Ed eccomi finalmente di ritorno alla mia rassegna musicale preferita di Roma, Unplugged in Monti, che si tiene nella piccola saletta concerti del Black Market.
Non conoscevo Joana Serrat, ma quando è stato annunciato il suo concerto, sono andata subito ad ascoltarmi alcuni brani (cosa che faccio spesso in queste circostanze) e quasi immediatamente mi è venuta voglia di approcciare i suoi dischi in maniera più estesa.
Sono stata colpita in particolare da due cose: la già consistente produzione di una cantante che ha solo 35 anni e il carattere adulto della sua musica, e non solo negli ultimissimi album.
Così, prima del concerto ho comprato e ascoltato due album, Dripping Springs e Cross the Verge, apprezzandoli entrambi, sebbene mi sia rammaricata di non aver avuto il tempo di farli completamente miei.
Arrivo dunque al Black Market (dove tra l'altro incontro casualmente un'amica che non vedevo da tempo - magie di Roma!) con grandi aspettative e quando, in perfetto orario, sale sul palco Joana Serrat, sono innanzitutto intenerita da questa ragazzona catalana che sembra ancora più giovane di quello che è, indossa una camicia texana e imbraccia la chitarra acustica molto alta (e mi ricorda in questo lo stile di Micah P. Hinson).
Joana parla un fluidissimo inglese, sebbene si rammarichi di dover ricorrere a una terza lingua, considerando che lei e noi parliamo entrambi lingue neolatine. Joana appare timida sul palco, chiede quasi permesso al pubblico per raccontarci il retroscena dei testi delle sue canzoni e - quando arriva il momento del bis - chiede a noi quante canzoni ancora vogliamo ascoltare.
Però quando suona e canta, si capisce che Joana è un'artista navigata e che sa ampiamente il fatto suo. La padronanza della chitarra è notevole (e io devo dire che apprezzo particolarmente il finger picking che caratterizza una parte dei suoi brani) e anche la sua voce si caratterizza per varietà e qualità.
Ma soprattutto la cosa più interessante è che la sua musica - cantata in inglese e con una fortissima ascendenza americana - in realtà rivela moltissime eredità, anche e soprattutto europee, cosicché il risultato è un mix originale, ma nel quale ognuno riconosce qualcosa che gli appartiene, un senso di familiarità e di appartenenza.
Sarei curiosa di sentirla suonare con tutta la band, ma devo dire che sono comunque contenta di aver potuto apprezzare Joana Serrat anche nella sua essenzialità. Ed è già tanta roba.
Voto: 3,5/5
mercoledì 31 gennaio 2018
lunedì 29 gennaio 2018
Chiamami col tuo nome
Siamo nel 1983. Elio (Timothée Chalamet) è un diciassettenne decisamente non ordinario: trascorre le sue giornate trascrivendo musica classica, suonando
il pianoforte, leggendo e interagendo con i propri coetanei in
quell'età della vita in cui sbocciano i primi amori importanti. Viene da una famiglia colta e cosmopolita, molto benestante e dalle idee decisamente liberali.
La famiglia sta trascorrendo – come sempre – le vacanze estive nella casa della campagna cremasca che la madre ha ereditato e, come ogni estate, il padre - professore universitario - ha invitato un proprio studente americano a trascorrere le vacanze con loro per trovare stimoli e ispirazione a scrivere la propria tesi.
Lo studente invitato quest'anno, Oliver (Armie Hammer), - cui Elio dovrà cedere la propria stanza da letto per posizionarsi nella stanza accanto – con i suoi modi aperti e confidenziali conquista subito tutti e crea un turbamento praticamente immediato in Elio, che ne è contemporaneamente attratto e respinto, fors'anche perché consapevole delle conseguenze di quest'attrazione.
Mentre la loro estate va avanti tra passeggiate in bicicletta, serate danzanti con gli amici sulle note dei successi degli anni Ottanta, dotte disquisizioni e citazioni ancora più dotte (e che non a caso in buona parte mi sono sfuggite), cene e pranzi in famiglia, gite fuori porta, bagni al lago e nelle fontane, ritrovamenti di statue classiche, tra Elio e Oliver si innesca una schermaglia che fin da subito prende la forma di una schermaglia amorosa, da cui entrambi a tratti si ritraggono per paura e insicurezza.
