La storia non è nuova. A me ha ricordato moltissimo un libro che mi era piaciuto tanto, Vento scomposto, della Simonetta Agnello Hornby, con cui ha moltissimi elementi in comune (sebbene nel libro sia più presente l'aspetto legale, qui quasi completamente trascurato).
Lukas (Mads Mikkelsen) è appena uscito da una separazione e vive tutto solo in una grande casa in un paese della Danimarca immerso nei boschi. Ha un cane inseparabile e un figlio, Marcus, che vorrebbe andare a vivere con lui. È perfettamente integrato nella sua comunità, ha amici carissimi, e lavora con entusiasmo nell'asilo locale.
La prospettiva di ricostruirsi una vita affettiva e di credere in un nuovo inizio va in frantumi quando Klara, la figlia piccola del suo migliore amico, dice alla maestra delle cose su Lukas che fanno nascere potentemente il sospetto che questi abbia abusato di lei.
Da lì in poi un processo di amplificazione che si trasforma in vera e propria demonizzazione (una caccia, come recita il titolo originale), ancor prima che la giustizia abbia fatto il suo corso. Lukas viene lasciato solo da tutti, anzi perseguitato e minacciato in ogni modo possibile, man mano che il sospetto si diffonde viralmente anche tra gli amici più cari e le persone che gli sono più vicine. Con l'unica eccezione di suo figlio (che non avrà mai dubbi sull'innocenza del padre) e di uno dei suoi amici (probabilmente quello meno coinvolto perché non ha i figli all'asilo dove lavora Lukas), tutti gli altri si troveranno divisi tra il dovere di proteggere i propri figli e la fiducia nel proprio amico.
L'elemento più interessante sta nella posizione in cui viene collocato lo spettatore rispetto ai protagonisti. Lo spettatore conosce la verità e guarda le reazioni e le dinamiche tra le persone dall'esterno, come studiasse la vita delle formiche in un ambiente sottovetro di laboratorio.
Inevitabilmente, dunque, si trova a esprimere giudizi e a prendere le distanze. Dai membri di questa comunità che sono trascinati in un'isteria collettiva che si trasforma presto in persecuzione e violenza, ma anche dallo stesso Lukas che, nel suo essere mite e introverso, non tenta mai di raccontare la sua verità, la sua versione dei fatti, vorrebbe che i suoi amici e le persone che gli vogliono bene lo credessero sulla parola o semplicemente guardandolo negli occhi, non fossero nemmeno sfiorati dal dubbio, e dunque finisce per isolarsi e prestarsi ancora di più al suo ruolo di capro espiatorio.
Al centro di tutto questo i bambini, Klara e gli altri che frequentano l'asilo, dotati di un loro complesso mondo di sentimenti senza avere ancora gli strumenti per gestire le criticità relazionali, un mondo che gli adulti non comprendono e perfino negano, nella convinzione di una loro presunta ingenuità e incapacità di dire bugie.
Da spettatori comprendiamo la sofferenza di Lukas, auspichiamo che si ribelli alla persecuzione di cui è oggetto, stigmatizziamo il comportamento degli amici e della comunità tutta che non concede a un suo membro neppure il beneficio del dubbio, ci sentiamo sollevati quando gli equilibri si ricompongono.
Thomas Vinterberg ci trascina in un gioco pesante, quello che ci porta a trasformarci a nostra volta in superficiali giudici delle reazioni degli altri, per costringerci a riflettere sul fatto che dall'interno non saremmo diversi da quell'umanità spaventata e confusa, cadremmo nella stessa trappola di vittima e carnefice da cui difficilmente si sfugge.
Nell'ultima scena l'angoscia che ci ha accompagnato per tutto il film e che sembrava essersi sciolta negli abbracci e nelle strette di mano di riconciliazione tra Lukas e i suoi concittadini si riaffaccia prepotentemente e ci fa capire che, di fronte a una ferita così profonda per tutti, è impossibile ricostruire un'innocenza e una verginità delle relazioni ormai irrimediabilmente perduta.
Mads Mikkelsen è straordinario nel ruolo di Lukas e Vinterberg si conferma grande osservatore delle pieghe oscure dell'animo umano e delle ipocrisie della società borghese.
Il limite del film sta - a mio parere - nel cedere a qualche tentazione didascalica che a tratti toglie credibilità alla tensione che si respira dal primo all'ultimo minuto.
Voto: 3,5/5
mercoledì 26 dicembre 2012
sabato 22 dicembre 2012
Thony (+ Mamavegas) al Lanificio 159, 13 dicembre 2012
Devo fare una premessa doverosa (e forse un po' lunga). Era la prima volta che andavo a un concerto al Lanificio 159 e il mio voto alla location e all'organizzazione dell'evento è bassissimo.
I motivi sono numerosi.
