Metti un giovedì pomeriggio a teatro. Di corsa fuori dalla biblioteca e scaraventata nella platea del Teatro Argentina a vedere lo spettacolo con la regia di Alessandro Gassmann basato sul testo teatrale omonimo dell'autore Stefano Massini (conosciuto anche per la Lehman Trilogy).
Le mie brevi riflessioni terranno distinte le considerazioni sull'allestimento teatrale da quelli sul testo. Inizierò dall'allestimento: la regia di Alessandro Gassmann è una regia molto cinematografica, com'è chiaro fin da subito nella scelta di utilizzare il telo trasparente calato davanti al palco, che all'occorrenza si trasforma in telo su cui proiettare immagini che si sovrappongono a quanto accade sul palco, oppure si sostituiscono ad esso, e anche per creare effetti di luce particolari. L'uso di questo strumento consente di trasformare il palcoscenico quasi in uno schermo cinematografico e consente curiose forme di montaggio delle scene. Dietro il telo la scenografia riproduce lo spazio con tavolo e armadietti per gli operai di un capannone industriale. In questo scenario si muovono 11 donne, nove operaie e due impiegate, il consiglio di fabbrica chiamato a esprimersi sulla proposta del management dell'azienda di tagliare 7 dei 15 minuti di pausa giornalieri previsti per il personale. Il cast è guidato da Ottavia Piccolo, che interpreta il personaggio di Bianca, la portavoce del consiglio, colei che ha partecipato alla trattativa con i padroni. Intorno donne della più varia provenienza, sociale, geografica e culturale. La Piccolo, brava ma a mio modo di vedere un po' sottotono, è sostenuta da un cast molto efficace e vivace, che crea un affresco abbastanza credibile di una realtà operaia. Anche se va detto che l'impianto registico e le scelte formali - anche molto belle sul piano visivo (talvolta sembra di vedere sul palco veri e propri quadri di Caravaggio in chiave moderna) - a volte ci restituiscono l'immaginario visivo di certe serie TV, come Orange is the new black.
Per quanto riguarda il testo, non vi aspettate contenuti sconvolgenti; l'idea è molto semplice: nel momento in cui si trovano a dover votare per accettare o meno la proposta del management, queste undici donne sono messe di fronte alle contraddizioni della contemporaneità, rispetto alle quali non c'è una posizione giusta o pienamente difendibile. Il testo di Massini è volutamente semplice, quasi didascalico, ma dentro ci sono molte cose importanti: il tema della rappresentanza, il ruolo del sindacato in un mondo globalizzato, il conflitto culturale e generazionale, la dignità del lavoro, il senso della lotta di classe. Alla fine dello spettacolo molte domande resteranno senza risposta e nessuna posizione sarà oggetto di giudizio, però sarà anche chiaro da che parte sta l'Autore. Una posizione forse ormai obsoleta e perdente, ma che è l'unica che attinge ai valori più alti dell'umanità e non solo alla necessità di sopravvivenza. Ed è chiaro che il giudizio negativo non riguarda la scelta spesso necessitata delle operaie, bensì la disumanità e l'iniquità di un sistema che ormai non ha alcun tipo di ostacolo rispetto al dispiegamento delle sue perverse conseguenze.
Voto: 3,5/5
lunedì 29 febbraio 2016
sabato 27 febbraio 2016
Lo chiamavano Jeeg Robot
Cosa accadrebbe se spostassimo un supereroe alla maniera di Ironman, Spiderman, Superman o Batman da Metropolis, Gotham City e qualunque altra variante più o meno fantastica della città di New York nella più dura e squallida periferia romana? Questa è l'idea geniale del soggetto che Nicola Guaglianone ha sviluppato per questo freschissimo (in quanto davvero originale nel nostro panorama cinematografico) film italiano. E lo stesso Guaglianone, insieme a Menotti, ha scritto una frizzante sceneggiatura, orchestrata con grande intelligenza dal registra Gabriele Mainetti alla sua opera prima.
Gli ingredienti classici dei film dei supereroi ci sono tutti: un uomo comune che per un caso più o meno fortuito si trova ad avere una straordinaria forza e grandi poteri, una storia d'amore con una fanciulla fragile che è però determinante perché l'eroe prenda consapevolezza del suo ruolo, un cattivo egocentrico e folle che finirà per combattere ad armi pari con il supereroe.
Tutto questo però viene calato nella più becera romanità: il film è ambientato tra Tor Bella Monaca e lo Stadio Olimpico (passando per centri commerciali, spazi abbandonati, palazzoni e autobus di periferia). Il risultato - vi assicuro - è quasi surreale, e gli stessi autori lo maneggiamo con quel disincanto, quell'ironia, ma - devo dire - anche quell'affetto che rendono questo progetto vincente.
Il nostro supereroe è Enzo Ceccotti (un Claudio Santamaria bravo sebbene con l'aria un po' troppo da cane bastonato), un piccolo delinquente di periferia, che vive di furti ed espedienti, e poi torna nella sua squallidissima casa in un palazzone di Tor Bella Monaca, dove passa il tempo mangiando budini alla vaniglia e guardando film porno. Un giorno - fuggendo dai poliziotti - cade nel Tevere e finisce in un bidone di scorie radioattive: il giorno dopo si accorgerà di aver acquisito una forza sovrumana. Da qui in poi assistiamo al percorso umano di questo eroe coatto che prima utilizza i suoi poteri per delinquere (scardina un intero bancomat, diventanto il mito della periferia romana); poi si trova suo malgrado a doversi occupare di Alessia (una notevolissima Ilenia Pastorelli, che però un po' ricorda Micaela Ramazzotti), la figlia del suo vicino di casa morto ammazzato, una ragazza fragile e un po' fuori di zucca, che è appassionata di Jeeg Robot (cosicché identifica Enzo con Iroshi Sheba); infine decide di usare la sua forza contro il cattivo di turno, lo Zingaro (un sempre strepitoso Luca Marinelli), un delinquente elegante, malato di protagonismo, nostalgico della sua partecipazione a Buona domenica, che è una via di mezzo tra la follia di Joker e quella del Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti.
Nel suo insieme, è evidente che si tratta di un film a basso costo (gli effetti speciali sono quasi homemade), ma il regista fa di questo un punto di forza, trasformando la patina glamour dei supereroi Marvel nell'universo sgarrupato di Enzo Ceccotti. E questo gioco è talmente coinvolgente per lo spettatore che, durante la visione, si ride moltissimo (e non mi capitava da tanto che la gente alla fine del film applaudisse allo schermo inanimato, in cui i titoli di coda scorrono sulle note di una slowed cover della sigla del cartone giapponese Jeeg Robot). Però nel film c'è anche sentimento e romanticismo, com'è giusto che sia, e io - cuore tenero (talvolta!) - qualche lacrimuccia l'ho pure versata.
Insomma, capisco che ora tutti gli snob di casa nostra (non sopportando tutti questi feedback positivi che leggo un po' ovunque) cominceranno a distruggere e a sminuire le qualità di questo film, ma io sono contenta di poter dire che Mainetti ha colto nel segno e che bisogna sempre salutare con favore qualcosa di nuovo (sebbene con questa patina localistica molto forte) nel nostro panorama cinematografico.
Voto: 3,5/5
Gli ingredienti classici dei film dei supereroi ci sono tutti: un uomo comune che per un caso più o meno fortuito si trova ad avere una straordinaria forza e grandi poteri, una storia d'amore con una fanciulla fragile che è però determinante perché l'eroe prenda consapevolezza del suo ruolo, un cattivo egocentrico e folle che finirà per combattere ad armi pari con il supereroe.
Tutto questo però viene calato nella più becera romanità: il film è ambientato tra Tor Bella Monaca e lo Stadio Olimpico (passando per centri commerciali, spazi abbandonati, palazzoni e autobus di periferia). Il risultato - vi assicuro - è quasi surreale, e gli stessi autori lo maneggiamo con quel disincanto, quell'ironia, ma - devo dire - anche quell'affetto che rendono questo progetto vincente.
Il nostro supereroe è Enzo Ceccotti (un Claudio Santamaria bravo sebbene con l'aria un po' troppo da cane bastonato), un piccolo delinquente di periferia, che vive di furti ed espedienti, e poi torna nella sua squallidissima casa in un palazzone di Tor Bella Monaca, dove passa il tempo mangiando budini alla vaniglia e guardando film porno. Un giorno - fuggendo dai poliziotti - cade nel Tevere e finisce in un bidone di scorie radioattive: il giorno dopo si accorgerà di aver acquisito una forza sovrumana. Da qui in poi assistiamo al percorso umano di questo eroe coatto che prima utilizza i suoi poteri per delinquere (scardina un intero bancomat, diventanto il mito della periferia romana); poi si trova suo malgrado a doversi occupare di Alessia (una notevolissima Ilenia Pastorelli, che però un po' ricorda Micaela Ramazzotti), la figlia del suo vicino di casa morto ammazzato, una ragazza fragile e un po' fuori di zucca, che è appassionata di Jeeg Robot (cosicché identifica Enzo con Iroshi Sheba); infine decide di usare la sua forza contro il cattivo di turno, lo Zingaro (un sempre strepitoso Luca Marinelli), un delinquente elegante, malato di protagonismo, nostalgico della sua partecipazione a Buona domenica, che è una via di mezzo tra la follia di Joker e quella del Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti.
Nel suo insieme, è evidente che si tratta di un film a basso costo (gli effetti speciali sono quasi homemade), ma il regista fa di questo un punto di forza, trasformando la patina glamour dei supereroi Marvel nell'universo sgarrupato di Enzo Ceccotti. E questo gioco è talmente coinvolgente per lo spettatore che, durante la visione, si ride moltissimo (e non mi capitava da tanto che la gente alla fine del film applaudisse allo schermo inanimato, in cui i titoli di coda scorrono sulle note di una slowed cover della sigla del cartone giapponese Jeeg Robot). Però nel film c'è anche sentimento e romanticismo, com'è giusto che sia, e io - cuore tenero (talvolta!) - qualche lacrimuccia l'ho pure versata.
