Ritratto di famiglia con bambina grassa / Margherita Giacobino. Milano: Mondadori, 2015.
Sono ormai al terzo libro della Giacobino (dopo Il prezzo del sogno e L'uovo fuori dal cavagno) e più mi inoltro nella sua produzione letteraria e più la apprezzo.
Innanzitutto, pur all'interno di un coerente stile di scrittura, considero un valore aggiunto la varietà della sua produzione. I tre libri che ho letto sono molto diversi l'uno dall'altro, potremmo dire che appartengono a generi diversi, dal biopic romanzato al romanzo di formazione alla saga familiare.
Tutti però sono accomunati da un'empatia e da un affetto della scrittrice verso la materia del suo romanzo che trascinano il lettore in una sorta di confidenza con i personaggi delle sue opere, indipendentemente dal fatto che questi personaggi siano realmente esistiti, inventati, vicini o lontani dall'autrice e/o dal lettore.
In Ritratto di famiglia con bambina grassa la Giacobino va a scavare nella storia familiare e per me - che sono un'appassionata di saghe familiari - è decisamente un invito a nozze.
La bambina grassa del titolo è la stessa Giacobino in una famiglia fatta soprattutto di donne: madri, nonne, zie, prozie. Gli uomini sono ai margini dell'affresco e, quando - più o meno incidentalmente - ne sono al centro, come nel caso di suo padre Gilin, portano solo guai.
La narrazione non è strettamente cronologica, ma procede quasi a spirale. Le storie dei singoli personaggi, a partire da quella della magna Ninin, iniziano e si concludono, aprendo squarci su altri personaggi che saranno oggetto di approfondimento più avanti.
In questo modo la Giacobino va un po' avanti e indietro in una storia familiare le cui origini si perdono nell'Ottocento e che arriva fino a un oggi, quando quasi tutti i suoi protagonisti sono morti e la bambini grassa è ormai una donna adulta.
Come spesso accade in queste saghe familiari (in particolare quando riguardano una realtà geografica e culturale a noi vicina - in questo caso siamo nel Canavese - e tanto più se sono fortemente radicate nella realtà vissuta grazie a un sapiente lavoro di ricerca), attraverso la storia di una - o meglio in questo caso di due famiglie - passa la storia di un intero paese, di intere generazioni che pur nella diversità delle storie individuali condividono gli esiti dei grandi eventi che ne accomunano le sorti.
E così davanti ai nostri occhi sfilano le condizioni di povertà e anche di dignità della fine dell'Ottocento, le conseguenze della prima guerra mondiale, le migrazioni oltreoceano, gli ambigui rapporti con il regime fascista, gli orrori della seconda guerra mondiale e la fame, poi la ripresa economica del dopoguerra, la crescita del paese e della sua industria, l'arrivo del benessere e dei confort: gli elettrodomestici, le automobili, ecc.
Nel frattempo le generazioni passano per lasciare spazio ad altre generazioni: chi proviene da un mondo diverso cambia per adattarsi al nuovo o resta fedele al vecchio in maniera tetragona. E in tutto questo andirivieni della storia piccola e grande c'è il “destino” di una bambina nella quale – come lei stessa ammette da adulta nel momento in cui decide di andare alla ricerca della storia della propria famiglia - confluiscono e si sommano tutti i rivoli delle storie del passato per trasformarsi in qualcosa di nuovo e di diverso, in cui però a ben vedere sono perfettamente riconoscibili i segni del passato.
Il romanzo della Giacobino è al contempo un tributo a questa famiglia che tanto ha significato nella sua vita, ma anche un tentativo di farci i conti, di comprendere quanto da bambini ci attraversa senza che possiamo realmente capirlo. E del resto nella vita di ognuno arriva sempre il momento in cui sentiamo il bisogno di venire a patti con il passato, non per metterlo da parte e voltare pagina, ma per farlo entrare nel flusso della vita e guardare avanti con maggiore profondità e consapevolezza.
La lettura del libro della Giacobino appassiona e commuove, a volte ci vede smarriti nella girandola dei personaggi e degli eventi che a più riprese vengono lasciati e ripresi, sempre però ci trasmette un sentimento di comprensione umana e di affetto per ogni essere umano, anche quelli che hanno maggiormente condizionato la nostra esistenza, nella certezza che ciascuno di loro – come tutti noi - ha fatto quello che ha potuto per essere il più possibile fedele a se stesso, nel bene e nel male.