In una campagna padana assolata e luminosa che esprime una bellezza antica e quasi rarefatta, in un'epoca storica che il nostro occhio riconosce come un passato già lontano eppure ricco di echi molto familiari per la generazione di chi, come me, è nato negli anni Settanta, il perno attorno a cui ruota tutta la storia è Elio, interpretato da un Timothée Chalamet straordinario e ipnotizzante, insopportabilmente colto eppure incredibilmente empatico nel rappresentare le emozioni indefinite, confuse e a tratti spaventose di un diciassettenne, il senso di colpa e al contempo la forza di un'attrazione potente e pura come forse mai riesce a essere più avanti nella vita. Un'attrazione rispetto alla quale qualunque manovra diversiva – vedi la breve storia di Elio con la coetanea Marzia – è destinata a non avere successo e semmai a rafforzare il desiderio.
Però – al contrario di quello che si potrebbe pensare – questa storia, che pure ha al centro un amore omosessuale, non è un film a tesi e dei film a tesi non ha i principali stilemi. Non c'è tragedia all'esito della capitolazione dei due giovani alla reciproca attrazione, quella che li fa rispecchiare l'uno nell'altro come testimoniano nel chiamarsi col nome dell'altro, né c'è il trionfo dell'amore che esclude qualunque altra strada di vita. Esiste solo un amore intenso che per una estate spazza via tutto il resto e dà una gioia incontenibile e poi una tristezza altrettanto profonda nell'inevitabile allontanamento che la vita porta con sé.
È profondamente sincero il modo in cui Guadagnino rappresenta il rapporto di Elio con la propria sessualità nonché il modo intensamente fisico in cui si esplica l'interazione amorosa tra due uomini.
E però – a differenza di altri film sul medesimo tema – il mondo intorno non è ostile, nella misura in cui ognuno si confronta con la vita com'è, quella vita che può solo essere assecondata.
L'amicizia che Marzia offre a Elio è commovente, la presenza discreta – ma perfettamente consapevole - della madre è carezzevole, il discorso del padre a Elio alla partenza di Oliver è di quelli che colpiscono dritti al centro del cuore e che – come mi ha fatto notare la mia amica R. - è riuscito nell'intento di far ammutolire l'intera sala di un cinema di provincia, perché nessuno può a ragione sentirsene estraneo.
Non ho letto il romanzo omonimo di Aciman (conto di rimediare!), ma la sceneggiatura di James Ivory è contenuta e accogliente al punto giusto; i due inediti del grande Sufjan Stevens interpretano perfettamente lo spirito del film (e complimenti a chi ha scelto di coinvolgere proprio questo cantautore); Timothée Chalamet si esprime con le parole e soprattutto con il corpo in maniera così naturalistica da lasciare a bocca aperta.
Peccato solo non averlo visto in lingua originale. E lo so che questa apparirà una notazione da snob, ma in un film in cui si parlano lingue diverse – e non a caso, visto che la famiglia di Elio vive tra gli Stati Uniti e l'Italia, e padre e madre citano e traducono dal francese e dal tedesco – nonché il dialetto locale, è un po' un peccato vedere tutto appiattito all'italiano.
Voto: 4,5/5
La famiglia sta trascorrendo – come sempre – le vacanze estive nella casa della campagna cremasca che la madre ha ereditato e, come ogni estate, il padre - professore universitario - ha invitato un proprio studente americano a trascorrere le vacanze con loro per trovare stimoli e ispirazione a scrivere la propria tesi.
Lo studente invitato quest'anno, Oliver (Armie Hammer), - cui Elio dovrà cedere la propria stanza da letto per posizionarsi nella stanza accanto – con i suoi modi aperti e confidenziali conquista subito tutti e crea un turbamento praticamente immediato in Elio, che ne è contemporaneamente attratto e respinto, fors'anche perché consapevole delle conseguenze di quest'attrazione.