Insomma, capisco che ora tutti gli snob di casa nostra (non sopportando tutti questi feedback positivi che leggo un po' ovunque) cominceranno a distruggere e a sminuire le qualità di questo film, ma io sono contenta di poter dire che Mainetti ha colto nel segno e che bisogna sempre salutare con favore qualcosa di nuovo (sebbene con questa patina localistica molto forte) nel nostro panorama cinematografico.
Voto: 3,5/5
giovedì 25 febbraio 2016
The tallest man on earth. Quirinetta, 13 febbraio 2016
Kristian Matsson è The tallest man on earth, anche se proprio così alto non è, come lui stesso ci dice dal palco. In fondo il nome che questo musicista svedese si è scelto per la sua avventura musicale è in qualche modo la sintesi del suo personaggio: infatti, che un ragazzo bassino e magrolino (per quanto dotato di una carica straordinaria) scelga di presentarsi al mondo come “l’uomo più alto della terra” non è una scelta ironica, è un’aspirazione che deriva da una profonda ambizione e da una tendenza fondamentalmente egocentrica.
E il concerto del 13 febbraio lo dimostra.
Arrivo al Quirinetta con grande anticipo, perché l’evento è andato sold out e mi aspetto una gran folla. Ho, come al solito, al seguito la mia macchina fotografica e arrivo in una sala concerti che ha un aspetto molto diverso dall’ultima volta, ossia dal concerto di Rachel Sermanni. Tutte le sedie sono state tolte e alle pareti sono comparse delle scritte molto modaiole. Anche il bar in fondo alla sala mi sembra non avere più quell’aria vintage che mi aveva tanto affascinato, bensì sembra un qualunque bancone di un bar alla moda.
Il Quirinetta è ospitato in un palazzo dallo stile liberty, cosicché l’atmosfera da cafè chantant così percepibile nell’allestimento iniziale della sala era perfettamente in armonia con il luogo. Perciò, questa volta mi sembra di entrare in un luogo che ha perso – magari momentaneamente – la sua identità.
Mi posiziono quasi in prima fila, separata dal palco da un cordone che lascia davanti lo spazio per i fotografi. Niente di nuovo, mi dico. I fotografi accreditati cominciano ad arrivare numerosi – evidentemente l’attesa per The tallest man on earth è tanta – e nel frattempo sale sul palco un altro cantante svedese, Markus Svensson, che curerà - con il suo songwriting - l’apertura del concerto. Questo ragazzo biondo con i capelli lunghi e il cappello a tesa larga cerca di conquistare l’attenzione del pubblico che nel frattempo sta riempiendo la sala, e direi che parzialmente ci riesce. Io tiro fuori la mia macchina fotografica e nonostante la muraglia umana dei fotografi accreditati provo a fare qualche fotografia; ma immediatamente il personale di sicurezza mi comunica che non si possono scattare foto con le macchine fotografiche, ma solo con i cellulari. Inizialmente penso che sia una presunta questione di qualità dell’immagine e così – infastidita – faccio chiamare il responsabile, che poi è un ragazzetto più giovane di me, che mi dice che è una richiesta del cantante. La cosa non mi è nuova, mi era capitata anche a un concerto di Mark Kozelek e recentemente a quello dei Kings of Convenience. In entrambi questi casi però non c’erano i fotografi ufficiali e soprattutto il tipo di concerto – fortemente intimista e acustico – poteva giustificare la scelta; per di più nel caso dei KoC, la gestione della cosa era diventata da parte dei cantanti un’occasione di gioco con il pubblico e la loro maniera di chiedere qualche pausa nelle fotografie era stata così delicata e affettuosa che lo avevamo fatto tutti con piacere.
In questo caso, invece, accade che arriva sul palco The tallest man on earth, e per le prime tre canzoni la muraglia umana dei fotografi accreditati scatta senza tregua, poi vengono tutti mandati via, e lo stesso cantante chiede al personale di non far fotografare chi ha una macchina fotografica, mentre i cellulari sono ammessi.
Il concerto tra l’altro non è certo intimista: a parte qualche canzone in cui Kristian si esibisce sul palco da solo con la sua chitarra, per il resto la scaletta prevede una serie di canzoni che consentono al pubblico di scaldarsi, cantando e battendo le mani, e a Kristian di scatenarsi sul palco, con i suoi balletti e contorsionismi con la chitarra, nonché con il suo atteggiamento seduttivo verso il pubblico, che via via prende però una dimensione quasi sadomaso. The tallest man on earth ringrazia spesso per l’ascolto, ma più volte chiede il silenzio, non sembra gradire il fatto che il pubblico canti con lui e talvolta dà chiari segnali di non volere i battiti di mano ritmati del pubblico, cosicché anche nel pubblico c’è chi cerca di accondiscendere e chi si infastidisce un po’.
Dello stesso genere è il rapporto di Kristian con la sua band (Mike Noyce alla chitarra e violino, Matthew Ryan al basso, Zach Hanson alla batteria, e Ben Lester alle tastiere e sintetizzatore). I quattro – bravissimi – restano sempre sullo sfondo, quasi in ombra, quasi impauriti di rubare la scena all’istrionico Kristian che si comporta da vera prima donna.
The tallest man on earth è certamente uno straordinario animale da palcoscenico e il suo sguardo tra il seduttivo e l’invasato - con cui fissa negli occhi il pubblico - lo dimostra; certamente è uno di quei cantanti che dal vivo danno il loro meglio e che tirano fuori dalla loro musica ciò che nell’ascolto registrato non sempre emerge. Capisco così anche perché ha così tanto seguito e sono impressionata dal fatto che il pubblico in sala lo conosce al punto non solo di poter cantare insieme a lui quasi tutte le canzoni, ma anche di poter contestare la scaletta.
A me personalmente però – pur apprezzando l’esibizione e le qualità del cantante e del musicista – il tutto rimane un po’ estraneo, e la poca simpatia che mi suscita il personaggio mi impedisce di entrarci in sintonia, cosicché anche le sue canzoni – in questa versione live rispetto a quanto avevo ascoltato – mi paiono strizzare troppo l’occhiolino al pop più facile e orecchiabile e perdono un po’ di quella “scontrosità” che invece emerge nel registrato.
Voto: 3/5
E il concerto del 13 febbraio lo dimostra.
Arrivo al Quirinetta con grande anticipo, perché l’evento è andato sold out e mi aspetto una gran folla. Ho, come al solito, al seguito la mia macchina fotografica e arrivo in una sala concerti che ha un aspetto molto diverso dall’ultima volta, ossia dal concerto di Rachel Sermanni. Tutte le sedie sono state tolte e alle pareti sono comparse delle scritte molto modaiole. Anche il bar in fondo alla sala mi sembra non avere più quell’aria vintage che mi aveva tanto affascinato, bensì sembra un qualunque bancone di un bar alla moda.
Il Quirinetta è ospitato in un palazzo dallo stile liberty, cosicché l’atmosfera da cafè chantant così percepibile nell’allestimento iniziale della sala era perfettamente in armonia con il luogo. Perciò, questa volta mi sembra di entrare in un luogo che ha perso – magari momentaneamente – la sua identità.
Mi posiziono quasi in prima fila, separata dal palco da un cordone che lascia davanti lo spazio per i fotografi. Niente di nuovo, mi dico. I fotografi accreditati cominciano ad arrivare numerosi – evidentemente l’attesa per The tallest man on earth è tanta – e nel frattempo sale sul palco un altro cantante svedese, Markus Svensson, che curerà - con il suo songwriting - l’apertura del concerto. Questo ragazzo biondo con i capelli lunghi e il cappello a tesa larga cerca di conquistare l’attenzione del pubblico che nel frattempo sta riempiendo la sala, e direi che parzialmente ci riesce. Io tiro fuori la mia macchina fotografica e nonostante la muraglia umana dei fotografi accreditati provo a fare qualche fotografia; ma immediatamente il personale di sicurezza mi comunica che non si possono scattare foto con le macchine fotografiche, ma solo con i cellulari. Inizialmente penso che sia una presunta questione di qualità dell’immagine e così – infastidita – faccio chiamare il responsabile, che poi è un ragazzetto più giovane di me, che mi dice che è una richiesta del cantante. La cosa non mi è nuova, mi era capitata anche a un concerto di Mark Kozelek e recentemente a quello dei Kings of Convenience. In entrambi questi casi però non c’erano i fotografi ufficiali e soprattutto il tipo di concerto – fortemente intimista e acustico – poteva giustificare la scelta; per di più nel caso dei KoC, la gestione della cosa era diventata da parte dei cantanti un’occasione di gioco con il pubblico e la loro maniera di chiedere qualche pausa nelle fotografie era stata così delicata e affettuosa che lo avevamo fatto tutti con piacere.
In questo caso, invece, accade che arriva sul palco The tallest man on earth, e per le prime tre canzoni la muraglia umana dei fotografi accreditati scatta senza tregua, poi vengono tutti mandati via, e lo stesso cantante chiede al personale di non far fotografare chi ha una macchina fotografica, mentre i cellulari sono ammessi.
Il concerto tra l’altro non è certo intimista: a parte qualche canzone in cui Kristian si esibisce sul palco da solo con la sua chitarra, per il resto la scaletta prevede una serie di canzoni che consentono al pubblico di scaldarsi, cantando e battendo le mani, e a Kristian di scatenarsi sul palco, con i suoi balletti e contorsionismi con la chitarra, nonché con il suo atteggiamento seduttivo verso il pubblico, che via via prende però una dimensione quasi sadomaso. The tallest man on earth ringrazia spesso per l’ascolto, ma più volte chiede il silenzio, non sembra gradire il fatto che il pubblico canti con lui e talvolta dà chiari segnali di non volere i battiti di mano ritmati del pubblico, cosicché anche nel pubblico c’è chi cerca di accondiscendere e chi si infastidisce un po’.
Dello stesso genere è il rapporto di Kristian con la sua band (Mike Noyce alla chitarra e violino, Matthew Ryan al basso, Zach Hanson alla batteria, e Ben Lester alle tastiere e sintetizzatore). I quattro – bravissimi – restano sempre sullo sfondo, quasi in ombra, quasi impauriti di rubare la scena all’istrionico Kristian che si comporta da vera prima donna.