Voto: 4/5
lunedì 30 aprile 2018
venerdì 27 aprile 2018
Il prigioniero coreano
Sono particolarmente affezionata a Kim Ki-Duk, di cui ho visto numerosi film, da ultimo Pietà. Lo considero una delle voci più originali del cinema degli ultimi decenni, capace di parlare con uno stile narrativo poco occidentale e molto personale, e i cui film vale dunque sempre la pena di andare a vedere, anche quando magari non sono del tutto riusciti.
Con Il prigioniero coreano secondo me Kim Ki-Duk fa ancora una volta centro, portando alla nostra attenzione numerosi temi al contempo senza tempo e di scottante attualità.
Nam Chul-woo (Ryoo Seung-Bum) è un povero pescatore nord-coreano che vive con la moglie e la figlia ai bordi di un fiume in mezzo al quale passa il confine con la Corea del Sud. Un giorno il motore della sua barca si rompe e la corrente lo trascina verso la riva del fiume dall'altra parte del confine. Da qui comincia un'avventura che ha del kafkiano in cui Nam Chul-woo dovrà prima dimostrare ai servizi di sicurezza della Corea del Sud di non essere una spia e convincerli che non vuole disertare, poi - rimandato in Corea del Nord - dovrà specularmente superare anche il test dei suoi connazionali. Da una parte e dall'altra incontrerà gli stessi comportamenti, la stessa mancanza di fiducia, la stessa imperante ragion di stato, e dovrà scontrarsi con ideologie opposte, ma in qualche modo tangenti nella convinzione di ciascuno di essere sulla strada giusta. Da una parte e dall'altra dovrà fare i conti con desiderio di vendetta e corruzione.
Nam Chul-woo è un puro, fedele ai valori della sua patria, affezionato alla sua famiglia, che è l'unico motivo che lo spinge ad andare avanti in questo percorso ad ostacoli. Dall'altra parte del confine incontrerà un puro di cuore come lui, una giovane guardia, che lo proteggerà e lo aiuterà a tornare a casa.
"Quando ci riunificheremo, cerchiamo di frequentarci", gli dice a un certo punto Nam Chul-woo, frase che assume un tono beffardo in un film che mostra la totale incomunicabilità di questi mondi che si sospettano e si fanno la guerra a vicenda (sebbene le notizie di questi ultimi giorni sembrino aprire qualche spiraglio).
All'interno di una riflessione su uno specifico contesto geografico e politico, io personalmente ci leggo anche una riflessione di portata più generale, quella sulle bolle nelle quali viviamo. In un certo senso, la Corea del Nord e la Corea del Sud sono l'esemplificazione di due "bolle" perfette e perfettamente compiute in se stesse, nonché autoreferenziali. Chi si muove all'interno di ciascuna bolla comprende e riconosce solo la logica interna, e non si avvicina neppure lontanamente alla possibilità di interpretare il punto di vista altrui, conosciuto sempre attraverso il filtro non dell'esperienza ma del pregiudizio. Chi si muove in una bolla pensa fondamentalmente di essere dalla parte del giusto nonostante tutto, e nonostante le storture che pure riconosce, perché in qualche modo instaura un rapporto affettivo con il proprio mondo (come nel caso della bimba che - pur attratta dal nuovo giocattolo che parla e si muove - alla fine torna al suo vecchio pupazzo rattoppato).
C'è dunque un sottofondo di grande pessimismo nel tema di questo film, dimostrato dalla sua fine, che non lascia spazio ad alcuna speranza, né per le due Coree né forse per l'umanità tutta. O forse quello di Kim Ki-Duk è un monito all'umanità perché prenda coscienza di questi meccanismi e possa in qualche modo correggerli per darsi una speranza di futuro.
Voto: 4/5
Con Il prigioniero coreano secondo me Kim Ki-Duk fa ancora una volta centro, portando alla nostra attenzione numerosi temi al contempo senza tempo e di scottante attualità.
