venerdì 27 aprile 2018

Il prigioniero coreano

Sono particolarmente affezionata a Kim Ki-Duk, di cui ho visto numerosi film, da ultimo Pietà. Lo considero una delle voci più originali del cinema degli ultimi decenni, capace di parlare con uno stile narrativo poco occidentale e molto personale, e i cui film vale dunque sempre la pena di andare a vedere, anche quando magari non sono del tutto riusciti.

Con Il prigioniero coreano secondo me Kim Ki-Duk fa ancora una volta centro, portando alla nostra attenzione numerosi temi al contempo senza tempo e di scottante attualità.

Nam Chul-woo (Ryoo Seung-Bum) è un povero pescatore nord-coreano che vive con la moglie e la figlia ai bordi di un fiume in mezzo al quale passa il confine con la Corea del Sud. Un giorno il motore della sua barca si rompe e la corrente lo trascina verso la riva del fiume dall'altra parte del confine. Da qui comincia un'avventura che ha del kafkiano in cui Nam Chul-woo dovrà prima dimostrare ai servizi di sicurezza della Corea del Sud di non essere una spia e convincerli che non vuole disertare, poi - rimandato in Corea del Nord - dovrà specularmente superare anche il test dei suoi connazionali. Da una parte e dall'altra incontrerà gli stessi comportamenti, la stessa mancanza di fiducia, la stessa imperante ragion di stato, e dovrà scontrarsi con ideologie opposte, ma in qualche modo tangenti nella convinzione di ciascuno di essere sulla strada giusta. Da una parte e dall'altra dovrà fare i conti con desiderio di vendetta e corruzione.

Nam Chul-woo è un puro, fedele ai valori della sua patria, affezionato alla sua famiglia, che è l'unico motivo che lo spinge ad andare avanti in questo percorso ad ostacoli. Dall'altra parte del confine incontrerà un puro di cuore come lui, una giovane guardia, che lo proteggerà e lo aiuterà a tornare a casa.

"Quando ci riunificheremo, cerchiamo di frequentarci", gli dice a un certo punto Nam Chul-woo, frase che assume un tono beffardo in un film che mostra la totale incomunicabilità di questi mondi che si sospettano e si fanno la guerra a vicenda (sebbene le notizie di questi ultimi giorni sembrino aprire qualche spiraglio).

All'interno di una riflessione su uno specifico contesto geografico e politico, io personalmente ci leggo anche una riflessione di portata più generale, quella sulle bolle nelle quali viviamo. In un certo senso, la Corea del Nord e la Corea del Sud sono l'esemplificazione di due "bolle" perfette e perfettamente compiute in se stesse, nonché autoreferenziali. Chi si muove all'interno di ciascuna bolla comprende e riconosce solo la logica interna, e non si avvicina neppure lontanamente alla possibilità di interpretare il punto di vista altrui, conosciuto sempre attraverso il filtro non dell'esperienza ma del pregiudizio. Chi si muove in una bolla pensa fondamentalmente di essere dalla parte del giusto nonostante tutto, e nonostante le storture che pure riconosce, perché in qualche modo instaura un rapporto affettivo con il proprio mondo (come nel caso della bimba che - pur attratta dal nuovo giocattolo che parla e si muove - alla fine torna al suo vecchio pupazzo rattoppato).

C'è dunque un sottofondo di grande pessimismo nel tema di questo film, dimostrato dalla sua fine, che non lascia spazio ad alcuna speranza, né per le due Coree né forse per l'umanità tutta. O forse quello di Kim Ki-Duk è un monito all'umanità perché prenda coscienza di questi meccanismi e possa in qualche modo correggerli per darsi una speranza di futuro.

Voto: 4/5


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