The tallest man on earth è certamente uno straordinario animale da palcoscenico e il suo sguardo tra il seduttivo e l’invasato - con cui fissa negli occhi il pubblico - lo dimostra; certamente è uno di quei cantanti che dal vivo danno il loro meglio e che tirano fuori dalla loro musica ciò che nell’ascolto registrato non sempre emerge. Capisco così anche perché ha così tanto seguito e sono impressionata dal fatto che il pubblico in sala lo conosce al punto non solo di poter cantare insieme a lui quasi tutte le canzoni, ma anche di poter contestare la scaletta.
A me personalmente però – pur apprezzando l’esibizione e le qualità del cantante e del musicista – il tutto rimane un po’ estraneo, e la poca simpatia che mi suscita il personaggio mi impedisce di entrarci in sintonia, cosicché anche le sue canzoni – in questa versione live rispetto a quanto avevo ascoltato – mi paiono strizzare troppo l’occhiolino al pop più facile e orecchiabile e perdono un po’ di quella “scontrosità” che invece emerge nel registrato.
Voto: 3/5
lunedì 22 febbraio 2016
Cenerentola / Gioacchino Rossini. Teatro dell’Opera, 12 febbraio 2016
Il nome di Emma Dante alla regia di questa versione della Cenerentola mi convince a fare il secondo tentativo all’opera (dopo un classicone come la Tosca). In realtà arrivo a teatro senza sapere praticamente nulla di questa Cenerentola e la foga dell’ultim’ora mi catapulta nel mio palchetto laterale sinistro, senza aver avuto nemmeno il tempo di leggere la locandina. Durante il primo atto riconosco alcune sonorità e abitudini musicali di Rossini, ma non sono mica sicura che sia veramente così, considerata la mia scarsissima conoscenza di questo mondo; dunque, all’intervallo, chiedo conferma alle mie amiche (che sono in un altro palchetto).
Alla fine, però, questa mia insistita e profonda ignoranza, cui nemmeno ho cercato di porre rimedio prima di andare a teatro, è forse il motivo per cui mi lascio andare alla musica e mi godo lo spettacolo.
La Cenerentola musicata da Rossini è un’opera buffa il cui libretto è stato adattato in italiano da Jacopo Ferretti; il divertimento, la giocosità, i personaggi bizzarri, il tono favolistico, il lieto fine sono caratteristiche proprie di questo tipo di opera e certamente contribuiscono a rendere lo spettacolo più fruibile e godibile da parte del pubblico.
All’interno di questo universo espressivo, l’allestimento e la lettura dell’opera da parte di Emma Dante introducono elementi di modernità e di originalità che trasformano lo spettacolo quasi in un burlesque, non nel senso dello spettacolo lascivo che è diventato, bensì nel senso della commistione tra canti e danze, per i costumi (bellissimi: complimenti a Vanessa Sannino), per il carattere quasi parodistico di alcuni passaggi e personaggi. Emma Dante, nella bella intervista contenuta nel programma dell’opera (e che anche questa volta non manco di acquistare, anche in onore al mio amico E.), dice di essersi ispirata alla corrente del pop surrealism, che sinceramente non conoscevo e su cui mi sono andata a documentare.
La Cenerentola raccontata dalla regia di Emma Dante è una donna maltrattata e vessata dalla sua stessa famiglia (la scena del temporale è particolarmente forte): il padre e le due sorellastre, personaggi meschini e ignoranti, ma molto divertenti, magnificamente interpretati, e a cui va in buona parte ascritto il merito della gradevolezza di quest’opera.
Intorno ai personaggi principali (la stessa Cenerentola, il padre Don Magnifico, le sorellastre, il principe Don Ramiro, Dandini e Alidoro), si muove una schiera di personaggi il cui impatto visivo ed emotivo è particolarmente significativo. Si tratta da un lato delle serve che insieme a Cenerentola si occupano del palazzo di don Magnifico, dall’altro degli scudieri di Don Ramiro: tutti personaggi non solo con costumi buffi (quasi tutti virati sui colori dell’azzurro, del rosso e del bianco), ma con una carica a molla applicata sulla schiena (come in un carillon). Personaggi quindi quasi meccanici, non dotati di volontà propria e soprattutto di propria iniziativa, visto che per agire hanno bisogno che qualcuno gli dia la carica. Questi due gruppi di personaggi si mescolano poi a formare la schiera delle pretendenti del principe alla festa di palazzo, e uomini e donne - vestiti da spose - sfidano la concorrenza di Cenerentola uscendone delusi e sconfitti. Poi di nuovo si trasformano in serve e scudieri, questa volta a formare coppie che replicano all’infinito l’amore di Cenerentola e del suo principe.
Il tutto all’interno di una scenografia essenziale, che vede sullo sfondo la facciata di un grande palazzo (quello di Don Magnifico prima e quello di Don Ramiro poi), davanti al quale il cambiamento di ambientazione viene rappresentato utilizzando dei separé variamente arredati che isolano i personaggi dal contesto.
Il primo atto è un tripudio visivo e sonoro e, grazie anche all’effetto sorpresa delle scelte coraggiose di Emma Dante, mi conquista totalmente. Il secondo atto si fa più melodrammatico, lì dove i due personaggi principali convolano a nozze e il bene non solo trionfa sul male, ma scioglie il conflitto nel perdono. La regista, però, non si fa sfuggire l’occasione di trasformare questo finale un po’ troppo buonista in una lezione almeno parzialmente punitiva per i maltrattatori. Personalmente il secondo atto – pure molto più breve del primo – mi è risultato meno entusiasmante, dal che ho capito che forse l’opera buffa è più nelle mie corde, anche se mi riservo una valutazione dopo aver fatto ulteriori esperienze di questo mondo per me così nuovo.
(E il voto finale è – come sempre e ancor più – un voto alla mia esperienza soggettiva, più che al valore dello spettacolo, che con buona probabilità non sono in grado di giudicare).
Voto: 4/5
Alla fine, però, questa mia insistita e profonda ignoranza, cui nemmeno ho cercato di porre rimedio prima di andare a teatro, è forse il motivo per cui mi lascio andare alla musica e mi godo lo spettacolo.
La Cenerentola musicata da Rossini è un’opera buffa il cui libretto è stato adattato in italiano da Jacopo Ferretti; il divertimento, la giocosità, i personaggi bizzarri, il tono favolistico, il lieto fine sono caratteristiche proprie di questo tipo di opera e certamente contribuiscono a rendere lo spettacolo più fruibile e godibile da parte del pubblico.
All’interno di questo universo espressivo, l’allestimento e la lettura dell’opera da parte di Emma Dante introducono elementi di modernità e di originalità che trasformano lo spettacolo quasi in un burlesque, non nel senso dello spettacolo lascivo che è diventato, bensì nel senso della commistione tra canti e danze, per i costumi (bellissimi: complimenti a Vanessa Sannino), per il carattere quasi parodistico di alcuni passaggi e personaggi. Emma Dante, nella bella intervista contenuta nel programma dell’opera (e che anche questa volta non manco di acquistare, anche in onore al mio amico E.), dice di essersi ispirata alla corrente del pop surrealism, che sinceramente non conoscevo e su cui mi sono andata a documentare.
La Cenerentola raccontata dalla regia di Emma Dante è una donna maltrattata e vessata dalla sua stessa famiglia (la scena del temporale è particolarmente forte): il padre e le due sorellastre, personaggi meschini e ignoranti, ma molto divertenti, magnificamente interpretati, e a cui va in buona parte ascritto il merito della gradevolezza di quest’opera.
Intorno ai personaggi principali (la stessa Cenerentola, il padre Don Magnifico, le sorellastre, il principe Don Ramiro, Dandini e Alidoro), si muove una schiera di personaggi il cui impatto visivo ed emotivo è particolarmente significativo. Si tratta da un lato delle serve che insieme a Cenerentola si occupano del palazzo di don Magnifico, dall’altro degli scudieri di Don Ramiro: tutti personaggi non solo con costumi buffi (quasi tutti virati sui colori dell’azzurro, del rosso e del bianco), ma con una carica a molla applicata sulla schiena (come in un carillon). Personaggi quindi quasi meccanici, non dotati di volontà propria e soprattutto di propria iniziativa, visto che per agire hanno bisogno che qualcuno gli dia la carica. Questi due gruppi di personaggi si mescolano poi a formare la schiera delle pretendenti del principe alla festa di palazzo, e uomini e donne - vestiti da spose - sfidano la concorrenza di Cenerentola uscendone delusi e sconfitti. Poi di nuovo si trasformano in serve e scudieri, questa volta a formare coppie che replicano all’infinito l’amore di Cenerentola e del suo principe.
Il tutto all’interno di una scenografia essenziale, che vede sullo sfondo la facciata di un grande palazzo (quello di Don Magnifico prima e quello di Don Ramiro poi), davanti al quale il cambiamento di ambientazione viene rappresentato utilizzando dei separé variamente arredati che isolano i personaggi dal contesto.
Il primo atto è un tripudio visivo e sonoro e, grazie anche all’effetto sorpresa delle scelte coraggiose di Emma Dante, mi conquista totalmente. Il secondo atto si fa più melodrammatico, lì dove i due personaggi principali convolano a nozze e il bene non solo trionfa sul male, ma scioglie il conflitto nel perdono. La regista, però, non si fa sfuggire l’occasione di trasformare questo finale un po’ troppo buonista in una lezione almeno parzialmente punitiva per i maltrattatori. Personalmente il secondo atto – pure molto più breve del primo – mi è risultato meno entusiasmante, dal che ho capito che forse l’opera buffa è più nelle mie corde, anche se mi riservo una valutazione dopo aver fatto ulteriori esperienze di questo mondo per me così nuovo.
(E il voto finale è – come sempre e ancor più – un voto alla mia esperienza soggettiva, più che al valore dello spettacolo, che con buona probabilità non sono in grado di giudicare).