Nam Chul-woo (Ryoo Seung-Bum) è un povero pescatore nord-coreano che vive con la moglie e la figlia ai bordi di un fiume in mezzo al quale passa il confine con la Corea del Sud. Un giorno il motore della sua barca si rompe e la corrente lo trascina verso la riva del fiume dall'altra parte del confine. Da qui comincia un'avventura che ha del kafkiano in cui Nam Chul-woo dovrà prima dimostrare ai servizi di sicurezza della Corea del Sud di non essere una spia e convincerli che non vuole disertare, poi - rimandato in Corea del Nord - dovrà specularmente superare anche il test dei suoi connazionali. Da una parte e dall'altra incontrerà gli stessi comportamenti, la stessa mancanza di fiducia, la stessa imperante ragion di stato, e dovrà scontrarsi con ideologie opposte, ma in qualche modo tangenti nella convinzione di ciascuno di essere sulla strada giusta. Da una parte e dall'altra dovrà fare i conti con desiderio di vendetta e corruzione.
Nam Chul-woo è un puro, fedele ai valori della sua patria, affezionato alla sua famiglia, che è l'unico motivo che lo spinge ad andare avanti in questo percorso ad ostacoli. Dall'altra parte del confine incontrerà un puro di cuore come lui, una giovane guardia, che lo proteggerà e lo aiuterà a tornare a casa.
"Quando ci riunificheremo, cerchiamo di frequentarci", gli dice a un certo punto Nam Chul-woo, frase che assume un tono beffardo in un film che mostra la totale incomunicabilità di questi mondi che si sospettano e si fanno la guerra a vicenda (sebbene le notizie di questi ultimi giorni sembrino aprire qualche spiraglio).
All'interno di una riflessione su uno specifico contesto geografico e politico, io personalmente ci leggo anche una riflessione di portata più generale, quella sulle bolle nelle quali viviamo. In un certo senso, la Corea del Nord e la Corea del Sud sono l'esemplificazione di due "bolle" perfette e perfettamente compiute in se stesse, nonché autoreferenziali. Chi si muove all'interno di ciascuna bolla comprende e riconosce solo la logica interna, e non si avvicina neppure lontanamente alla possibilità di interpretare il punto di vista altrui, conosciuto sempre attraverso il filtro non dell'esperienza ma del pregiudizio. Chi si muove in una bolla pensa fondamentalmente di essere dalla parte del giusto nonostante tutto, e nonostante le storture che pure riconosce, perché in qualche modo instaura un rapporto affettivo con il proprio mondo (come nel caso della bimba che - pur attratta dal nuovo giocattolo che parla e si muove - alla fine torna al suo vecchio pupazzo rattoppato).
C'è dunque un sottofondo di grande pessimismo nel tema di questo film, dimostrato dalla sua fine, che non lascia spazio ad alcuna speranza, né per le due Coree né forse per l'umanità tutta. O forse quello di Kim Ki-Duk è un monito all'umanità perché prenda coscienza di questi meccanismi e possa in qualche modo correggerli per darsi una speranza di futuro.
Voto: 4/5
mercoledì 25 aprile 2018
Scende giù per Toledo. Teatro Piccolo Eliseo, 17 aprile 2018
Scende giù per Toledo è il titolo del romanzo del 1975 di Giuseppe Patroni Griffi da cui Arturo Cirillo (già ammirato in Notturno di donna con ospiti) ha tratto questo spettacolo teatrale di cui è regista e interprete.
La scenografia è quella di una stanza da letto kitsch, in cui prevalgono colori accesi, lustrini, parrucche e grandi cuscini su un letto di forma circolare. È questo l'ambiente in cui si muove Rosalinda sprint, la protagonista di questa storia, un femminiello napoletano che, dopo essere fuggito dalla casa paterna con la pistola puntata addosso dal padre, è finito per strada a prostituirsi.
Rosalinda interloquisce da un lato con altre figure del suo mondo dai nomi più o meno improbabili, Marlene Dietrich e Maria Callas, dall'altro con uomini che la sfruttano e poi la maltrattano.