Innanzitutto, un colpevole e del tutto ingiustificabile ritardo nell'apertura delle porte con la scusa di un sound check che - come dirò dopo - non ha neppure prodotto i risultati sperati. Dalle 21-21,30 previste, le porte si sono aperte quasi alle 22,30, determinando una lunga fila su via di Pietralata e un congelamento di massa nell'atrio del locale. Il risultato di tutto questo è che il concerto di Thony (al secolo Federica Victoria Caiozzo) - dopo l'esibizione dei Mamavegas e il riallestimento del palco - è iniziato dopo le 23.30.
In secondo luogo, il palco è troppo basso per essere ben visibile e veramente alla portata di tutta la sala; a me la cosa non ha disturbato perché ero in prima fila con la mia macchina fotografica, ma credo che mi sarei alquanto incavolata se fossi entrata più tardi e mi fossi trovata molto indietro.
Terzo: le luci sul palco sono troppo fisse e piuttosto orribili. Nessun momento di luce chiara tra una canzone e l'altra per staccare e permettere un'atmosfera diversa, e soprattutto luci improponibili per fare delle foto decenti. Per fortuna ero talmente vicina che qualcosa di buono è venuto fuori lo stesso.
Quarto, la gestione dell'acustica è stata da voto sotto lo zero. Volumi degli strumenti e dei microfoni continuamente o troppo alti o troppo bassi, con risultati di amalgama dei suoni per niente soddisfacenti e conseguente fastidio dei cantanti e dei musicisti che hanno dovuto dialogare tutto il tempo con il tecnico del suono senza di fatto ottenerne nulla.
Infine - mi permetto di dirlo - anche il pubblico ha lasciato molto a desiderare (pur con qualche attenuante, giustificata dai punti precedenti): pubblico estremamente eterogeneo (in piccola parte venuto ad ascoltare solo i Mamavegas, in gran parte per Thony); un pubblico forse più abituato al cinema che alla musica, e complessivamente non molto rispettoso. Un paio di episodi per tutti: il ragazzo dalle retrovie che grida "Basta" durante il concerto dei Mamavegas (cosa che al Circolo degli artisti non mi è mai capitata, neppure con i peggiori cantanti spalla della storia, e questo non si può di certo dire per i Mamavegas); il vociare fastidiosissimo e crescente durante buona metà del concerto di Thony, in parte accentuato dalle sfavorevoli condizioni complessive (in ogni caso, dico io, ma se non si gradisce perché non si va via?).
Tutto questo ha finito per mettere in secondo - se non in terzo o quarto piano - i concerti, che invece si annunciavano molto interessanti.
Innanzitutto i Mamavegas, dei ragazzi (non più sbarbatelli) che proprio in questi giorni sono usciti con il loro nuovo album Hymn for the bad things che sta ricevendo un'ottima accoglienza e delle rimarchevoli recensioni. Semplici e appassionati della loro musica con una composizione molto eterogenea: un cantante che si esibisce anche alle percussioni, due chitarristi, un bassista, un pianista e un batterista, con ruoli in parte intercambiabili.
Magari non del tutto originali (ma quale musica lo è per davvero?), ma alcune tracce sono particolarmente incisive, vedi ad esempio Sooner or later (Time), Tales from 1946 (Love) e anche Mean and Proud (Beauty). Bella anche l'idea dei titoli dei brani che ne contengono un altro, ossia il riferimento a un tema universale di cui nel testo viene riproposta la lettura in chiave mamavegasiana. La partecipazione di Colapesce all'esecuzione di Blackfire è una interessante sorpresa.
Per il resto il gruppo appare affiatato e umile nell'approccio. E questo è un dono prezioso che spero non perderanno. Personalmente credo che la loro presenza sulla scena musicale - non solo italiana - è destinata a consolidarsi.
Ed eccoci a Thony. Come già sapete, l'avevo apprezzata molto come interprete di Tutti i santi giorni, ma ancora prima come cantante nel concerto in cui aveva fatto da apertura a Joan as Police Woman. Come ha detto la stessa Thony, l'avevo apprezzata in "tempi non sospetti".
L'ho adorata nel piccolo live acustico alla Libreria Feltrinelli di via Appia di qualche settimana fa. Atmosfera soffusa, un "folto numero di pochi intimi", un pubblico attento e innamorato. Una Thony in splendida forma fisica e sonora.
Il suo album, Birds, l'ho comprato quasi subito all'uscita e l'ho ascoltato moltissime volte (ne regalo alcune copie anche per Natale).
Insomma Thony mi piace, molto. E per questo dico che il concerto al Lanificio non le ha reso giustizia, non l'ha valorizzata come sarebbe stato giusto.
Lei è lì sempre con la sua aria semplice, da ragazza della porta accanto, scherza col pubblico, beve qualche sorso del suo vodka lemon, racconta i retroscena delle canzoni, anche con qualche commozione. Suona le sue tante chitarre, ci propone quasi tutto il suo repertorio, accompagnata dai suoi splendidi musicisti (menzione speciale per Livia e Leonardo).