Voto: 4/5
giovedì 18 febbraio 2016
Perfetti sconosciuti
Il film di Paolo Genovese (anche sceneggiatore insieme a Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello) secondo me è perfettamente racchiuso in una delle tante risposte spiazzanti e anticonformiste che Dan Savage (la cui corrispondenza viene pubblicata sulla rubrica Savage Love de L’Internazionale) dà a uno dei suoi lettori: «Se una persona è in cerca di scuse per uscire da un matrimonio di merda pieno di conflitti — perché il divorzio consensuale non gli basta — allora ok, magari cercare il nome del marito o della moglie può servirle [parla del sito di incontri hackerato Ashley Madison]. Ma chi ha un matrimonio in cui ci si ama, che funziona, senza troppi conflitti e più o meno felice è meglio che ci pensi due volte.»
In Perfetti sconosciuti quattro amici che si conoscono da una vita, si incontrano per una cena (tre di loro con le rispettive mogli e un single) e decidono di "non pensarci due volte", facendo un gioco molto pericoloso: mettere al centro del tavolo i telefoni di tutti e rendere pubblici qualunque telefonata o messaggio arrivi.
Da qui inizia un vero e proprio gioco al massacro, in cui si ride moltissimo, ma si assiste anche a una escalation emotiva che mette ognuno di loro di fronte a verità – più o meno imbarazzanti, più o meno inconfessabili, più o meno moralmente inaccettabili – che rimangono sepolte anche nei matrimoni, nell’amore, nelle amicizie di lunga data.
Inizio dalle cose che non mi sono piaciute nel film di Genovese: non mi è piaciuto l’ormai abusato espediente – onnipresente nella commedia italiana di questi ultimi anni - della cena tra amici che si trasforma in una piccola carneficina (vedi Dobbiamo parlare, I nostri ragazzi, Il nome del figlio ecc.), non il sovraccarico di “colpi di scena” che crea un effetto talmente pieno da risultare in parte poco realistico, non la necessità di un personaggio (quello di Rocco) che – per equilibrio e consapevolezza di sé – finisce per fare troppo contrasto con gli altri, infine non l’escamotage finale che sembra volerci pacificare e inquietare al contempo.
Però, Perfetti sconosciuti è un film che mette sul tavolo non soltanto gli smartphone dei suoi protagonisti, bensì diverse questioni centrali delle dinamiche relazionali. E il punto non è il telefonino, in quanto strumento infernale in cui sono nascosti tutti i nostri segreti, il punto non è nemmeno la “liquidità” delle relazioni nella nostra società: dal mio punto di vista, il tema centrale è l’ipocrisia di ciascuno di noi nel pensare che l’amore e l’amicizia significhino sincerità totale, sincerità che pensiamo ci sia dovuta da chi ci sta accanto ma che sappiamo benissimo di non poter garantire in prima persona a nessuno. Il corollario di questo tema è il condizionamento morale e sociale per cui un rapporto non è vero se non si basa su questa sincerità assoluta, che dunque pretendiamo più o meno tutti, anche se sappiamo benissimo – per esperienza personale – che non possiamooffrirla, e che non è neanche giusta per nessuno.
Centinaia di anni di romanticismo spalmato su amore e amicizia ci hanno totalmente disabituato da un lato al fatto che una relazione è una negoziazione e che negoziare i termini del proprio rapporto con la persona che si ama o che si vuol bene non è prosaico né disdicevole, bensì è un difficile passo da compiere nella verifica della tenuta di un rapporto, dall’altro al fatto che fiducia e fedeltà non sono necessariamente antinomici rispetto a bugia e tradimento.
Quando il personaggio di Carlotta dice che nella vita bisogna imparare a lasciarsi secondo me sta dicendo una grandissima verità il cui naturale complemento dal mio punto di vista è che bisogna imparare a stare insieme, il che forse vuol dire che ognuno di noi dovrebbe provare a capire (e non dico che sia facile) qual è la soglia di benessere o di malessere che ci spinge a continuare una relazione o ci dovrebbe convincere a chiuderla. E questa soglia non ha certamente a che vedere con il dominio e il controllo del mondo segreto che ognuno si porta dentro e con la condivisione obbligatoria di ogni frammento della propria vita con l’altra persona, ma con il tasso di serenità, affetto, benessere che riusciamo a vivere dentro quel rapporto e con la negoziazione sulla quantità di verità che si vuole condividere, e che certamente cambia da rapporto a rapporto.
Peppe (Giuseppe Battiston), Rocco (Marco Giallini), Eva (Kasia Smutniak), Lele (Valerio Mastandrea), Carlotta (Anna Foglietta), Cosimo (Edoardo Leo) e Bianca (Alba Rohrwacher) sono lo specchio di ciascuno di noi, ingenui, bugiardi, frustrati, meschini, scontenti, ma incredibilmente veri, umani, quasi adorabili, nel loro essere sempre convinti che i nostri piccoli/grandi segreti siano sempre più giustificabili di quelli di chi ci sta accanto. Ma alla fine – come dice Rocco – siamo tutti frangibili, e per questo è giusto che in qualunque relazione – come avviene per i porcospini – si trovi la giusta distanza e la si rinegozi giorno per giorno fino a quando si ha ancora la voglia di cercare il calore della vicinanza dell’altro.
Il film di Genovese non sceglie la comoda strada del moralismo o della semplificazione, e sposa appieno il principio che non esiste alcuna risposta facile, lasciando allo spettatore l’occasione di vivere il gioco sulla propria pelle e al contempo l’opportunità di assistervi dall’esterno.
Voto: 3,5/5
In Perfetti sconosciuti quattro amici che si conoscono da una vita, si incontrano per una cena (tre di loro con le rispettive mogli e un single) e decidono di "non pensarci due volte", facendo un gioco molto pericoloso: mettere al centro del tavolo i telefoni di tutti e rendere pubblici qualunque telefonata o messaggio arrivi.
Da qui inizia un vero e proprio gioco al massacro, in cui si ride moltissimo, ma si assiste anche a una escalation emotiva che mette ognuno di loro di fronte a verità – più o meno imbarazzanti, più o meno inconfessabili, più o meno moralmente inaccettabili – che rimangono sepolte anche nei matrimoni, nell’amore, nelle amicizie di lunga data.
Inizio dalle cose che non mi sono piaciute nel film di Genovese: non mi è piaciuto l’ormai abusato espediente – onnipresente nella commedia italiana di questi ultimi anni - della cena tra amici che si trasforma in una piccola carneficina (vedi Dobbiamo parlare, I nostri ragazzi, Il nome del figlio ecc.), non il sovraccarico di “colpi di scena” che crea un effetto talmente pieno da risultare in parte poco realistico, non la necessità di un personaggio (quello di Rocco) che – per equilibrio e consapevolezza di sé – finisce per fare troppo contrasto con gli altri, infine non l’escamotage finale che sembra volerci pacificare e inquietare al contempo.
Però, Perfetti sconosciuti è un film che mette sul tavolo non soltanto gli smartphone dei suoi protagonisti, bensì diverse questioni centrali delle dinamiche relazionali. E il punto non è il telefonino, in quanto strumento infernale in cui sono nascosti tutti i nostri segreti, il punto non è nemmeno la “liquidità” delle relazioni nella nostra società: dal mio punto di vista, il tema centrale è l’ipocrisia di ciascuno di noi nel pensare che l’amore e l’amicizia significhino sincerità totale, sincerità che pensiamo ci sia dovuta da chi ci sta accanto ma che sappiamo benissimo di non poter garantire in prima persona a nessuno. Il corollario di questo tema è il condizionamento morale e sociale per cui un rapporto non è vero se non si basa su questa sincerità assoluta, che dunque pretendiamo più o meno tutti, anche se sappiamo benissimo – per esperienza personale – che non possiamooffrirla, e che non è neanche giusta per nessuno.
Centinaia di anni di romanticismo spalmato su amore e amicizia ci hanno totalmente disabituato da un lato al fatto che una relazione è una negoziazione e che negoziare i termini del proprio rapporto con la persona che si ama o che si vuol bene non è prosaico né disdicevole, bensì è un difficile passo da compiere nella verifica della tenuta di un rapporto, dall’altro al fatto che fiducia e fedeltà non sono necessariamente antinomici rispetto a bugia e tradimento.
Quando il personaggio di Carlotta dice che nella vita bisogna imparare a lasciarsi secondo me sta dicendo una grandissima verità il cui naturale complemento dal mio punto di vista è che bisogna imparare a stare insieme, il che forse vuol dire che ognuno di noi dovrebbe provare a capire (e non dico che sia facile) qual è la soglia di benessere o di malessere che ci spinge a continuare una relazione o ci dovrebbe convincere a chiuderla. E questa soglia non ha certamente a che vedere con il dominio e il controllo del mondo segreto che ognuno si porta dentro e con la condivisione obbligatoria di ogni frammento della propria vita con l’altra persona, ma con il tasso di serenità, affetto, benessere che riusciamo a vivere dentro quel rapporto e con la negoziazione sulla quantità di verità che si vuole condividere, e che certamente cambia da rapporto a rapporto.
Peppe (Giuseppe Battiston), Rocco (Marco Giallini), Eva (Kasia Smutniak), Lele (Valerio Mastandrea), Carlotta (Anna Foglietta), Cosimo (Edoardo Leo) e Bianca (Alba Rohrwacher) sono lo specchio di ciascuno di noi, ingenui, bugiardi, frustrati, meschini, scontenti, ma incredibilmente veri, umani, quasi adorabili, nel loro essere sempre convinti che i nostri piccoli/grandi segreti siano sempre più giustificabili di quelli di chi ci sta accanto. Ma alla fine – come dice Rocco – siamo tutti frangibili, e per questo è giusto che in qualunque relazione – come avviene per i porcospini – si trovi la giusta distanza e la si rinegozi giorno per giorno fino a quando si ha ancora la voglia di cercare il calore della vicinanza dell’altro.
Il film di Genovese non sceglie la comoda strada del moralismo o della semplificazione, e sposa appieno il principio che non esiste alcuna risposta facile, lasciando allo spettatore l’occasione di vivere il gioco sulla propria pelle e al contempo l’opportunità di assistervi dall’esterno.
Voto: 3,5/5
sabato 13 febbraio 2016
Karoo / Steve Tesich
Karoo / Steve Tesich; trad. di Milena Zemira Ciccimarra. Milano: Adelphi, 2014.
