotiva alle loro vite e la totale assenza di giudizio. Un'empatia che passa intatta attraverso lo schermo e arriva a toccare il cuore dello spettatore.
Forse ha ragione chi ha scritto che, rispetto a La paranza dei bambini, Ferrente restituisce un'immagine più vera dei volti e del mondo dei più giovani che abitano la Napoli delle periferie, ma in fondo i due racconti non sono in contraddizione, bensì in qualche modo si rafforzano reciprocamente. Certamente, quello di Ferrente è un racconto di gran lunga più originale e paradossalmente - nell'affondare le radici nella realtà più vera - riesce persino a trasmettere un senso di speranza nella convinzione che, anche in questi luoghi difficili e abbandonati dalle istituzioni, ci sono tanti piccoli Alessandro e Pietro che a modo loro resistono al degrado e cercano una normalità possibile.
Voto: 3,5/5
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venerdì 14 giugno 2019
Rocketman
Dopo il grande successo di Bohemian Rhapsody, dedicato alla vicenda personale e musicale di Freddy Mercury, sembra essersi (ri)aperto il filone dei biopic sui grandi protagonisti della musica internazionale, persino viventi come in questo caso.
Rocketman è infatti la storia di Elton John (Taron Egerton), raccontata attraverso un lungo flashback del protagonista giunto al momento della vita in cui - alcolizzato, drogato, sessuomane e con varie altre forme di dipendenza - si rende conto di dover rimettere insieme i pezzi.
Veniamo così proiettati all'infanzia di Elton, al secolo Reginald Kenneth Dwight, bambino con un gran orecchio musicale e molto dotato per il pianoforte, ma costretto a fare i conti con una madre anaffettiva e un padre assente e respingente. Determinante nella vita di Elton sarà l'incontro con Bernie Taupin (Jamie Bell), che darà l'avvio a un sodalizio professionale e personale inscalfibile, come viene più volte sottolineato nel corso del film.
La parabola del cantautore prima della sua rinascita musicale e personale è ben nota: dopo il successo straordinario a livello mondiale e l'enorme ricchezza in giovane età, Elton si lascia andare a ogni tipo di eccesso, in un processo quasi autodistruttivo a livello personale che invece in pubblico nasconde con le sue maschere, i suoi occhiali di ogni tipo e un atteggiamento quasi clownistico. Dietro questa profonda scissione interiore c'è un'incapacità di amare e di essere amato che lo fa sentire infinitamente solo.
Si tratta di una vicenda raccontata totalmente in soggettiva, attraverso i ricordi del protagonista, e in alcuni casi in forma semi-onirica, trasfigurando situazioni e canzoni attraverso la fervida immaginazione di Elton.
A differenza che in Bohemian Rapsody, in questo caso le canzoni di Elton John e i loro testi diventano parte integrante della narrazione trasformando il film in un quasi musical, in cui cantato e parlato si fondono in un unico flusso narrativo.
Nel complesso il film - pur ben confezionato e molto godibile visivamente - risulta piuttosto convenzionale sia nell'impianto che nell'evoluzione narrativa, proponendo allo spettatore personaggi tendenzialmente monodimensionali che appaiono più come la proiezione del punto di vista del protagonista che come figure reali. In conclusione, la lettura della vicenda personale di Elton John appare semplificata e alfine un po' autocelebrativa, cosa del resto inevitabile se si pensa che lui stesso è il produttore esecutivo del film, nonché colui che ha scelto il regista, Dexter Fletcher (a cui tra l'altro è affidato il sequel di Bohemian Rhapsody), e lo sceneggiatore, Lee Hall (già sceneggiatore di Billy Elliot, il che forse in parte spiega la virata del film verso un impianto da musical).
Si poteva certamente fare di più, e lo dice una che non è una fan di Elton John, cosa quest'ultima che non so se nella visione del film possa essere un fattore di maggiore benevolenza o al contrario di ulteriore spietatezza nel giudizio.