Mentre la loro estate va avanti tra passeggiate in bicicletta, serate danzanti con gli amici sulle note dei successi degli anni Ottanta, dotte disquisizioni e citazioni ancora più dotte (e che non a caso in buona parte mi sono sfuggite), cene e pranzi in famiglia, gite fuori porta, bagni al lago e nelle fontane, ritrovamenti di statue classiche, tra Elio e Oliver si innesca una schermaglia che fin da subito prende la forma di una schermaglia amorosa, da cui entrambi a tratti si ritraggono per paura e insicurezza.
In una campagna padana assolata e luminosa che esprime una bellezza antica e quasi rarefatta, in un'epoca storica che il nostro occhio riconosce come un passato già lontano eppure ricco di echi molto familiari per la generazione di chi, come me, è nato negli anni Settanta, il perno attorno a cui ruota tutta la storia è Elio, interpretato da un Timothée Chalamet straordinario e ipnotizzante, insopportabilmente colto eppure incredibilmente empatico nel rappresentare le emozioni indefinite, confuse e a tratti spaventose di un diciassettenne, il senso di colpa e al contempo la forza di un'attrazione potente e pura come forse mai riesce a essere più avanti nella vita. Un'attrazione rispetto alla quale qualunque manovra diversiva – vedi la breve storia di Elio con la coetanea Marzia – è destinata a non avere successo e semmai a rafforzare il desiderio.
Però – al contrario di quello che si potrebbe pensare – questa storia, che pure ha al centro un amore omosessuale, non è un film a tesi e dei film a tesi non ha i principali stilemi. Non c'è tragedia all'esito della capitolazione dei due giovani alla reciproca attrazione, quella che li fa rispecchiare l'uno nell'altro come testimoniano nel chiamarsi col nome dell'altro, né c'è il trionfo dell'amore che esclude qualunque altra strada di vita. Esiste solo un amore intenso che per una estate spazza via tutto il resto e dà una gioia incontenibile e poi una tristezza altrettanto profonda nell'inevitabile allontanamento che la vita porta con sé.
È profondamente sincero il modo in cui Guadagnino rappresenta il rapporto di Elio con la propria sessualità nonché il modo intensamente fisico in cui si esplica l'interazione amorosa tra due uomini.
E però – a differenza di altri film sul medesimo tema – il mondo intorno non è ostile, nella misura in cui ognuno si confronta con la vita com'è, quella vita che può solo essere assecondata.
L'amicizia che Marzia offre a Elio è commovente, la presenza discreta – ma perfettamente consapevole - della madre è carezzevole, il discorso del padre a Elio alla partenza di Oliver è di quelli che colpiscono dritti al centro del cuore e che – come mi ha fatto notare la mia amica R. - è riuscito nell'intento di far ammutolire l'intera sala di un cinema di provincia, perché nessuno può a ragione sentirsene estraneo.
Non ho letto il romanzo omonimo di Aciman (conto di rimediare!), ma la sceneggiatura di James Ivory è contenuta e accogliente al punto giusto; i due inediti del grande Sufjan Stevens interpretano perfettamente lo spirito del film (e complimenti a chi ha scelto di coinvolgere proprio questo cantautore); Timothée Chalamet si esprime con le parole e soprattutto con il corpo in maniera così naturalistica da lasciare a bocca aperta.
Peccato solo non averlo visto in lingua originale. E lo so che questa apparirà una notazione da snob, ma in un film in cui si parlano lingue diverse – e non a caso, visto che la famiglia di Elio vive tra gli Stati Uniti e l'Italia, e padre e madre citano e traducono dal francese e dal tedesco – nonché il dialetto locale, è un po' un peccato vedere tutto appiattito all'italiano.
Voto: 4,5/5
mercoledì 24 gennaio 2018
Poesía sin fin
La visione di Poesía sin fin, l'ultimo film che Alejandro Jodorowsky è riuscito a realizzare grazie al crowdfunding e che - per effetto del passaparola - sta continuando a fare pubblico al di fuori dei canali tradizionali di distribuzione, costituisce un altro dei miei esperimenti per avvicinarmi a cose che non conosco.