Steve Tesich è un famoso sceneggiatore di Hollywood; Saul Karoo, il protagonista di questo romanzo, è anche lui uno sceneggiatore di Hollywood, o meglio è un riscrittore, dal momento che a lui il produttore Jay Cromwell affida le sceneggiature che necessitano di essere risistemate, corrette o parzialmente riscritte. Il romanzo racconta il tentativo di Karoo – attraverso la rielaborazione del girato di un regista al suo ultimo lavoro – di riscrivere la propria vita e il proprio futuro.
Il risultato è un gioco di scatole cinesi, infilate l'una dentro l'altra, o – meglio ancora - una originale operazione di meta-letteratura (o forse dovremmo dire di meta-sceneggiatura?), attraverso la quale Tesich ci propone un'intensa riflessione sul rapporto tra la vita e il racconto della vita, tra la realtà e la sua narrazione.
La sua è una specie di dichiarazione di amore e contemporaneamente di odio nei confronti della narrazione, straordinario strumento di analisi della realtà, ma anche di manipolazione.
Senza la costruzione di una narrazione ci sarebbe il nulla, perché scrivere storie è un atto di creazione e riscriverle è un atto di rinnovata creazione; ma questo processo creativo è una specie di arrogante presunzione dell'uomo, finalizzato a dare senso a una realtà priva di senso.
Esiste una realtà al di là delle storie che raccontiamo su di essa? E dove sta la verità della vita, nelle cose che accadono o nel racconto delle stesse? Talvolta, la manipolazione della realtà che si compie attraverso la narrazione può infatti apparire ed essere percepito più vero della realtà stessa.
Come giustamente mi fa notare la mia amica I., Saul Karoo ha molto dei personaggi pirandelliani, per le maschere che indossa più o meno consapevolmente e perché, nell'abitudine a interpretare ruoli di altrettante storie, ha totalmente perso di vista se stesso, antieroe invecchiato come il suo Ulisse fantascientifico alla deriva nel nulla dello spazio-tempo di cui sta scrivendo.
In Karoo – come invece fa notare la mia amica A. che ne ha scritto qui – c'è anche molto dell'uomo contemporaneo che nelle dinamiche sociali della rete diventa in qualche modo sceneggiatore di se stesso e della propria vita, costruttore di identità, distillatore di emotività, facendosi parte di quel meccanismo creativo che sarebbe semplicistico bollare come finzione e che invece spesso porta alla luce un'essenza che la vita reale talvolta diluisce e di conseguenza nasconde.
Dove siamo noi, nell'intersezione delle narrazioni che facciamo di noi stessi e di quelle che gli altri fanno di noi? E le nostre emozioni stanno nella vita o nel racconto della vita, all'interno di noi o nel guardare noi stessi?
Riflessione attualissima e contestualmente senza tempo, di per sé destabilizzante per i sentimenti obliqui che produce, sulla gloria e al contempo sulla condanna dell'essere umano cui è stata data la capacità di guardarsi dall'esterno e di riflettere sulle proprie azioni.
Le mie citazioni preferite:
Adesso sono soltanto le bugie che raccontiamo a rivelare chi siamo. (p. 103)
Continuando a non dire assolutamente nulla in una varietà di modi diversi, è come se coltivassi la speranza di avere qualcosa di essenziale da esprimere al momento giusto. (p. 133)
In un certo senso essere pienamente informati è così appagante che diventa fine a se stesso. Invece di generare una reazione, la preclude. (p. 138)
Un uomo e una donna. Entrambi erano, come loro stessi dicevano, felicemente sposati. Poi, per caso, si erano conosciuti, e tra loro era nata la visione di un altro tipo di vita e un altro tipo di amore. Era come se a un certo punto le loro anime si fossero spaccate in due, e proprio quando si erano ormai adattati trovando un modo per essere felici con mezza anima, avessero incontrato la persona in possesso dell'altra metà. I due bordi strappati, come quelli di una mappa del tesoro, combaciavano alla perfezione.
A quel punto non potevano più tornare indietro. Una volta sperimentata la sensazione di essere interi, non potevano fingere che non fosse successo. (p. 146)
L'unica descrizione appropriata per quello che avevo fatto era che avevi creato il nulla, ma un nulla di un fascino così ampio e accessibile da poter passare per qualunque cosa. (p. 259)
I matrimoni sbagliati sono un vero prodigio; riescono a farti sentire a casa anche quando una casa non ce l'hai. (p. 284)
La sua apertura, la sua nudità, è troppo per me, e così cessa di essere un'apertura. (p. 300)
Ho bisogno di una pausa dall'essere.
Tutti, penso, ne hanno bisogno ogni tanto. (p. 327)
Stiamo celebrando qualcosa, forse la vita, o forse il fatto che apparteniamo tutti all'industria dello spettacolo, la grande religione unificante del nostro tempo. (p. 327)
Adesso gli serve quella piccola carica di energia in più che solo un pubblico può darti. (p. 330)
Una volta che diventa pubblica, a una storia può succedere di tutto. (p. 374)
Le storie pubbliche sono diverse da quelle private. Le storie pubbliche, per loro stessa natura, non sono solamente storie, ma storie di storie, sottratte una o due volte ai protagonisti. (p. 374)
Come se adesso l'intimità fosse possibile solo in pubblico, dove può essere allo stesso tempo creata e verificata negli occhi degli sconosciuti di passaggio. (p. 383)
La storia pubblica faceva sfigurare la sua esperienza privata. Lo spingeva a chiedersi se non dovesse adottarla come versione accreditata dei fatti e delle persone che ritraeva. (p. 402)
Con un minimo di allenamento ce l'avrebbe fatta a diventare anche in privato, ai suoi stessi occhi, la persona che era ritenuta in pubblico. (p. 403)
La vita non appare priva di significato, semmai ne è così ricca che il suo significato deve essere costantemente ucciso per il bene della coesione e della comprensione.
Per il bene della trama. (p. 413)
Il problema era che li aveva amati e desiderati così a lungo che quell'amore in contumacia era diventato per lui un modo di vivere e un modo di amare. (p. 447)
Voto: 4/5
Steve Tesich è un famoso sceneggiatore di Hollywood; Saul Karoo, il protagonista di questo romanzo, è anche lui uno sceneggiatore di Hollywood, o meglio è un riscrittore, dal momento che a lui il produttore Jay Cromwell affida le sceneggiature che necessitano di essere risistemate, corrette o parzialmente riscritte. Il romanzo racconta il tentativo di Karoo – attraverso la rielaborazione del girato di un regista al suo ultimo lavoro – di riscrivere la propria vita e il proprio futuro.
Il risultato è un gioco di scatole cinesi, infilate l'una dentro l'altra, o – meglio ancora - una originale operazione di meta-letteratura (o forse dovremmo dire di meta-sceneggiatura?), attraverso la quale Tesich ci propone un'intensa riflessione sul rapporto tra la vita e il racconto della vita, tra la realtà e la sua narrazione.
La sua è una specie di dichiarazione di amore e contemporaneamente di odio nei confronti della narrazione, straordinario strumento di analisi della realtà, ma anche di manipolazione.
Senza la costruzione di una narrazione ci sarebbe il nulla, perché scrivere storie è un atto di creazione e riscriverle è un atto di rinnovata creazione; ma questo processo creativo è una specie di arrogante presunzione dell'uomo, finalizzato a dare senso a una realtà priva di senso.
Esiste una realtà al di là delle storie che raccontiamo su di essa? E dove sta la verità della vita, nelle cose che accadono o nel racconto delle stesse? Talvolta, la manipolazione della realtà che si compie attraverso la narrazione può infatti apparire ed essere percepito più vero della realtà stessa.
Come giustamente mi fa notare la mia amica I., Saul Karoo ha molto dei personaggi pirandelliani, per le maschere che indossa più o meno consapevolmente e perché, nell'abitudine a interpretare ruoli di altrettante storie, ha totalmente perso di vista se stesso, antieroe invecchiato come il suo Ulisse fantascientifico alla deriva nel nulla dello spazio-tempo di cui sta scrivendo.
In Karoo – come invece fa notare la mia amica A. che ne ha scritto qui – c'è anche molto dell'uomo contemporaneo che nelle dinamiche sociali della rete diventa in qualche modo sceneggiatore di se stesso e della propria vita, costruttore di identità, distillatore di emotività, facendosi parte di quel meccanismo creativo che sarebbe semplicistico bollare come finzione e che invece spesso porta alla luce un'essenza che la vita reale talvolta diluisce e di conseguenza nasconde.
Dove siamo noi, nell'intersezione delle narrazioni che facciamo di noi stessi e di quelle che gli altri fanno di noi? E le nostre emozioni stanno nella vita o nel racconto della vita, all'interno di noi o nel guardare noi stessi?
Riflessione attualissima e contestualmente senza tempo, di per sé destabilizzante per i sentimenti obliqui che produce, sulla gloria e al contempo sulla condanna dell'essere umano cui è stata data la capacità di guardarsi dall'esterno e di riflettere sulle proprie azioni.
Le mie citazioni preferite:
Adesso sono soltanto le bugie che raccontiamo a rivelare chi siamo. (p. 103)
Continuando a non dire assolutamente nulla in una varietà di modi diversi, è come se coltivassi la speranza di avere qualcosa di essenziale da esprimere al momento giusto. (p. 133)
In un certo senso essere pienamente informati è così appagante che diventa fine a se stesso. Invece di generare una reazione, la preclude. (p. 138)
Un uomo e una donna. Entrambi erano, come loro stessi dicevano, felicemente sposati. Poi, per caso, si erano conosciuti, e tra loro era nata la visione di un altro tipo di vita e un altro tipo di amore. Era come se a un certo punto le loro anime si fossero spaccate in due, e proprio quando si erano ormai adattati trovando un modo per essere felici con mezza anima, avessero incontrato la persona in possesso dell'altra metà. I due bordi strappati, come quelli di una mappa del tesoro, combaciavano alla perfezione.