Voto: 3/5
Rocketman è infatti la storia di Elton John (Taron Egerton), raccontata attraverso un lungo flashback del protagonista giunto al momento della vita in cui - alcolizzato, drogato, sessuomane e con varie altre forme di dipendenza - si rende conto di dover rimettere insieme i pezzi.
Veniamo così proiettati all'infanzia di Elton, al secolo Reginald Kenneth Dwight, bambino con un gran orecchio musicale e molto dotato per il pianoforte, ma costretto a fare i conti con una madre anaffettiva e un padre assente e respingente. Determinante nella vita di Elton sarà l'incontro con Bernie Taupin (Jamie Bell), che darà l'avvio a un sodalizio professionale e personale inscalfibile, come viene più volte sottolineato nel corso del film.
La parabola del cantautore prima della sua rinascita musicale e personale è ben nota: dopo il successo straordinario a livello mondiale e l'enorme ricchezza in giovane età, Elton si lascia andare a ogni tipo di eccesso, in un processo quasi autodistruttivo a livello personale che invece in pubblico nasconde con le sue maschere, i suoi occhiali di ogni tipo e un atteggiamento quasi clownistico. Dietro questa profonda scissione interiore c'è un'incapacità di amare e di essere amato che lo fa sentire infinitamente solo.
Si tratta di una vicenda raccontata totalmente in soggettiva, attraverso i ricordi del protagonista, e in alcuni casi in forma semi-onirica, trasfigurando situazioni e canzoni attraverso la fervida immaginazione di Elton.
A differenza che in Bohemian Rapsody, in questo caso le canzoni di Elton John e i loro testi diventano parte integrante della narrazione trasformando il film in un quasi musical, in cui cantato e parlato si fondono in un unico flusso narrativo.
Nel complesso il film - pur ben confezionato e molto godibile visivamente - risulta piuttosto convenzionale sia nell'impianto che nell'evoluzione narrativa, proponendo allo spettatore personaggi tendenzialmente monodimensionali che appaiono più come la proiezione del punto di vista del protagonista che come figure reali. In conclusione, la lettura della vicenda personale di Elton John appare semplificata e alfine un po' autocelebrativa, cosa del resto inevitabile se si pensa che lui stesso è il produttore esecutivo del film, nonché colui che ha scelto il regista, Dexter Fletcher (a cui tra l'altro è affidato il sequel di Bohemian Rhapsody), e lo sceneggiatore, Lee Hall (già sceneggiatore di Billy Elliot, il che forse in parte spiega la virata del film verso un impianto da musical).
Si poteva certamente fare di più, e lo dice una che non è una fan di Elton John, cosa quest'ultima che non so se nella visione del film possa essere un fattore di maggiore benevolenza o al contrario di ulteriore spietatezza nel giudizio.
Voto: 3/5
mercoledì 12 giugno 2019
Fuerteventura e Lanzarote: isole di deserti e di lava (Seconda parte)
Il mulino del Jardin de Cactus, Lanzarote |
LANZAROTE
Al Jardin de Cactus, Lanzarote |
Per le strade di Teguise, Lanzarote |
Avremo modo di approfondire la conoscenza di Manrique molto presto, grazie alla visita a una piccola mostra fotografica su di lui che è in corso a Teguise, l'antico capoluogo dell'isola con il suo affascinante centro storico con le casette bianche e le porte verdi. Ci arriviamo passando per la LZ10, una strada panoramica che regala bellissimi scorci che permettono allo sguardo di farsi largo attraverso le montagne vulcaniche lungo le valli fino al mare.
Le case di Lanzarote |
Proseguiamo intanto nella scoperta dei luoghi di Manrique andando alla Fundación César Manrique, la cosiddetta casa del vulcano in quanto si tratta di una casa costruita dall'architetto su una colata lavica le cui stanze seminterrate occupano le cosiddette bolle laviche, collegate tra loro da cunicoli realizzati scavando nella roccia lavica. Purtroppo non facciamo in tempo a vedere tutto il video su Manrique alla conclusione della visita (perché la Fondazione sta chiudendo: qui bisogna stare molto attenti agli orari!), ma ci basta a comprendere la forza, l'ottimismo e la visionarietà di questo artista che tanto ha fatto per l'isola e a cui l'isola tanto deve.