L'ambizione del concerto è alta, si capisce che vuole proporci le sue canzoni in una chiave rinnovata, e sperimenta a livello di arrangiamenti e interpretazione. Anche con ottimi risultati. Però, nel contesto del Lanificio (e nelle condizioni che vi ho prima descritto) riesce a funzionare solo un sound dal taglio decisamente rock, come nel brano Sam, mentre sulle altre canzoni si sente la mancanza di un'atmosfera più intima e più acustica.
Ciò detto, Thony dimostra di avere grandi qualità ed enormi potenzialità musicali, oltre a confermarci una qualità umana che la fa apprezzare in ogni circostanza.
Insomma, il concerto dal punto di vista di chi già la conosceva è la conferma di un talento musicale che speriamo sappia preservarsi da ogni rischio e tipo di inquinamento. Ma la prossima volta, in un contesto più adatto, mi aspetto una vera e propria esplosione della sua musica e della sua voce.
martedì 18 dicembre 2012
Mario Giacomelli e Robert Doisneau a Roma
Ho dedicato la giornata dell’8 dicembre alla fotografia, andando a vedere due mostre attualmente in corso a Roma: Mario Giacomelli. Fotografie dall’Archivio di Luigi Crocenzi al Museo di Roma in Trastevere e Robert Doisneau. Paris en liberté al Palazzo delle Esposizioni.
La mattina io e M. andiamo a vedere la mostra su Giacomelli. Premetto che ne avevo vista una molto grande al FORMA di Milano, con tantissime fotografie e alcune delle serie complete per le quali è famoso, come ad esempio Io non ho mani che mi accarezzino il volto e A Silvia. A quel tempo la fotografia mi piaceva, ma ero soltanto agli inizi del mio percorso di avvicinamento non solo alla tecnica, ma anche all’approccio concettuale dell’arte fotografica. Per me fino a quel momento, fotografare significava sostanzialmente descrivere la realtà ed ero ancora ben lontana dall’idea che la fotografia è – al pari delle altre espressioni artistiche – un modo di ricostruire la realtà filtrata attraverso i propri occhi e il proprio cervello.
Quella mostra su Giacomelli, dunque, fors’anche per un allestimento che non mi aveva del tutto aiutato, non aveva lasciato su di me un grande segno. A distanza di anni, tornare a vedere le foto di questo grande maestro della fotografia del Novecento è stato molto emozionante. La mostra al Museo di Roma in Trastevere è una mostra piccola, perché le fotografie provengono dal solo archivio dell’amico Luigi Crocenzi, ma danno un’idea molto precisa della poetica fotografica di Mario Giacomelli che da una fotografia molto descrittiva si è spostato progressivamente verso una fotografia in qualche modo sempre più astratta e concettuale, in cui i segni diventano di per se stessi messaggi.
Questo percorso va di pari passo con l’affinarsi di una tecnica fotografica che, soprattutto in camera oscura e nel momento della stampa, riesce a ottenere dal bianco e nero effetti inediti e sorprendenti. Oltre alle famose foto dei pretini del Seminario di Senigallia della serie Io non ho mani che mi accarezzino il volto e le strepitose foto della campagna marchigiana, è difficile non restare colpiti dalle foto della serie Ospizio o da quelle di Mattatoio. Io personalmente sono rimasta incantata davanti a una delle foto della serie Mare che mi ha ricordato la scena finale di Nuovomondo, il film di Crialese, con il bagno degli emigranti in un mare di latte.
Certo manca in questa mostra la completezza delle serie che in alcuni casi è indispensabile per comprendere e apprezzare la singola foto (come ad esempio nel caso di A Silvia ispirata alla famosa poesia di Leopardi), però l’archivio di Crocenzi ci permette una specie di scoperta sintetica di Giacomelli che non potrà che produrre ulteriori curiosità.
La mattina io e M. andiamo a vedere la mostra su Giacomelli. Premetto che ne avevo vista una molto grande al FORMA di Milano, con tantissime fotografie e alcune delle serie complete per le quali è famoso, come ad esempio Io non ho mani che mi accarezzino il volto e A Silvia. A quel tempo la fotografia mi piaceva, ma ero soltanto agli inizi del mio percorso di avvicinamento non solo alla tecnica, ma anche all’approccio concettuale dell’arte fotografica. Per me fino a quel momento, fotografare significava sostanzialmente descrivere la realtà ed ero ancora ben lontana dall’idea che la fotografia è – al pari delle altre espressioni artistiche – un modo di ricostruire la realtà filtrata attraverso i propri occhi e il proprio cervello.