Non sapevo nulla di Jodorowsky prima di questo film, se non quanto avevo rapidamente letto sulla pagina di wikipedia, però avevo sentito parlare molto bene di questo film in vari contesti.
Come sempre, non è stato difficile trascinare in queste mie "avventure culturali" anche F. che a sua volta è riuscita a portare con sé R. Arriviamo al Detour con congruo anticipo per prendere i biglietti, poi andiamo a mangiare una cosina, ma quando torniamo i posti migliori sono già tutti presi. Ci sediamo dunque alle sedie laterali, non proprio comodissime, ma funzionali.
Il film dura più di due ore e racconta in maniera autobiografica e con un linguaggio tra il naif e il surreale come Alejandro sia diventato un poeta: dal momento in cui ha lasciato il suo paese d'origine per seguire i suoi genitori a Santiago al rinnegamento delle origini ebree della sua famiglia, alla prima esperienza da solo nella casa di un'artista post-moderna che ospita altri giovani artisti avanguardisti, alla storia d'amore con la musa Stella, all'amicizia con Enrique Lihn e al successivo litigio con quest'ultimo, fino alla riconciliazione con se stesso e con il proprio mondo rinnegato, proprio grazie alla poesia.
La ricostruzione autobiografica è solo in piccola parte realistica, e in buona parte attinge all'universo immaginifico e psicologico dell'autore, universo popolato di nani, ballerine, clown, e caratterizzato da situazioni e simboli che amplificano a dismisura gli esiti di un percorso psicanalitico.
I due figli di Jodorowsky (che pure compare in prima persona in alcuni momenti del film), Brontis e Adan, interpretano il padre nella fase dell'adolescenza e della giovinezza, in un ideale passaggio di consegne generazionale.
Alla fine, nonostante la mia difficoltà a entrare in sintonia emotiva con le modalità espressive della cultura sudamericana, di cui senza dubbio Jodorowsky è espressione, il film mi affascina e mi conquista, anche grazie alla filosofia di fondo che lo anima e che è riassunta in una frase in cui mi riconosco molto: "La vita non ha nessun senso. Dunque vivila!".
Voto: 3/5
Non sapevo nulla di Jodorowsky prima di questo film, se non quanto avevo rapidamente letto sulla pagina di wikipedia, però avevo sentito parlare molto bene di questo film in vari contesti.
Come sempre, non è stato difficile trascinare in queste mie "avventure culturali" anche F. che a sua volta è riuscita a portare con sé R. Arriviamo al Detour con congruo anticipo per prendere i biglietti, poi andiamo a mangiare una cosina, ma quando torniamo i posti migliori sono già tutti presi. Ci sediamo dunque alle sedie laterali, non proprio comodissime, ma funzionali.
Il film dura più di due ore e racconta in maniera autobiografica e con un linguaggio tra il naif e il surreale come Alejandro sia diventato un poeta: dal momento in cui ha lasciato il suo paese d'origine per seguire i suoi genitori a Santiago al rinnegamento delle origini ebree della sua famiglia, alla prima esperienza da solo nella casa di un'artista post-moderna che ospita altri giovani artisti avanguardisti, alla storia d'amore con la musa Stella, all'amicizia con Enrique Lihn e al successivo litigio con quest'ultimo, fino alla riconciliazione con se stesso e con il proprio mondo rinnegato, proprio grazie alla poesia.
La ricostruzione autobiografica è solo in piccola parte realistica, e in buona parte attinge all'universo immaginifico e psicologico dell'autore, universo popolato di nani, ballerine, clown, e caratterizzato da situazioni e simboli che amplificano a dismisura gli esiti di un percorso psicanalitico.
I due figli di Jodorowsky (che pure compare in prima persona in alcuni momenti del film), Brontis e Adan, interpretano il padre nella fase dell'adolescenza e della giovinezza, in un ideale passaggio di consegne generazionale.