La vista dalla LZ10, Lanzarote |
I "canyon" di Lanzarote |
La nostra giornata si chiude - dopo una sosta lungo la strada verso Nazaret per fotografare delle strane formazioni di roccia modellate dal vento che fanno un po' pensare a un piccolo canyon - con una breve visita (solo dall'esterno) a LagOmar, un edificio realizzato dall'allievo di Manrique, Jesus Soto, che si inserisce perfettamente sul versante della montagna vulcanica e si chiama così per una buffa storia/leggenda legata all'acquisto della casa da parte di Omar Sharif.
Per cena decidiamo di sperimentare un "teleclub", un tipo di bar/trattoria/luogo di ritrovo parecchio diffuso a Lanzarote, di cui ci avevano già parlato dei signori in aereo dicendoci di cercarli perché in questi posti si mangia bene spendendo poco. Noi andiamo a quello di Tao, dove c'è da una parte un gruppo di vecchietti che gioca a carte e gli unici altri avventori oltre a noi sono quattro locali che arrivano quando noi stiamo già finendo la cena. Ottimi il coniglio al forno e le patelle alla plancha, mentre la mousse di gofìo (la farina mista che si produce sull'isola) è buona, ma se ne può mangiare solo una piccolissima quantità.
Il lago verde, Lanzarote |
El Golfo, Lanzarote |
I cammelli all'ingresso del parco del Timanfaya, Lanzarote |
Il parco del Timanfaya, Lanzarote |
La zona de La Geria, Lanzarote |
Il terzo giorno a Lanzarote esploriamo la zona nord dell'isola: prima il Jameos del Agua, una grotta naturale nella lava dove Manrique ha creato dei terrazzamenti per le piante, un bar, una piscina con giardino e un auditorium; poi la Cueva de los Verdes, una serie di grotte e cunicoli sotterranei dentro il vulcano che ci conduce a una grande grotta finale dove ci aspetta una sorpresa molto bella che non è il caso di rivelare.
Jameos del Agua, Lanzarote |
Caleton Blanco e Orzola, Lanzarote |
Nel nostro ultimo giorno a Lanzarote, andiamo prima al mercato artigianale di Haria (una specie di premio di consolazione per non essere riuscite a vedere quello di Teguise, che si tiene la domenica, giorno per noi di arrivo e poi di ripartenza), e poi a fare un'escursione al vulcano El Cuervo, ai margini del Parco del Timanfaya. Si tratta di una passeggiata in piano che ci permette di vivere e di goderci dall'interno il paesaggio del Timanfaya e che ci porta nell'enorme caldera del vulcano, in cui si entra agevolmente dal lato aperto. Passeggiata consigliatissima.
La Graciosa dal Mirador del Rio, Lanzarote |
Il sentiero verso El Cuervo, Lanzarote |
La tappa più avventurosa e incredibile della giornata è quella a Los Charcones, le piscine naturali che avevo letto essere il segreto meglio custodito dell'isola. Nell'arrivarci capiamo anche perché: dopo aver percorso una strada in teoria chiusa per dei lavori e uno sterrato orrendo lungo chilometri in mezzo al niente (il tutto seguendo il navigatore), arriviamo a una specie di rudere di un resort, un mostro di cemento parecchio inquietante dove non c'è anima viva (e per fortuna!). Improvvisamente dagli scogli arrivano due ragazze e una signora, cosicché troviamo il coraggio di avventurarci sulla costa fino alle piscine naturali, bellissime ma piene di ricci e con il mare che ulula subito dietro.