Quella mostra su Giacomelli, dunque, fors’anche per un allestimento che non mi aveva del tutto aiutato, non aveva lasciato su di me un grande segno. A distanza di anni, tornare a vedere le foto di questo grande maestro della fotografia del Novecento è stato molto emozionante. La mostra al Museo di Roma in Trastevere è una mostra piccola, perché le fotografie provengono dal solo archivio dell’amico Luigi Crocenzi, ma danno un’idea molto precisa della poetica fotografica di Mario Giacomelli che da una fotografia molto descrittiva si è spostato progressivamente verso una fotografia in qualche modo sempre più astratta e concettuale, in cui i segni diventano di per se stessi messaggi.
Questo percorso va di pari passo con l’affinarsi di una tecnica fotografica che, soprattutto in camera oscura e nel momento della stampa, riesce a ottenere dal bianco e nero effetti inediti e sorprendenti. Oltre alle famose foto dei pretini del Seminario di Senigallia della serie Io non ho mani che mi accarezzino il volto e le strepitose foto della campagna marchigiana, è difficile non restare colpiti dalle foto della serie Ospizio o da quelle di Mattatoio. Io personalmente sono rimasta incantata davanti a una delle foto della serie Mare che mi ha ricordato la scena finale di Nuovomondo, il film di Crialese, con il bagno degli emigranti in un mare di latte.
Certo manca in questa mostra la completezza delle serie che in alcuni casi è indispensabile per comprendere e apprezzare la singola foto (come ad esempio nel caso di A Silvia ispirata alla famosa poesia di Leopardi), però l’archivio di Crocenzi ci permette una specie di scoperta sintetica di Giacomelli che non potrà che produrre ulteriori curiosità.
In serata vado, invece, con degli amici a vedere la mostra su Robert Doisneau al Palazzo delle Esposizioni. A dire il vero qui è in corso anche una mostra sulla Cina, La via della seta, che però saltiamo a piè pari per dirigerci direttamente nell’ala dedicata a Doisneau.
Innanzitutto, i miei complimenti per l’allestimento (pur abbastanza consolidato in questa zona del Palazzo delle esposizioni). La sensazione è proprio quella di una lunga passeggiata nella città di Parigi tenuti per mano da Doisneau attraverso le sue foto e le sue parole.
Nella nostra mente la produzione di questo fotografo è legata a 3-4 fotografie che hanno avuto un successo straordinario, finendo in poster, cartoline, pubblicità e altro (nonché nella locandina della mostra, per cui forse si sarebbe potuto osare di più). In particolare, nessuno credo ignori Le baiser de l’Hotel de Ville (che è appunto la foto della locandina e di cui vi invito a scoprire i retroscena nell’intervista alla figlia del fotografo nel video allegato, anche se si riferisce a un’altra mostra). Questa conoscenza del tutto superficiale di Doisneau e la sensazione di una fotografia molto estetica e stereotipata erano il motivo principale per cui stavo quasi per perdermi questa mostra.
Per fortuna diversi amici me ne avevano parlato bene e così – complice anche la presenza di M. a Roma – mi sono convinta ad andarci. E per fortuna!
La mostra rivela un fotografo di straordinaria ironia e umanità che è certamente sintetizzato da questa sua frase: “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere.”
Insomma, Doisneau ci offre l’immagine della Parigi e dei parigini come li vorrebbe, in cui prevalgono la leggerezza, l’ironia, il contrasto tra un bigottismo piccolo-borghese di superficie e una grande libertà di costumi.
Non mancate di leggere tutti i titoli delle sue fotografie, che rivelano la sottile ironia del fotografo, che combinando parole e immagini suggerisce percorsi mentali inediti e fa affiorare in moltissime occasioni un sorriso sulle labbra. Vedere le foto di Doisneau produce buonumore, mette in contatto con gli spazi di bellezza della vita, con la componente gioiosa e comica, lasciandone fuori la tragicità.
Bellissimi e sorprendenti anche i grandi pannelli con le composizioni di foto da lui stesso realizzate per le esposizioni, nel tentativo di dare alla fotografia una narratività quasi cinematografica e una forte componente scenografica che sono in generale molto presenti nell’opera di Doisneau.
Insomma, Doisneau ci offre l’immagine della Parigi e dei parigini come li vorrebbe, in cui prevalgono la leggerezza, l’ironia, il contrasto tra un bigottismo piccolo-borghese di superficie e una grande libertà di costumi.
Non mancate di leggere tutti i titoli delle sue fotografie, che rivelano la sottile ironia del fotografo, che combinando parole e immagini suggerisce percorsi mentali inediti e fa affiorare in moltissime occasioni un sorriso sulle labbra. Vedere le foto di Doisneau produce buonumore, mette in contatto con gli spazi di bellezza della vita, con la componente gioiosa e comica, lasciandone fuori la tragicità.