Alla fine, nonostante la mia difficoltà a entrare in sintonia emotiva con le modalità espressive della cultura sudamericana, di cui senza dubbio Jodorowsky è espressione, il film mi affascina e mi conquista, anche grazie alla filosofia di fondo che lo anima e che è riassunta in una frase in cui mi riconosco molto: "La vita non ha nessun senso. Dunque vivila!".
Voto: 3/5
lunedì 22 gennaio 2018
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Come ci comunica già il titolo del film, siamo a Ebbing in Missouri, un paesino piccolissimo nel cuore degli Stati Uniti, immerso in una natura maestosa fatta di montagne, foreste e corsi d’acqua, ma umanamente e socialmente desolato. Siamo infatti nella più profonda provincia americana, dove la gente sa tutto di tutti (Floridi direbbe che non esiste “frizione informazionale”) e i rapporti umani sono condizionati da frustrazioni individuali, pregiudizi, grettezza mentale e l’abitudine inveterata a rispondere alla violenza con la violenza. In questo paesino, in cui la vita trascorre incolore tra famiglia, lavoro e i pub dove si beve birra e si gioca a biliardo, è avvenuto un orribile delitto: una ragazzina è stata stuprata e uccisa.
Sua madre, Mildred (Frances McDormand), non si dà pace e convive con un senso di colpa inestinguibile. Il silenzio delle indagini la convince ad affittare lo spazio pubblicitario sui tre vetusti cartelloni che campeggiano sulla strada dove è avvenuto l’omicidio per denunciare l’inattività della polizia locale, capeggiata dallo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), un uomo buono e stimato che sa che gli resta poco da vivere.
Da questa premessa si innesca una catena di eventi che - come in un domino - muove le fila delle vicende della cittadina e dei destini individuali, rivelando strati di umanità nascosti tra le pieghe di una società a suo modo tribale.
La cosa veramente interessante di questo film sta nel suo impianto. Come è stato già detto da molti, il regista Martin McDonagh non punta propriamente a una rappresentazione realistica, bensì costruisce la vicenda come una specie di tragedia classica, in cui i personaggi sono per certi versi stereotipati e/o estremizzati, mentre per altri sono profondamente umani e riconoscibili.
La moltiplicazione e la mescolanza dei registri sono lo strumento primario che il regista (che è anche lo sceneggiatore del film) utilizza per ottenere il risultato di un film spiazzante che risucchia emotivamente lo spettatore, ma al contempo lo allontana per effetto della risata amara che gli induce ovvero della presenza di personaggi al limite del grottesco. Alla tragedia dunque si mescola la commedia nera, che a più riprese fa capolino o addirittura prende la scena grazie a inserti ironici che allentano la tensione ma al contempo destabilizzano.
Il risultato è un film che si muove tra generi cinematografici diversi e che spazia attraverso stili comunicativi che vanno dalla tragedia greca a Shakespeare (non a caso citato), da Oscar Wilde (citato anche lui in un momento cruciale del film) ai fratelli Coen, fino a Tarantino e chissà a quanti altri.
Un film che tratta temi forti - il dolore, la colpa, la violenza, la solitudine, la riconciliazione - in modo decisamente non convenzionale e che impedisce allo spettatore di prendere le parti, perché anche i personaggi apparentemente più gretti e laidi sono capaci di gesti ricchi di umanità e anche le reazioni più abiette talvolta ci vedono partecipi in un tifo quasi istintivo.
È un genere di film con cui personalmente faccio fatica a risuonare emotivamente; lì per lì uscendo dal cinema ero infatti abbastanza perplessa. È poi solo grazie a un salto diciamo così “razionale” che riesco a fare mio lo spirito del film ed entrarci in sintonia. Ma questo credo sia un problema tutto mio.
Voto: 3,5/5
Sua madre, Mildred (Frances McDormand), non si dà pace e convive con un senso di colpa inestinguibile. Il silenzio delle indagini la convince ad affittare lo spazio pubblicitario sui tre vetusti cartelloni che campeggiano sulla strada dove è avvenuto l’omicidio per denunciare l’inattività della polizia locale, capeggiata dallo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), un uomo buono e stimato che sa che gli resta poco da vivere.