Il resort abbandonato a Los Charcones, Lanzarote |
La vista dal Balcon de Femen, Lanzarote |
Saliamo in aereo consapevoli di aver avuto il privilegio di entrare in contatto con un mondo variegato e affascinante, al punto che ci è venuta voglia di visitare anche le altre isole dell'arcipelago, in particolare le più piccole, El Hierro e la Gomera, ma anche la turistica Tenerife, dove pure - siamo sicure - troveremmo degli angoli di pace e di bellezza intatta.
A questo link una selezione di foto pubblicata su Behance.
lunedì 10 giugno 2019
Fuerteventura e Lanzarote: isole di deserti e di lava (Prima parte)
Il panorama dal Sicasumbre, Fuerteventura |
Distese di brulle colline,
infinita, maestosa solitudine.
Il respiro incessante del mare,
a plasmare cupi arenili e candide dune.
Vento imperioso,
che sferza e alimenta.
E una strada di imperscrutabile destino,
cammino di fragile libertà,
in questa terra di confine,
crocevia di popoli antichi e remoti.
(R. G.)
Il respiro incessante del mare,
a plasmare cupi arenili e candide dune.
Vento imperioso,
che sferza e alimenta.
E una strada di imperscrutabile destino,
cammino di fragile libertà,
in questa terra di confine,
crocevia di popoli antichi e remoti.
(R. G.)
Fuerteventura, una tipica strada |
Ma cominciamo dal principio. Tutto iniziò molto tempo fa, quando vidi il film di Almodovar Gli abbracci spezzati, quasi interamente ambientato nell'isola di Lanzarote. Rimasi praticamente ipnotizzata da quei paesaggi che sembravano di un altro pianeta e da quelle corse in macchina su strade perfette e praticamente deserte, circondate da terre completamente nere. Poi qualche mese fa sono andata a vedere l'ultimo film di Gilliam, L'uomo che uccise don Chisciotte, e anche lì sono rimasta affascinata dalle ambientazioni e ho scoperto - guarda caso - che si trattava di un'altra isola dell'arcipelago delle Canarie, tra l'altro la più vicina a Lanzarote, Fuerteventura.
Corralejo, Fuerteventura |
Normalmente la gente pensa alle Canarie come la destinazione di una vacanza di mare, mentre pochi sono pienamente consapevoli del fatto che Lanzarote e Fuerteventura - prima ancora che posti dove fare vita da resort - sono isole da scoprire, attraversare e conoscere per la bellezza dei loro paesaggi e la ricchezza della loro cultura. Questo era esattamente ciò che cercavo e che ho trovato.
Corralejo, Fuerteventura |
Portare la macchina sul traghetto era un'opzione che avevamo considerato e poi escluso, sia perché costosa a livello economico, sia perché le macchine noleggiate in un'isola possono essere portate in un'altra solo con particolari condizioni assicurative che noi non avevamo e non volevamo sottoscrivere.
Ci è dunque convenuto noleggiare un'altra macchina a Corralejo per i quasi tre giorni che siamo state a Fuerteventura.
FUERTEVENTURA
Il primo impatto con l'isola di Fuerteventura è una giornata calda e soleggiata e un ristorante di pesce sulla spiaggia, la Cofradia de Pescadores, che ci era stato consigliato dai nostri vicini in aereo. Il ritiro dell'auto da Fuerte78 è un po' una piccola avventura, perché il nostro noleggiatore ci aveva dato la sua disponibilità senza tener conto della chiusura domenicale (tra l'altro in Spagna domenica di elezioni). Dopo una telefonata alquanto assertiva per parte mia, il povero Abian (invero molto gentile e disponibile) lascia la tavola di casa e viene al suo ufficio chiuso a Corralejo per darci la nostra auto, una Twingo gialla.