Bellissimi e sorprendenti anche i grandi pannelli con le composizioni di foto da lui stesso realizzate per le esposizioni, nel tentativo di dare alla fotografia una narratività quasi cinematografica e una forte componente scenografica che sono in generale molto presenti nell’opera di Doisneau.
Dalle sue foto traspira un amore smisurato e quasi commovente per la città di Parigi. Come ci racconta sua figlia, Francina Déroudille, nel video allegato a questo post, in realtà Doisneau proveniva dalla banlieu parigina e forse proprio per questo ha sempre guardato Parigi con gli occhi di un bambino davanti a una vetrina di Natale.
Mario Giacomelli e Robert Doisneau mi hanno ricordato la magia della fotografia, in cui il confine tra vero e falso, tra finzione e realtà è molto sottile e molto difficile da individuare, perché la verità non deriva da una rappresentazione necessariamente naturalistica o spontanea, ma dall’autenticità dei sentimenti che il fotografo trasmette alla pellicola, dalla sincerità della visione della realtà che egli traduce in maniera del tutto personale e inimitabile attraverso il proprio obiettivo.
Che voglia di tornare a fotografare!
Che voglia di tornare a fotografare!
Voto: 4/5
giovedì 13 dicembre 2012
Moonrise kingdom - Una fuga d'amore
Per protesta non utilizzerò la locandina con cui questo film è stato presentato in Italia. È evidente che la scelta italiana vuole richiamarsi alla locandina de I Tenenbaum, il film più famoso di Wes Anderson, e dunque utilizzare la scena affollata di attori (per buona parte famosi) come richiamo pubblicitario.
Niente però racconta meglio il film della locandina originale, che vedete qui accanto, che sembra la copertina di un libro di avventura per ragazzi, di quelli che piacciono tanto alla protagonista, Suzy (Kara Hayward), quei libri che prende in biblioteca e che forse un giorno restituirà, e che legge ad alta voce prima a Sam (Jared Gilman) e poi all'intero gruppo dei khaki scouts.
Il film è ambientato alla metà degli anni Sessanta ed è una fuga d'amore, di Suzy da una famiglia indifferente e che non la capisce, e di Sam dal campo dei khaki scout, dove dominano le procedure del nonsenso.
La loro fuga manda in frantumi gli equilibri surreali della piccola comunità che vive sull'isola del New England in cui è ambientata la storia e che sta per essere colpita da un terribile nubifragio.
La loro fuga manda in frantumi gli equilibri surreali della piccola comunità che vive sull'isola del New England in cui è ambientata la storia e che sta per essere colpita da un terribile nubifragio.
Come nella suite didattica "Young Person's Guide to the Orchestra" di Benjamin Britten con cui si apre il film e a cui si richiama anche la musica sui titoli di coda, l'orchestra si scompone, lasciando ciascuno strumento a suonare da solo. Ma il colpo da maestro di Suzy e Sam spariglia le carte per poi ricomporle, ricostruisce l'unità dell'orchestra solo quando ciascuno ha ritrovato il proprio ruolo.
Sam e Suzy - che gli altri considerano bambini problematici e disadattati - hanno le idee molto chiare su se stessi e sulla vita che vogliono vivere. Si inventano piccoli anti-eroi del quotidiano, capaci di affrontare e superare mille peripezie con un mix di conoscenza e fantasia che solo i bambini possono avere.
Intorno a loro un mondo di adulti confuso e deresponsabilizzato, buffo nel dimostrarsi continuamente incapace e non all'altezza.
Intorno a loro un mondo di adulti confuso e deresponsabilizzato, buffo nel dimostrarsi continuamente incapace e non all'altezza.
Moonrise kingdom è una via di mezzo tra una fiaba per ragazzi e un cartone animato vintage. È un mondo guardato dagli occhi di Suzy e Sam, anzi - per essere più precisi - attraverso il binocolo di Suzy e gli occhiali con la montatura scura di Sam. Un mondo amplificato, ipercolorato, surreale, magico, trasgressivamente innocente, pieno di scoperte e di avventure, in cui gli adulti appaiono buffi e insensati, a volte lontani e cinici, insomma il mondo in cui tutti noi bambini abbiamo vissuto, ma che forse abbiamo dimenticato, e che Anderson è bravissimo nell'aiutarci a ricordare.
Voto: 4/5
P.S. E per farvi entrare nello spirito del film ho raccolto in rete altre locandine o pseudo-locandine che raccontano il film attraverso una serie di scene e dettagli significativi disegnati come su un libro per bambini da colorare e/o da ritagliare.
*****************************************
martedì 11 dicembre 2012
Maximilian Hecker (+ Felix Räuber) al Black Market, 7 dicembre 2012
Questo è il resoconto di una serata
surreale, che entra di diritto negli annali delle cose più assurde che
mi siano successe a Roma.