Rosalinda Sprint è un personaggio al contempo grottesco e dolente, certamente ingenua e naif, alla ricerca di qualcuno che la ami veramente, ma destinata all'inevitabile sconfitta, anche quando vuole fuggire da Napoli per ricostruirsi una vita all'estero come "forestiera" e invece dovrà tornare mestamente nella stanza che abita e che è l'unico posto al quale appartiene.
Lo spettacolo è uno stupendo assolo di Cirillo, voce fuori campo di alcune parti del racconto e interprete non solo di Rosalinda, ma anche dei suoi interlocutori, tutti caratterizzati con piccoli dettagli (un cambio di voce, di accessori, di atteggiamento).
Il testo di Patroni Griffi è potente e diretto: esplicito e greve, ma a tratti straordinariamente poetico, capace di portare allo scoperto l'animo di questo personaggio, che non ne esce come una macchietta (cosa che avrebbe potuto facilmente accadere), bensì ne viene fuori in tutta la sua tridimensionalità e complessità.
E a questo contribuisce la straordinaria interpretazione di Arturo Cirillo.
Alla fine dello spettacolo gli applausi si sprecano, e Cirillo ci ripaga con un paio di giri fuori programma nella platea del Piccolo Eliseo, cui quest'anno bisogna fare davvero i complimenti per il cartellone.
Voto: 4/5
La scenografia è quella di una stanza da letto kitsch, in cui prevalgono colori accesi, lustrini, parrucche e grandi cuscini su un letto di forma circolare. È questo l'ambiente in cui si muove Rosalinda sprint, la protagonista di questa storia, un femminiello napoletano che, dopo essere fuggito dalla casa paterna con la pistola puntata addosso dal padre, è finito per strada a prostituirsi.
Rosalinda interloquisce da un lato con altre figure del suo mondo dai nomi più o meno improbabili, Marlene Dietrich e Maria Callas, dall'altro con uomini che la sfruttano e poi la maltrattano.
Rosalinda Sprint è un personaggio al contempo grottesco e dolente, certamente ingenua e naif, alla ricerca di qualcuno che la ami veramente, ma destinata all'inevitabile sconfitta, anche quando vuole fuggire da Napoli per ricostruirsi una vita all'estero come "forestiera" e invece dovrà tornare mestamente nella stanza che abita e che è l'unico posto al quale appartiene.
Lo spettacolo è uno stupendo assolo di Cirillo, voce fuori campo di alcune parti del racconto e interprete non solo di Rosalinda, ma anche dei suoi interlocutori, tutti caratterizzati con piccoli dettagli (un cambio di voce, di accessori, di atteggiamento).
Il testo di Patroni Griffi è potente e diretto: esplicito e greve, ma a tratti straordinariamente poetico, capace di portare allo scoperto l'animo di questo personaggio, che non ne esce come una macchietta (cosa che avrebbe potuto facilmente accadere), bensì ne viene fuori in tutta la sua tridimensionalità e complessità.
E a questo contribuisce la straordinaria interpretazione di Arturo Cirillo.
Alla fine dello spettacolo gli applausi si sprecano, e Cirillo ci ripaga con un paio di giri fuori programma nella platea del Piccolo Eliseo, cui quest'anno bisogna fare davvero i complimenti per il cartellone.
Voto: 4/5
giovedì 19 aprile 2018
Maxim Vengerov. Teatro Argentina, 12 aprile 2018
Scrivere una recensione vera e propria su qualcosa che è completamente al di là della mia portata sarebbe un segnale di tracotanza (o di pressapochismo, a seconda dei punti di vista) che non mi si addice.
Mi limiterò dunque a dire che ho accettato di buon grado questa proposta di F. perché - pur essendo profondamente ignorante in fatto di musica classica - mi piace ogni tanto espormi a quello che non conosco e provare a vivere le cose sul piano emotivo più che su quello intellettuale.
Poi mi incuriosiva il contatto diretto con quello che è considerato uno dei più grandi violisti viventi, tra l'altro con una storia personale piuttosto articolata, com'è tipico di tutte le figure a loro modo geniali. Da questo punto di vista mi è tornata alla mente la storia - certamente più estrema - di Sergei Polunin, su cui avevo visto qualche tempo fa un bellissimo documentario, Dancer.