Da questa premessa si innesca una catena di eventi che - come in un domino - muove le fila delle vicende della cittadina e dei destini individuali, rivelando strati di umanità nascosti tra le pieghe di una società a suo modo tribale.
La cosa veramente interessante di questo film sta nel suo impianto. Come è stato già detto da molti, il regista Martin McDonagh non punta propriamente a una rappresentazione realistica, bensì costruisce la vicenda come una specie di tragedia classica, in cui i personaggi sono per certi versi stereotipati e/o estremizzati, mentre per altri sono profondamente umani e riconoscibili.
La moltiplicazione e la mescolanza dei registri sono lo strumento primario che il regista (che è anche lo sceneggiatore del film) utilizza per ottenere il risultato di un film spiazzante che risucchia emotivamente lo spettatore, ma al contempo lo allontana per effetto della risata amara che gli induce ovvero della presenza di personaggi al limite del grottesco. Alla tragedia dunque si mescola la commedia nera, che a più riprese fa capolino o addirittura prende la scena grazie a inserti ironici che allentano la tensione ma al contempo destabilizzano.
Il risultato è un film che si muove tra generi cinematografici diversi e che spazia attraverso stili comunicativi che vanno dalla tragedia greca a Shakespeare (non a caso citato), da Oscar Wilde (citato anche lui in un momento cruciale del film) ai fratelli Coen, fino a Tarantino e chissà a quanti altri.
Un film che tratta temi forti - il dolore, la colpa, la violenza, la solitudine, la riconciliazione - in modo decisamente non convenzionale e che impedisce allo spettatore di prendere le parti, perché anche i personaggi apparentemente più gretti e laidi sono capaci di gesti ricchi di umanità e anche le reazioni più abiette talvolta ci vedono partecipi in un tifo quasi istintivo.
È un genere di film con cui personalmente faccio fatica a risuonare emotivamente; lì per lì uscendo dal cinema ero infatti abbastanza perplessa. È poi solo grazie a un salto diciamo così “razionale” che riesco a fare mio lo spirito del film ed entrarci in sintonia. Ma questo credo sia un problema tutto mio.
Voto: 3,5/5
sabato 20 gennaio 2018
Picasso. Tra cubismo e classicismo 1915-1925. Scuderie del Quirinale, 6 gennaio 2018
Per finire le vacanze di Natale in bellezza accetto l’invito di M. ad andare a vedere la mostra su Picasso alle Scuderie del Quirinale. M. suggerisce di andare nell’orario in cui è prevista la visita guidata per poter apprezzare meglio l’esposizione, e direi che non sbaglia. Anzi, al termine della visita non smetterò di ringraziarla di avermi convinta a seguirla in questa scelta.
Una mostra che probabilmente se avessi visto in autonomia (persino con l’audioguida!) avrei trovato interessante ma tutto sommato priva di un vero appeal diventa invece un appassionante viaggio in un periodo cruciale di una vita e di una carriera, quelle di Pablo Picasso, che – come dice la nostra guida – sono state talmente lunghe che sarebbe impossibile riassumerle in una mostra.
In questo caso, dunque, in concomitanza con il centenario del viaggio in Italia di Picasso (le cui celebrazioni si sono aperte con una mostra a Napoli), la mostra delle Scuderie del Quirinale si concentra su una decina d’anni dell’esperienza artistica di Picasso, quelli immediatamente prima del viaggio fino a quelli immediatamente dopo. Intento della mostra è quello di testimoniare l’impatto che la conoscenza dell’Italia, della sua arte, della sua archeologia, del suo teatro, della sua gente, avrà sull’opera del grande artista e gli consentirà di uscire da un momento di crisi personale e artistica attraverso nuove strade di sperimentazione pittorica e non solo.