Qualche giorno dopo scopro che venerdì 7 dicembre, la data del concerto, viene a trovarmi il mio amico M., che a quel punto non so se posso portare con me, anzi sono quasi sicura di no, visto che le mail che mi arrivano parlano tutte di sold out per il concerto di Hecker.
La sera diluvia, ma noi imperterriti, con la Panda del car sharing, ci dirigiamo al Black Market in via Panisperna, dove innanzitutto dobbiamo fare una tessera di soci. M. è il primo della lista in caso di rinunce al concerto, a quel punto sappiamo che quasi sicuramente entrerà e intanto ci beviamo un bicchiere di vino.
Nel frattempo spiego a M. chi è Maximilian Hecker (qualche ora prima gli avevo fatto ascoltare qualche canzone dall’album Rose), questo cantante tedesco dalla vena estremamente romantica e malinconica che mi ha conquistata con l’album I’ll be a virgin, I’ll be a mountain, mentre ho ascoltato solo su Internet alcune canzoni dal suo ultimo album Mirage of a bliss.
La sala dove si terrà il concerto è una sala che può contenere al massimo una cinquantina di persone, alcuni seduti su panche addossate ai muri, altri su sedie, altri a terra sui cuscini. M. è troppo alto e si siede sulla panca, io a terra sperando che la mia schiena non gridi vendetta. Sono già pronta a scattare con la mia fidata Nikon. Peccato che la sala è illuminata quasi solo da candele, per cui l’uso del flash è praticamente inevitabile e per di più la posizione scomodissima rende difficile inquadrare in maniera sensata, evitando teste e microfoni!
Maximilian Hecker è accompagnato sul palco da un ragazzotto biondo e un po’ effeminato che si presenta come Felix Räuber. Scopro solo a posteriori, cercando su Internet, che si tratta del leader della band tedescxa Polarkreis18, una specie di boyband che è stata in vetta alle classifiche tedesche qualche anno fa con il singolo Allein allein, in Italia mai arrivato e mai sentito (per fortuna!).
Si capisce a quel punto che il vero protagonista della serata sarà Felix, il quale con le sue interpretazioni che vanno dalla migliore tradizione delle boyband alla voce da castrato di Farinelli, rilegge in modo decisamente astruso le canzoni di Hecker.
Dall’altro lato non si può dire che Hecker sprizzi simpatia e allegria da tutti i pori. Il suo volto triste, l’atmosfera lugubre rendono le sue canzoni quasi una sofferenza.
Al principio Hecker cerca anche di scherzare col pubblico, ma Felix occupa qualunque spazio come una primadonna frustrata. È probabilmente un po’ brillo, e dunque certamente un po’ straparla e un po’ esagera in quasi tutto quello che fa. Non riesco esattamente a capire se Hecker è in imbarazzo, inca**ato nero, semplicemente depresso in generale, oppure totalmente indifferente alla cosa.
M. alla mia sinistra ogni tanto si addormenta, salvo svegliarsi agli acuti di Felix.
Il pubblico si guarda un po’ sconcertato.
Si arriva così all’ultima canzone, dopo la quale Maximilian Hecker si allontana. Nessuno lo richiama sul palco. Torna di sua iniziativa Felix, che ci impone un suo bis e a un certo punto si siede al pianoforte intonando la sua canzone più famosa Allein allein e pretendendo che il pubblico italiano, al suo cenno, ne intoni il ritornello come secondo lui accade continuamente in Germania. Peccato che in sala si faccia il silenzio, mentre la gran parte del pubblico mette il cappotto per andare via.
Fuori dalla sala c’è Maximilian Hecker seduto al suo sgabellino che firma i manifesti del concerto e vende i CD. Ha sempre un’aria triste e sperduta. Riesco a fargli una foto in cui finalmente accenna a un sorriso. Il manifesto del concerto è molto bello (lo vedete in testa a questo post! Complimenti a Sabrina Gabrielli) e me lo faccio firmare. A questo punto perché non farsi fare anche una foto? ;-)
Nel frattempo ecco anche Felix. Io e M. non perdiamo l’occasione di dargli da parlare. Non solo ci firma anche lui i manifesti con tanto di dedica (non aspettava altro!), ma ci racconta la sua vita in 5 minuti e ci chiede un sacco di cose… Arriva la conferma che il ragazzo è un po’ brillo e forse in generale un po’ fuori di melone….
Quando usciamo sta ancora diluviando. Noi stiamo ridendo a crepapelle, come due bambini, come due matti. La mattina dopo ascoltiamo su YouTube Allein allein e per tutto il giorno intoniamo il ritornello e ridiamo.
Meglio non dare un voto a questo concerto. Certo difficilmente tornerò ad ascoltare Hecker, che - come dice M. - dal vivo è un po’ troppo deprimente, però ci ricorderemo a lungo di questa buffissima serata.