A quel punto non potevano più tornare indietro. Una volta sperimentata la sensazione di essere interi, non potevano fingere che non fosse successo. (p. 146)
L'unica descrizione appropriata per quello che avevo fatto era che avevi creato il nulla, ma un nulla di un fascino così ampio e accessibile da poter passare per qualunque cosa. (p. 259)
I matrimoni sbagliati sono un vero prodigio; riescono a farti sentire a casa anche quando una casa non ce l'hai. (p. 284)
La sua apertura, la sua nudità, è troppo per me, e così cessa di essere un'apertura. (p. 300)
Ho bisogno di una pausa dall'essere.
Tutti, penso, ne hanno bisogno ogni tanto. (p. 327)
Stiamo celebrando qualcosa, forse la vita, o forse il fatto che apparteniamo tutti all'industria dello spettacolo, la grande religione unificante del nostro tempo. (p. 327)
Adesso gli serve quella piccola carica di energia in più che solo un pubblico può darti. (p. 330)
Una volta che diventa pubblica, a una storia può succedere di tutto. (p. 374)
Le storie pubbliche sono diverse da quelle private. Le storie pubbliche, per loro stessa natura, non sono solamente storie, ma storie di storie, sottratte una o due volte ai protagonisti. (p. 374)
Come se adesso l'intimità fosse possibile solo in pubblico, dove può essere allo stesso tempo creata e verificata negli occhi degli sconosciuti di passaggio. (p. 383)
La storia pubblica faceva sfigurare la sua esperienza privata. Lo spingeva a chiedersi se non dovesse adottarla come versione accreditata dei fatti e delle persone che ritraeva. (p. 402)
Con un minimo di allenamento ce l'avrebbe fatta a diventare anche in privato, ai suoi stessi occhi, la persona che era ritenuta in pubblico. (p. 403)
La vita non appare priva di significato, semmai ne è così ricca che il suo significato deve essere costantemente ucciso per il bene della coesione e della comprensione.
Per il bene della trama. (p. 413)
Il problema era che li aveva amati e desiderati così a lungo che quell'amore in contumacia era diventato per lui un modo di vivere e un modo di amare. (p. 447)
Voto: 4/5
martedì 9 febbraio 2016
The revenant = Redivivo
Innanzitutto, assicuratevi di avere circa tre ore di tempo a disposizione, prima di decidere di andare a vedere l’ultimo film di Iñárritu. Secondo, se volete vedere The revenant vi consiglio di andare a vederlo al cinema, perché su uno schermo più piccolo e senza il sistema di dolby sorround vi assicuro che perderete una buona parte del piacere di questo film, che è un piacere innanzitutto estetico e sensoriale.
The revenant è – per dirla in maniera modaiola – la versione 2.0 dei film western che vedevamo quando eravamo piccoli, anzi per essere più precisi di quei film western che sono venuti un pochino dopo, in cui non era più del tutto scontato che i buoni stavano tutti dalla parte dei bianchi e i cattivi dalla parte degli indiani.
Nel film di Inárritu gli elementi delle pellicole western classiche ci sono tutti, ma sono in qualche modo rimescolati e amplificati. I bianchi che scorazzano per le infinite lande statunitensi sono inglesi, ma anche francesi, accomunati dall’obiettivo di fare razzie di merci e terre, nonché di donne e schiavi, e dunque in competizione tra di loro. Gli indiani che difendono le loro terre sono in realtà numerose tribu tra loro in conflitto, ma a loro volta tutti minacciati dai bianchi e dunque costretti a difendersi, ad attaccare e in certi casi a fare affari con i loro predatori. Cosicché, alla fine dei conti, non si sa dove stanno i buoni e i cattivi, o meglio i buoni e i cattivi stanno in tutte le comunità umane, perché resta anche il fatto che “siamo tutti selvaggi”, come recita il cartello appeso al collo dell’indiano impiccato dai francesi.
E fin qui non moltissimo di nuovo, se non fosse che il regista messicano ci trasforma da spettatori in protagonisti, perché con il suo girato iperrealistico ci porta in mezzo a queste terre e a questi uomini, e ce ne fa sentire e vedere la sporcizia, la grevità, il sudore, le condizioni di vita estreme e quasi animalesche in questi paesaggi ai confini del mondo. E lo fa in particolare attraverso due personaggi: quello di Glass (Leonardo Di Caprio) e quello di Fitzgerald (Tom Hardy). Glass è un bianco che però ha un figlio indiano, perché ha vissuto per un periodo con una tribu indiana e ha visto sua moglie trucidata dai bianchi e suo figlio quasi bruciato vivo. Ora lavora per gli inglesi e ne è la guida essendo colui che meglio conosce queste terre. Fino a quando viene attaccato da un orso e rimane quasi ucciso. La sua truppa decide di trasportarlo con sé verso il forte, ma impossibilitata a un certo punto ad andare avanti con a seguito la barella dell’uomo, lo lascia indietro custodito da Fitzgerald, insieme a un giovane soldato e al figlio di Glass. Fitzgerald però – interessato primariamente alla sua sopravvivenza e ai suoi soldi – tradisce Glass, uccidendogli il figlio, e torna verso il forte con il giovane soldato, convinto che Glass sia destinato a morire. Inizia così l’epopea che non solo riporterà Glass – tra mille avventure e difficoltà – al forte ma gli farà inseguire Fitzgerald alla ricerca della vendetta.
Dopo due ore e mezzo di paesaggi straordinari, di tempeste di neve, di cieli strepitosi, di notti stellate, nonché un vero e proprio corso accelerato di sopravvivenza in condizioni estreme (sopravvivere al freddo, accendere un fuoco, non morire di fame, difendersi dai predatori ecc.), si arriva alla fine del film sfiancati come il povero Di Caprio, all’ennesima interpretazione epica ed estrema della sua carriera.
Non posso dire che il film non mi sia piaciuto, ma a parte l’effetto straniante che mi hanno prodotto alcuni passaggi secondo me decisamente poco verosimili della vicenda di Glass, personalmente non ci ho trovato grandi significati, messaggi originali ovvero occasioni di riflessione. E la mia cultura cinematografica è troppo povera per riconoscere i riferimenti a Tarkovskij e quelli a Herzog. Per quanto mi riguarda, se in questo film c’è un messaggio, che non sia il piacere registico di una full immersion nell’atmosfera delle guerre di tutti contro tutti per l’accaparramento delle terre americane e nella sempiterna lotta dell’uomo per la sopravvivenza, mi è comunque sembrato un pochino debole e comunque non sufficiente a coinvolgermi sul piano intellettuale. E ciò per me in un film resta un grosso limite. Sarà per questo che tanto – nella sua stranezza - mi aveva intrigato Birdman, quanto mi è invece scivolata un po’ addosso la grandeur di The revenant.
Voto: 3/5
The revenant è – per dirla in maniera modaiola – la versione 2.0 dei film western che vedevamo quando eravamo piccoli, anzi per essere più precisi di quei film western che sono venuti un pochino dopo, in cui non era più del tutto scontato che i buoni stavano tutti dalla parte dei bianchi e i cattivi dalla parte degli indiani.
Nel film di Inárritu gli elementi delle pellicole western classiche ci sono tutti, ma sono in qualche modo rimescolati e amplificati. I bianchi che scorazzano per le infinite lande statunitensi sono inglesi, ma anche francesi, accomunati dall’obiettivo di fare razzie di merci e terre, nonché di donne e schiavi, e dunque in competizione tra di loro. Gli indiani che difendono le loro terre sono in realtà numerose tribu tra loro in conflitto, ma a loro volta tutti minacciati dai bianchi e dunque costretti a difendersi, ad attaccare e in certi casi a fare affari con i loro predatori. Cosicché, alla fine dei conti, non si sa dove stanno i buoni e i cattivi, o meglio i buoni e i cattivi stanno in tutte le comunità umane, perché resta anche il fatto che “siamo tutti selvaggi”, come recita il cartello appeso al collo dell’indiano impiccato dai francesi.
E fin qui non moltissimo di nuovo, se non fosse che il regista messicano ci trasforma da spettatori in protagonisti, perché con il suo girato iperrealistico ci porta in mezzo a queste terre e a questi uomini, e ce ne fa sentire e vedere la sporcizia, la grevità, il sudore, le condizioni di vita estreme e quasi animalesche in questi paesaggi ai confini del mondo. E lo fa in particolare attraverso due personaggi: quello di Glass (Leonardo Di Caprio) e quello di Fitzgerald (Tom Hardy). Glass è un bianco che però ha un figlio indiano, perché ha vissuto per un periodo con una tribu indiana e ha visto sua moglie trucidata dai bianchi e suo figlio quasi bruciato vivo. Ora lavora per gli inglesi e ne è la guida essendo colui che meglio conosce queste terre. Fino a quando viene attaccato da un orso e rimane quasi ucciso. La sua truppa decide di trasportarlo con sé verso il forte, ma impossibilitata a un certo punto ad andare avanti con a seguito la barella dell’uomo, lo lascia indietro custodito da Fitzgerald, insieme a un giovane soldato e al figlio di Glass. Fitzgerald però – interessato primariamente alla sua sopravvivenza e ai suoi soldi – tradisce Glass, uccidendogli il figlio, e torna verso il forte con il giovane soldato, convinto che Glass sia destinato a morire. Inizia così l’epopea che non solo riporterà Glass – tra mille avventure e difficoltà – al forte ma gli farà inseguire Fitzgerald alla ricerca della vendetta.
Dopo due ore e mezzo di paesaggi straordinari, di tempeste di neve, di cieli strepitosi, di notti stellate, nonché un vero e proprio corso accelerato di sopravvivenza in condizioni estreme (sopravvivere al freddo, accendere un fuoco, non morire di fame, difendersi dai predatori ecc.), si arriva alla fine del film sfiancati come il povero Di Caprio, all’ennesima interpretazione epica ed estrema della sua carriera.