Il primo piano della mostra è un percorso attraverso la produzione di questi anni e, in particolare, racconta l’incontro con il classicismo che Picasso assorbe e trasforma in qualcosa di totalmente individuale; le scelte dei quadri in esposizione aiutano però anche a capire la poliedricità dell’artista, spesso associato esclusivamente a un certo tipo di pittura oppure classificato in fasi artistiche rigide che invece – come questo allestimento dimostra – convivono in lui praticamente sempre, nonché le sue ossessioni e i soggetti trasversali a soluzioni pittoriche differenti.
Questo primo piano si conclude con La danse, che – come ci dice la guida – è la sintesi di un percorso che ha fatto un giro largo per approdare, arricchito di tutta l’esperienza di quegli anni, a un cubismo del tutto nuovo e originale. E la cosa entusiasmante è che di fronte al quadro un bambino con l’audioguida si esibisce in una sua personale danza!
Il secondo piano della mostra è dedicato soprattutto al materiale d’archivio, lettere, fotografie e altra documentazione relativa al viaggio in Italia, nonché alla produzione teatrale, quella che lo vede impegnato al seguito dei Ballets Russes di Diaghilev nel disegnare manifesti, scenografie e costumi.
Certamente questo secondo percorso è un po’ più di nicchia, ma non per questo meno interessante nella misura in cui permette di scoprire un Picasso per me – e credo per molti – inedito e del tutto inaspettato.
Una bella sorpresa. E grazie ancora al nostro competente, preparatissimo e simpatico Gabriele.
Voto: 3,5/5
Una mostra che probabilmente se avessi visto in autonomia (persino con l’audioguida!) avrei trovato interessante ma tutto sommato priva di un vero appeal diventa invece un appassionante viaggio in un periodo cruciale di una vita e di una carriera, quelle di Pablo Picasso, che – come dice la nostra guida – sono state talmente lunghe che sarebbe impossibile riassumerle in una mostra.
In questo caso, dunque, in concomitanza con il centenario del viaggio in Italia di Picasso (le cui celebrazioni si sono aperte con una mostra a Napoli), la mostra delle Scuderie del Quirinale si concentra su una decina d’anni dell’esperienza artistica di Picasso, quelli immediatamente prima del viaggio fino a quelli immediatamente dopo. Intento della mostra è quello di testimoniare l’impatto che la conoscenza dell’Italia, della sua arte, della sua archeologia, del suo teatro, della sua gente, avrà sull’opera del grande artista e gli consentirà di uscire da un momento di crisi personale e artistica attraverso nuove strade di sperimentazione pittorica e non solo.
Il primo piano della mostra è un percorso attraverso la produzione di questi anni e, in particolare, racconta l’incontro con il classicismo che Picasso assorbe e trasforma in qualcosa di totalmente individuale; le scelte dei quadri in esposizione aiutano però anche a capire la poliedricità dell’artista, spesso associato esclusivamente a un certo tipo di pittura oppure classificato in fasi artistiche rigide che invece – come questo allestimento dimostra – convivono in lui praticamente sempre, nonché le sue ossessioni e i soggetti trasversali a soluzioni pittoriche differenti.
Questo primo piano si conclude con La danse, che – come ci dice la guida – è la sintesi di un percorso che ha fatto un giro largo per approdare, arricchito di tutta l’esperienza di quegli anni, a un cubismo del tutto nuovo e originale. E la cosa entusiasmante è che di fronte al quadro un bambino con l’audioguida si esibisce in una sua personale danza!
Il secondo piano della mostra è dedicato soprattutto al materiale d’archivio, lettere, fotografie e altra documentazione relativa al viaggio in Italia, nonché alla produzione teatrale, quella che lo vede impegnato al seguito dei Ballets Russes di Diaghilev nel disegnare manifesti, scenografie e costumi.
Certamente questo secondo percorso è un po’ più di nicchia, ma non per questo meno interessante nella misura in cui permette di scoprire un Picasso per me – e credo per molti – inedito e del tutto inaspettato.
Una bella sorpresa. E grazie ancora al nostro competente, preparatissimo e simpatico Gabriele.
Voto: 3,5/5
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