Non posso concludere, però, senza farvi ascoltare Allein allein, così siete preparati per il prossimo concerto di Felix in Italia ;-)
Tutto comincia qualche settimana fa, quando gironzolando su Internet mi accorgo che Maximilian Hecker suona a Roma, in un posto che non avevo mai sentito nominare, il Black Market a Monti. Scopro che si tratta di un circolo privato in cui si svolge una manifestazione che si chiama Unplugged in Monti alle cui spalle ci sono gli animatori del sito indieforbunnies.
Le modalità per partecipare al concerto non sono convenzionali. Bisogna, infatti, innanzitutto iscriversi a una mailing list e aspettare che si aprano le iscrizioni per ciascun concerto, cosa che avviene con l’invio di una mail, sperando di essere connessi quando accadrà. E così accade. Mi iscrivo e ricevo quasi immediatamente la conferma della partecipazione al concerto. Qualche giorno dopo scopro che venerdì 7 dicembre, la data del concerto, viene a trovarmi il mio amico M., che a quel punto non so se posso portare con me, anzi sono quasi sicura di no, visto che le mail che mi arrivano parlano tutte di sold out per il concerto di Hecker.
La sera diluvia, ma noi imperterriti, con la Panda del car sharing, ci dirigiamo al Black Market in via Panisperna, dove innanzitutto dobbiamo fare una tessera di soci. M. è il primo della lista in caso di rinunce al concerto, a quel punto sappiamo che quasi sicuramente entrerà e intanto ci beviamo un bicchiere di vino.
Nel frattempo spiego a M. chi è Maximilian Hecker (qualche ora prima gli avevo fatto ascoltare qualche canzone dall’album Rose), questo cantante tedesco dalla vena estremamente romantica e malinconica che mi ha conquistata con l’album I’ll be a virgin, I’ll be a mountain, mentre ho ascoltato solo su Internet alcune canzoni dal suo ultimo album Mirage of a bliss.
La sala dove si terrà il concerto è una sala che può contenere al massimo una cinquantina di persone, alcuni seduti su panche addossate ai muri, altri su sedie, altri a terra sui cuscini. M. è troppo alto e si siede sulla panca, io a terra sperando che la mia schiena non gridi vendetta. Sono già pronta a scattare con la mia fidata Nikon. Peccato che la sala è illuminata quasi solo da candele, per cui l’uso del flash è praticamente inevitabile e per di più la posizione scomodissima rende difficile inquadrare in maniera sensata, evitando teste e microfoni!
Maximilian Hecker è accompagnato sul palco da un ragazzotto biondo e un po’ effeminato che si presenta come Felix Räuber. Scopro solo a posteriori, cercando su Internet, che si tratta del leader della band tedescxa Polarkreis18, una specie di boyband che è stata in vetta alle classifiche tedesche qualche anno fa con il singolo Allein allein, in Italia mai arrivato e mai sentito (per fortuna!).
Si capisce a quel punto che il vero protagonista della serata sarà Felix, il quale con le sue interpretazioni che vanno dalla migliore tradizione delle boyband alla voce da castrato di Farinelli, rilegge in modo decisamente astruso le canzoni di Hecker.
Dall’altro lato non si può dire che Hecker sprizzi simpatia e allegria da tutti i pori. Il suo volto triste, l’atmosfera lugubre rendono le sue canzoni quasi una sofferenza.
Al principio Hecker cerca anche di scherzare col pubblico, ma Felix occupa qualunque spazio come una primadonna frustrata. È probabilmente un po’ brillo, e dunque certamente un po’ straparla e un po’ esagera in quasi tutto quello che fa. Non riesco esattamente a capire se Hecker è in imbarazzo, inca**ato nero, semplicemente depresso in generale, oppure totalmente indifferente alla cosa.
M. alla mia sinistra ogni tanto si addormenta, salvo svegliarsi agli acuti di Felix.
Il pubblico si guarda un po’ sconcertato.
Si arriva così all’ultima canzone, dopo la quale Maximilian Hecker si allontana. Nessuno lo richiama sul palco. Torna di sua iniziativa Felix, che ci impone un suo bis e a un certo punto si siede al pianoforte intonando la sua canzone più famosa Allein allein e pretendendo che il pubblico italiano, al suo cenno, ne intoni il ritornello come secondo lui accade continuamente in Germania. Peccato che in sala si faccia il silenzio, mentre la gran parte del pubblico mette il cappotto per andare via.
Fuori dalla sala c’è Maximilian Hecker seduto al suo sgabellino che firma i manifesti del concerto e vende i CD. Ha sempre un’aria triste e sperduta. Riesco a fargli una foto in cui finalmente accenna a un sorriso. Il manifesto del concerto è molto bello (lo vedete in testa a questo post! Complimenti a Sabrina Gabrielli) e me lo faccio firmare. A questo punto perché non farsi fare anche una foto? ;-)
Nel frattempo ecco anche Felix. Io e M. non perdiamo l’occasione di dargli da parlare. Non solo ci firma anche lui i manifesti con tanto di dedica (non aspettava altro!), ma ci racconta la sua vita in 5 minuti e ci chiede un sacco di cose… Arriva la conferma che il ragazzo è un po’ brillo e forse in generale un po’ fuori di melone….