La nostra casetta a Tefìa, Fuerteventura |
Le prime tappe sono all'antico capoluogo di Fuerteventura, Betancuria, che è una bomboniera, ma quando ci andiamo noi sembra una città fantasma (facciamo fatica a incontrare altri esseri umani!), e poi un po' di su e giù per la FV30 (sì, qui le strade sono identificate da numeri preceduti dalla sigla che richiama l'isola sulla quale si trovano), la strada che va al Mirador di Morro Veloso che però purtroppo è chiuso! D'altra parte, anche fosse stato aperto, non credo avremmo visto molto, dal momento che le nuvole sono bassissime e hanno inghiottito il paesaggio, oltre al fatto che c'è un vento pazzesco. Noi siamo vestite con tutti gli strati che abbiamo, mentre una bimba con la canottiera e le ciabatte si fa fare le foto vicina alle statue dei giganti Guise e Ayose. Quando scendiamo dal Mirador, sulla strada che va verso Antigua ci fermiamo a fotografare dei bei mulini a vento.
Verso Antigua, Fuerteventura |
La sera ceniamo al bar El Artesano, che ci è stato consigliato dalla nostra ospite e abbiamo trovato recensito molto bene ovunque. Effettivamente mangiamo tapas a volontà, tra cui un ottimo queso frito con marmellata, nonché le nostre prime papas arrugadas (delle patate lesse al sale accompagnate dagli onnipresenti mojo rosso e mojo verde, due salsine ottenute da un mix di spezie, aglio e peperoni macinati e mescolati con olio e aceto, che poi riprodurremo appena tornate in Italia), oltre a un tonno in padella e non so cos'altro per la modica cifra di 10 euro a testa, e circondate solo da persone del luogo.
Le strade deserte nell'interno di Fuerteventura |
Alla sveglia, la mattina seguente, rimaniamo scioccate perché ci sono dei nuvoloni pazzeschi che incombono sul paesaggio di fronte a noi. A. - che ha già trascorso qualche giorno a Lanzarote prima di noi - ci dice che qui è normale; la mattina sembra sempre brutto tempo, ma nel corso della giornata il vento spazza le nubi e arriva il sole, teoria che vedremo confermata nei giorni successivi.
Il panorama dalla FV605, Fuerteventura |
Ci fermiamo all'Osservatorio del Sicasumbre, da dove si domina l'intera vallata sottostante e lo sguardo si spinge fino al mare (non credo di sbagliare nel dire che da qui su si vede la spiaggia di Cofete che raggiungeremo dopo).
Il deserto andando verso il sud di Fuerteventura |
Lo sterrato che attraversa la penisola di Jandia, Fuerteventura |
La spiaggia di Cofete vista dall'alto |
La spiaggia di Cofete, Fuerteventura |
La spiaggia nera di Ajuy, Fuerteventura |
Intanto di nuovo il cielo si è riempito di nuvole basse, nere e rosa, che però non portano neanche una goccia di pioggia. Questa giornata - ma la sensazione si confermerà nei prossimi giorni - ci sembra di aver vissuto molto più di 12 ore per la varietà e la quantità di cose che abbiamo visto e vissuto.
Il paesino di pescatori di Ajuy, Fuerteventura |
L'escursione al Calderon Hondo, Fuerteventura |
L'ultima tappa a Fuerteventura sono le dune di Corralejo, alte dune di sabbia bianca che si stagliano sui vari turchesi dell'oceano. Un luogo che trasmette un senso di libertà e un'energia che ci porteremo dietro a lungo.
Le dune di Corralejo, Fuerteventura |
A Lanzarote ci sistemiamo nel nostro appartamento di Guatiza, una specie di monolocale con grandi vetrate che si affaccia su un giardino curatissimo. I proprietari di casa, R. e S., ci danno un sacco di consigli, e su loro suggerimento la sera andiamo a mangiare al ristorante El Lago a Punta Mujeres, un posto un po' anni Settanta dove però mangiamo dell'ottimo pesce. Come primo impatto con l'isola possiamo dirci più che soddisfatte.
Qui la seconda parte del racconto di viaggio, dedicata a Lanzarote.
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