E così eccomi al Teatro Argentina per il concerto di uno dei più grandi violinisti viventi, inserito nella stagione dell'Accademia Filarmonica Romana. Maxim Vengerov, siberiano di nascita, è accompagnato al pianoforte da Polina Osetinskaya e ci propone un programma articolato in due parti: nella prima due sonate di Johannes Brahms, la Sonata n. 1 in sol maggiore per violino e pianoforte op. 78 e la Sonata n. 3 in re minore per violino e pianoforte op. 108, nella seconda parte la Sonata n. 2 in sol maggiore per violino e pianoforte di Maurice Ravel e il Cantabile in re maggiore per violino e pianoforte op. 17 di Niccolò Paganini.
Personalmente non riesco ad appassionarmi granché alla prima parte, ossia alle due sonate di Brahms, mentre la mia attenzione e i miei sensi si risvegliano completamente con la sonata di Ravel, che nonostante le dissonanze e certe passaggio ostico suona in qualche modo moderna alle mie orecchie e risveglia memorie uditive che mi consentono di seguirla. Paganini infine consente a Vengerov di esercitare tutto il suo virtuosismo.
All'applauso del pubblico seguono quattro (o cinque?) bis che suscitano reazioni via via più entusiaste da parte del pubblico e si concludono con una standing ovation di quasi tutto il Teatro Argentina.
Dietro di noi ci sono dei veri esperti di musica classica (o almeno così sembra), i quali fanno commenti dotti sul programma e sulle esecuzioni. Alla fine si dicono soddisfatti ma con qualche perplessità.
Io ovviamente non so che dire. Sono soltanto felice di aver potuto assistere a questo spettacolo e ascoltare due grandi musicisti.
(Ovviamente non vi aspettate un voto, per lo stesso motivo che ho spiegato in apertura di post!)
Mi limiterò dunque a dire che ho accettato di buon grado questa proposta di F. perché - pur essendo profondamente ignorante in fatto di musica classica - mi piace ogni tanto espormi a quello che non conosco e provare a vivere le cose sul piano emotivo più che su quello intellettuale.
Poi mi incuriosiva il contatto diretto con quello che è considerato uno dei più grandi violisti viventi, tra l'altro con una storia personale piuttosto articolata, com'è tipico di tutte le figure a loro modo geniali. Da questo punto di vista mi è tornata alla mente la storia - certamente più estrema - di Sergei Polunin, su cui avevo visto qualche tempo fa un bellissimo documentario, Dancer.
E così eccomi al Teatro Argentina per il concerto di uno dei più grandi violinisti viventi, inserito nella stagione dell'Accademia Filarmonica Romana. Maxim Vengerov, siberiano di nascita, è accompagnato al pianoforte da Polina Osetinskaya e ci propone un programma articolato in due parti: nella prima due sonate di Johannes Brahms, la Sonata n. 1 in sol maggiore per violino e pianoforte op. 78 e la Sonata n. 3 in re minore per violino e pianoforte op. 108, nella seconda parte la Sonata n. 2 in sol maggiore per violino e pianoforte di Maurice Ravel e il Cantabile in re maggiore per violino e pianoforte op. 17 di Niccolò Paganini.
Personalmente non riesco ad appassionarmi granché alla prima parte, ossia alle due sonate di Brahms, mentre la mia attenzione e i miei sensi si risvegliano completamente con la sonata di Ravel, che nonostante le dissonanze e certe passaggio ostico suona in qualche modo moderna alle mie orecchie e risveglia memorie uditive che mi consentono di seguirla. Paganini infine consente a Vengerov di esercitare tutto il suo virtuosismo.
All'applauso del pubblico seguono quattro (o cinque?) bis che suscitano reazioni via via più entusiaste da parte del pubblico e si concludono con una standing ovation di quasi tutto il Teatro Argentina.
Dietro di noi ci sono dei veri esperti di musica classica (o almeno così sembra), i quali fanno commenti dotti sul programma e sulle esecuzioni. Alla fine si dicono soddisfatti ma con qualche perplessità.
Io ovviamente non so che dire. Sono soltanto felice di aver potuto assistere a questo spettacolo e ascoltare due grandi musicisti.
(Ovviamente non vi aspettate un voto, per lo stesso motivo che ho spiegato in apertura di post!)
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