Non posso dire che il film non mi sia piaciuto, ma a parte l’effetto straniante che mi hanno prodotto alcuni passaggi secondo me decisamente poco verosimili della vicenda di Glass, personalmente non ci ho trovato grandi significati, messaggi originali ovvero occasioni di riflessione. E la mia cultura cinematografica è troppo povera per riconoscere i riferimenti a Tarkovskij e quelli a Herzog. Per quanto mi riguarda, se in questo film c’è un messaggio, che non sia il piacere registico di una full immersion nell’atmosfera delle guerre di tutti contro tutti per l’accaparramento delle terre americane e nella sempiterna lotta dell’uomo per la sopravvivenza, mi è comunque sembrato un pochino debole e comunque non sufficiente a coinvolgermi sul piano intellettuale. E ciò per me in un film resta un grosso limite. Sarà per questo che tanto – nella sua stranezza - mi aveva intrigato Birdman, quanto mi è invece scivolata un po’ addosso la grandeur di The revenant.
Voto: 3/5
mercoledì 3 febbraio 2016
Pensavo fosse l'Arizona e invece era l'Abruzzo (e anche un po' il Lazio)
Continuano le nostre esplorazioni invernali del centro Italia. Questa volta destinazione del nostro viaggio post natalizio è una regione che fin qui avevamo sempre colpevolmente trascurato, l'Abruzzo.
Per questo nostro primo assaggio di una regione che non ha attrattive eclatanti, ma che - come scopriremo - si insinua sotto la pelle in maniera sottile e persistente, facciamo base a Calascio, uno dei paesini che sta sotto la catena montuosa del Gran Sasso. A dire la verità quando avevamo prenotato, pensavamo di rimanere più o meno bloccate tre giorni lì e nei dintorni, perché tutti ci avevano parlato di una zona con tantissima neve. E infatti i segnali c'erano tutti. Ma - complice un inverno del tutto anomalo - arriviamo in zona in una splendida giornata di sole e della neve non c'è neppure l'ombra, se non sulle cime più alte.
Prima ancora di prendere possesso nel nostro micro-appartamento di Calascio (tramite il B&B Natalyia), facciamo una prima tappa a L'Aquila. L'impatto con la città, a quasi sette anni dal tragico terremoto del 2009, è davvero forte. La città è dominata da una quantità inimmaginabile di gru che ormai occupano stabilmente lo skyline e quando ci inoltriamo per il centro storico non ci aspettiamo un tale livello di devastazione. Ci sono ancora strade totalmente inaccessibili e la maggior parte dei palazzi, anche quelli messi in sicurezza, è comunque abbandonata, nonché degli edifici storici e luoghi di culto. Qua e là qualche palazzetto è stato completamente ristrutturato o in via di ristrutturazione, ma la nostra passeggiata in questo centro storico non solo ci dà la percezione del danno enorme ma anche del costo e dello sforzo immane necessari per ridare vita e vivibilità a un centro storico in queste condizioni.
La splendida giornata di sole ci permette comunque di apprezzare le tracce della signorilità di questa città e ci regala una bellissima passeggiata tra le vie e intorno alla fortezza spagnola. Particolarmente degna di nota la Basilica di Santa Maria di Collemaggio, con la sua facciata di grande impatto, e la fontana delle 99 cannelle la cui storia ci permette di comprendere un po' meglio anche la storia di quest'area in età medievale.
Dopo un ultimo dell'anno autogestito e quasi interamente gastronomicamente portato da casa, il giorno dopo partiamo alla scoperta dei dintorni. Questo primo dell'anno ci lascia a bocca aperta, prima con la salita a Rocca Calascio e poi con la passeggiata all'altopiano di Campo Imperatore.
Rocca Calascio è un paesino medievale ormai composte di poche case, dominato in alto dai resti di un magnifico castello (dove molti film, tra cui Ladyhawke, sono stati girati) e dalla chiesetta di Santa Maria della Pietà, un edificio di origine rinascimentale in un contesto medievale. Ma la cosa più spettacolare è il panorama a 360° che si gode da lassù su un paesaggio punteggiato di piccoli paesini, tra cui Santo Stefano di Sessanio - che avevamo visitato la sera prima apprezzandone pulizia e compostezza, e di infinite montagne brulle, valli coltivate e imponenti montagne innevate. Qui abbiamo cominciato ad avere la sensazione che in questa parte dell'Abruzzo davvero non sembra di stare in Italia.
La conferma l'abbiamo avuto non molto dopo, quando siamo andate verso Campo Imperatore, il cosiddetto piccolo Tibet, l'altopiano ai piedi della catena del Gran Sasso che ha un'atmosfera davvero magica e un paesaggio che non finisce mai di sorprendere. Qui lunghe passeggiate e arrosticini cotti all'aperto sotto il sole di gennaio, con la neve tutto intorno. Una meraviglia per gli occhi e per il cuore. Scendendo dalla montagna dall'altra parte attraversiamo un bosco innevato e completamente immerso in una nuvola e la magia continua così fino al rientro a casa. Prima di ritornare a Calascio, facciamo una breve tappa a Castel Del Monte.
Questa prima giornata ci fa capire perché così tanti spaghetti western (e non solo) sono stati girati in queste zone, perché l'idea di terre sconfinate e sconfinate brughiere che di solito associamo al selvaggio West in realtà ce l'abbiamo anche a due passi da casa.
Il giorno successivo esploriamo l'altro versante della valle, quello che sta al di là della statale 17. Ci fermiamo in alcuni paesini a guardare le abbazie medievali che punteggiano questo territorio (anche se ci accorgeremo solo una volta a casa che abbiamo perso quella più bella, a Bominaco! Tocca assolutamente tornarci!!!). La tappa principale di questa nostra giornata sono le grotte di Stiffe dove facciamo prima la visita guidata in questa grotta giovane dove ancora fiumi, cascate e acqua sono abbondanti e poi facciamo una passeggiata naturalistica alla rocca e al punto in cui la cascata diventa esterna.
L'ultima tappa in questa zona è il Parco Naturale Sirente-Velino che attraversiamo però prevalentemente in macchina dacché il tempo è decisamente peggiorato e il sole ha lasciato il posto a una pioggerella non proprio simpaticissima. In una giornata meno infausta meteorologicamente la strada che va tra Rocca di Cambio e Secinaro avrebbe certamente dato il suo meglio, ma già così i grandi boschi rossi sono piuttosto impressionanti.
La seconda parte della nostra vacanzina si svolge sull'altro versante del Gran Sasso, lì dove il Lazio si incunea tra l'Abruzzo e l'Umbria e quasi tocca le Marche. In questo caso infatti la nostra base è Retrosi, una frazione di Amatrice dove abbiamo un bell'appartamento nell'Albergo Diffuso Villa Retrosi, con vista sulle montagne. Arrivando verso Retrosi prendiamo la via per il Lago di Campotosto che attraversa paesaggi belli e selvaggi.
Ci fermiamo un paio di volte, prima a fotografare dei cavalli nella brughiera, poi a comprare ricotta e salamini in un posto che poi scopriremo rinomatissimo, La Mascionara. Il lago (artificiale come quasi tutti quelli di zona) è particolarmente deserto, considerato anche il tempo da lupi, ma il giro è comunque gradevole.
Quando arriviamo a Retrosi, un borghetto delizioso, abbiamo giusto il tempo di fare una passeggiata nel bosco, prendendo uno dei tanti sentieri che partono dal paese, fino a raggiungere il fiume Tronto, e la sera ci concediamo una buonissima (e abbondantissima) amatriciana al ristorante-pizzeria La Lanterna di Amatrice, un posto semplice ma dove mangiamo molto bene.
I due giorni che ci rimangono ci regalano la passeggiata alla chiesetta di San Martino, l'avventura sulla strada di montagna ghiacciata che ci costringe a cimentarci con il montaggio delle catene della macchina, la passeggiata per il paese di Leonessa, la scoperta inaspettata del borgo di Monteleone di Spoleto, con il suo bellissimo e ben conservato centro storico, infine una cena strepitosa al ristorante La Fattoria della frazione di Sommati, dove tra antipasti di tutti i tipi, ravioli, arrosticini e vino buono, nonché in un clima allegro e familiare concludiamo in bellezza la nostra vacanzina e al ritorno in appartamento vediamo anche dal vivo un cinghiale che - spaventato dai fari - si arrampica su un muretto per sparire poi nel bosco.
Il giorno dopo al rientro a Roma qualche sprazzo di sole ci offre ancora qualche veduta sulle montagne e ci convince che da queste parti bisogna assolutamente ritornare.
Per questo nostro primo assaggio di una regione che non ha attrattive eclatanti, ma che - come scopriremo - si insinua sotto la pelle in maniera sottile e persistente, facciamo base a Calascio, uno dei paesini che sta sotto la catena montuosa del Gran Sasso. A dire la verità quando avevamo prenotato, pensavamo di rimanere più o meno bloccate tre giorni lì e nei dintorni, perché tutti ci avevano parlato di una zona con tantissima neve. E infatti i segnali c'erano tutti. Ma - complice un inverno del tutto anomalo - arriviamo in zona in una splendida giornata di sole e della neve non c'è neppure l'ombra, se non sulle cime più alte.
Prima ancora di prendere possesso nel nostro micro-appartamento di Calascio (tramite il B&B Natalyia), facciamo una prima tappa a L'Aquila. L'impatto con la città, a quasi sette anni dal tragico terremoto del 2009, è davvero forte. La città è dominata da una quantità inimmaginabile di gru che ormai occupano stabilmente lo skyline e quando ci inoltriamo per il centro storico non ci aspettiamo un tale livello di devastazione. Ci sono ancora strade totalmente inaccessibili e la maggior parte dei palazzi, anche quelli messi in sicurezza, è comunque abbandonata, nonché degli edifici storici e luoghi di culto. Qua e là qualche palazzetto è stato completamente ristrutturato o in via di ristrutturazione, ma la nostra passeggiata in questo centro storico non solo ci dà la percezione del danno enorme ma anche del costo e dello sforzo immane necessari per ridare vita e vivibilità a un centro storico in queste condizioni.
La splendida giornata di sole ci permette comunque di apprezzare le tracce della signorilità di questa città e ci regala una bellissima passeggiata tra le vie e intorno alla fortezza spagnola. Particolarmente degna di nota la Basilica di Santa Maria di Collemaggio, con la sua facciata di grande impatto, e la fontana delle 99 cannelle la cui storia ci permette di comprendere un po' meglio anche la storia di quest'area in età medievale.
Dopo un ultimo dell'anno autogestito e quasi interamente gastronomicamente portato da casa, il giorno dopo partiamo alla scoperta dei dintorni. Questo primo dell'anno ci lascia a bocca aperta, prima con la salita a Rocca Calascio e poi con la passeggiata all'altopiano di Campo Imperatore.
Rocca Calascio è un paesino medievale ormai composte di poche case, dominato in alto dai resti di un magnifico castello (dove molti film, tra cui Ladyhawke, sono stati girati) e dalla chiesetta di Santa Maria della Pietà, un edificio di origine rinascimentale in un contesto medievale. Ma la cosa più spettacolare è il panorama a 360° che si gode da lassù su un paesaggio punteggiato di piccoli paesini, tra cui Santo Stefano di Sessanio - che avevamo visitato la sera prima apprezzandone pulizia e compostezza, e di infinite montagne brulle, valli coltivate e imponenti montagne innevate. Qui abbiamo cominciato ad avere la sensazione che in questa parte dell'Abruzzo davvero non sembra di stare in Italia.
La conferma l'abbiamo avuto non molto dopo, quando siamo andate verso Campo Imperatore, il cosiddetto piccolo Tibet, l'altopiano ai piedi della catena del Gran Sasso che ha un'atmosfera davvero magica e un paesaggio che non finisce mai di sorprendere. Qui lunghe passeggiate e arrosticini cotti all'aperto sotto il sole di gennaio, con la neve tutto intorno. Una meraviglia per gli occhi e per il cuore. Scendendo dalla montagna dall'altra parte attraversiamo un bosco innevato e completamente immerso in una nuvola e la magia continua così fino al rientro a casa. Prima di ritornare a Calascio, facciamo una breve tappa a Castel Del Monte.
Questa prima giornata ci fa capire perché così tanti spaghetti western (e non solo) sono stati girati in queste zone, perché l'idea di terre sconfinate e sconfinate brughiere che di solito associamo al selvaggio West in realtà ce l'abbiamo anche a due passi da casa.
Il giorno successivo esploriamo l'altro versante della valle, quello che sta al di là della statale 17. Ci fermiamo in alcuni paesini a guardare le abbazie medievali che punteggiano questo territorio (anche se ci accorgeremo solo una volta a casa che abbiamo perso quella più bella, a Bominaco! Tocca assolutamente tornarci!!!). La tappa principale di questa nostra giornata sono le grotte di Stiffe dove facciamo prima la visita guidata in questa grotta giovane dove ancora fiumi, cascate e acqua sono abbondanti e poi facciamo una passeggiata naturalistica alla rocca e al punto in cui la cascata diventa esterna.
L'ultima tappa in questa zona è il Parco Naturale Sirente-Velino che attraversiamo però prevalentemente in macchina dacché il tempo è decisamente peggiorato e il sole ha lasciato il posto a una pioggerella non proprio simpaticissima. In una giornata meno infausta meteorologicamente la strada che va tra Rocca di Cambio e Secinaro avrebbe certamente dato il suo meglio, ma già così i grandi boschi rossi sono piuttosto impressionanti.
La seconda parte della nostra vacanzina si svolge sull'altro versante del Gran Sasso, lì dove il Lazio si incunea tra l'Abruzzo e l'Umbria e quasi tocca le Marche. In questo caso infatti la nostra base è Retrosi, una frazione di Amatrice dove abbiamo un bell'appartamento nell'Albergo Diffuso Villa Retrosi, con vista sulle montagne. Arrivando verso Retrosi prendiamo la via per il Lago di Campotosto che attraversa paesaggi belli e selvaggi.
Ci fermiamo un paio di volte, prima a fotografare dei cavalli nella brughiera, poi a comprare ricotta e salamini in un posto che poi scopriremo rinomatissimo, La Mascionara. Il lago (artificiale come quasi tutti quelli di zona) è particolarmente deserto, considerato anche il tempo da lupi, ma il giro è comunque gradevole.
Quando arriviamo a Retrosi, un borghetto delizioso, abbiamo giusto il tempo di fare una passeggiata nel bosco, prendendo uno dei tanti sentieri che partono dal paese, fino a raggiungere il fiume Tronto, e la sera ci concediamo una buonissima (e abbondantissima) amatriciana al ristorante-pizzeria La Lanterna di Amatrice, un posto semplice ma dove mangiamo molto bene.
I due giorni che ci rimangono ci regalano la passeggiata alla chiesetta di San Martino, l'avventura sulla strada di montagna ghiacciata che ci costringe a cimentarci con il montaggio delle catene della macchina, la passeggiata per il paese di Leonessa, la scoperta inaspettata del borgo di Monteleone di Spoleto, con il suo bellissimo e ben conservato centro storico, infine una cena strepitosa al ristorante La Fattoria della frazione di Sommati, dove tra antipasti di tutti i tipi, ravioli, arrosticini e vino buono, nonché in un clima allegro e familiare concludiamo in bellezza la nostra vacanzina e al ritorno in appartamento vediamo anche dal vivo un cinghiale che - spaventato dai fari - si arrampica su un muretto per sparire poi nel bosco.
Il giorno dopo al rientro a Roma qualche sprazzo di sole ci offre ancora qualche veduta sulle montagne e ci convince che da queste parti bisogna assolutamente ritornare.
lunedì 1 febbraio 2016
Lo scultore / Scott McCloud
Lo scultore / Scott McCloud; trad. di Michele Foschini. Milano: Bao Publishing, 2015.
Scott McCloud è universalmente riconosciuto come uno dei massimi teorici del fumetto, grazie ad opere quasli Capire il fumetto e Fare il fumetto, e alle numerose conferenze sul tema da lui tenute in giro per il mondo.
Con Lo scultore McCloud sembra volerci dare una prova della potenza della narrazione per immagini e lo fa attraverso una storia piuttosto complessa e articolata. La storia è quella di David, un giovane scultore determinato a lasciare il segno con la propria arte e che, proprio per questo, accetta un patto con la morte: otterrà la capacità di plasmare la materia con le mani, ma potrà vivere ancora solo 200 giorni.
In questi 200 giorni David farà i conti con il significato profondo della propria arte e in generale con il senso della propria esistenza.
Personaggio un po' rigido e sociopatico (è tendenzialmente un solitario con un rapporto quasi patologico con il rispetto delle promesse che ha fatto), David capirà il valore profondo dell'amicizia e dell'amore attraverso l'incontro e il rapporto con Meg; e comprenderà che l'unica vera regola a cui nessuno può sottrarsi è l'inevitabilità della morte e l'imprevedibilità del suo arrivo.
Da qui l'insopprimibile bisogno umano di cercare senso e felicità nel quotidiano, ma anche di una prospettiva di immortalità attraverso l'arte e attraverso la vita dell'umanità che continua.
Nel complesso non un contenuto particolarmente originale e un protagonista con cui - a mio modo di vedere - non è facile empatizzare fino in fondo. Ma certamente una storia ricca di sfumature (interessante per esempio la visione sul mondo dell'arte e sulle sue dinamiche) che tiene incollati alla lettura fino all'ultima pagina.
Da un punto di vista grafico, i disegni sono molto puliti ed esteticamente molto belli e la costruzione delle tavole dimostra una grande maestria, che a volte ricorda alcune tecniche di ripresa cinematografica.
Personalmente non sono d'accordo né con chi l'ha stroncato (avercene di graphic novels così!), ma nemmeno con chi ha gridato al capolavoro.
E non parlo della dinamica emotiva che il fumetto può innescare o meno (e che può dipendere dal modo di essere di chi legge o anche solo dal particolare momento della propria vita in cui si affronta la lettura), bensì di una certa convenzionalità estetica e narrativa che fa di questo graphic novel un prodotto di alto livello, ma per quanto mi riguarda non dirompente né davvero memorabile.
Voto: 3/5
Scott McCloud è universalmente riconosciuto come uno dei massimi teorici del fumetto, grazie ad opere quasli Capire il fumetto e Fare il fumetto, e alle numerose conferenze sul tema da lui tenute in giro per il mondo.
Con Lo scultore McCloud sembra volerci dare una prova della potenza della narrazione per immagini e lo fa attraverso una storia piuttosto complessa e articolata. La storia è quella di David, un giovane scultore determinato a lasciare il segno con la propria arte e che, proprio per questo, accetta un patto con la morte: otterrà la capacità di plasmare la materia con le mani, ma potrà vivere ancora solo 200 giorni.
In questi 200 giorni David farà i conti con il significato profondo della propria arte e in generale con il senso della propria esistenza.
Personaggio un po' rigido e sociopatico (è tendenzialmente un solitario con un rapporto quasi patologico con il rispetto delle promesse che ha fatto), David capirà il valore profondo dell'amicizia e dell'amore attraverso l'incontro e il rapporto con Meg; e comprenderà che l'unica vera regola a cui nessuno può sottrarsi è l'inevitabilità della morte e l'imprevedibilità del suo arrivo.
Da qui l'insopprimibile bisogno umano di cercare senso e felicità nel quotidiano, ma anche di una prospettiva di immortalità attraverso l'arte e attraverso la vita dell'umanità che continua.
Nel complesso non un contenuto particolarmente originale e un protagonista con cui - a mio modo di vedere - non è facile empatizzare fino in fondo. Ma certamente una storia ricca di sfumature (interessante per esempio la visione sul mondo dell'arte e sulle sue dinamiche) che tiene incollati alla lettura fino all'ultima pagina.
Da un punto di vista grafico, i disegni sono molto puliti ed esteticamente molto belli e la costruzione delle tavole dimostra una grande maestria, che a volte ricorda alcune tecniche di ripresa cinematografica.
Personalmente non sono d'accordo né con chi l'ha stroncato (avercene di graphic novels così!), ma nemmeno con chi ha gridato al capolavoro.
E non parlo della dinamica emotiva che il fumetto può innescare o meno (e che può dipendere dal modo di essere di chi legge o anche solo dal particolare momento della propria vita in cui si affronta la lettura), bensì di una certa convenzionalità estetica e narrativa che fa di questo graphic novel un prodotto di alto livello, ma per quanto mi riguarda non dirompente né davvero memorabile.
Voto: 3/5
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