Quando usciamo sta ancora diluviando. Noi stiamo ridendo a crepapelle, come due bambini, come due matti. La mattina dopo ascoltiamo su YouTube Allein allein e per tutto il giorno intoniamo il ritornello e ridiamo.
Meglio non dare un voto a questo concerto. Certo difficilmente tornerò ad ascoltare Hecker, che - come dice M. - dal vivo è un po’ troppo deprimente, però ci ricorderemo a lungo di questa buffissima serata.
Non posso concludere, però, senza farvi ascoltare Allein allein, così siete preparati per il prossimo concerto di Felix in Italia ;-)
domenica 9 dicembre 2012
Jens Lekman al Circolo degli Artisti, 5 dicembre 2012
Dopo il concerto di mercoledì 5 dicembre, ho capito che per me la musica si divide in quattro categorie: quella che proprio non mi piace, quella che mi piace in qualunque circostanza, quella che ha senso soprattutto se ascoltata in cuffia e quella che prende vita soprattutto se ascoltata dal vivo.
La musica di Jens Lekman appartiene a quest’ultima categoria. A casa avevo da tempo il suo CD Night falls over Kortedala e recentemente mi ero procurata anche il suo ultimo, I know what love isn’t. Avevo ascoltato abbastanza volentieri soprattutto quest’ultimo, mentre il primo mi aveva lasciata quasi indifferente.
Quando però vedo il suo concerto in programma al Circolo degli Artisti decido di andarci perché mi fa sempre piuttosto piacere ascoltare dal vivo la musica che già conosco, soprattutto se tale risultato si può ottenere a prezzi contenuti!
E così, eccomi mercoledì 5 dicembre, quando a Roma il freddo comincia a farsi sentire sul serio, al Circolo per il concerto di Lekman, ma senza grandi aspettative. Apre la serata Chris Cohen e la sua band. Io non l’avevo mai sentito nominare, ma sono sempre aperta ad ascoltare cose nuove. La performance però non mi entusiasma. Cohen è un bravo batterista e un buon cantante, il suo gruppo è formato da un chitarrista e un bassista, cui si aggiunge un ragazzotto con il cappello col pon pon alle tastiere. I ragazzi ci credono e sul palco si impegnano molto. Ma un approccio esageratamente triste e malinconico, soprattutto del leader, e la ricerca di un virtuosismo e a volte di dissonanze eccessive lasciano nel complesso un po’ spiazzati.
Ma ecco sul palco Jens Lekman e la sua band: lui con il suo immancabile cappellino e la sua chitarra si presenta e dice di venire da Gotheborg, poi ci sono due ragazze bionde, una al basso e una – dolcissima e molto sorridente – al violino; infine un ragazzone biondissimo alle tastiere e un giovane con la montatura scura – che mi ricorda mio nipote – alla batteria. L’insieme è gradevolissimo. Loro sono molto carini, si guardano e si sorridono tutti, sentono il pubblico e danno il massimo.
Lekman chiacchiera moltissimo e ci racconta quasi sempre i retroscena dei testi delle canzoni che sta per cantare. Così ci racconta come sono nate canzoni come Waiting for Kirsten, A postcard to Nina e I know what love isn’t. Ci delizia con il suo stile un po’ da menestrello e con la sua ironia dolce, suonando e cantando molte delle canzoni del suo ultimo album e anche numerose degli album precedenti.
Non c’è noia. Perché Lekman e il suo gruppo sanno anche scaldare l’atmosfera con inserti quasi dance e con divertenti raccordi tra le canzoni. Molti nel pubblico conoscono la sua musica e riescono a seguirlo nei ritornelli. Il concerto è un crescendo di emozioni e di empatia tra la band di Lekman e il pubblico, tanto che alla fine è praticamente scontato il loro ritorno in scena per un bis. Non è altrettanto scontato l’ulteriore ritorno in scena di Jens Lekman da solo che canta senza band Pocketful of money (e il suo ritornello I'll come running with a heart on fire) e il pubblico lo segue con lo schiocco delle dita, il ritornello come sottofondo, il battito delle mani. Ne viene fuori una entusiasmante versione a cappella.
Chi è che diceva che questi svedesi sono tristi e noiosi? Andare ad ascoltare un concerto di Lekman per convincersi del contrario.
Voto: 4/5
giovedì 6 dicembre 2012
Respiro corto / Massimo Carlotto
Respiro corto / Massimo Carlotto. Torino: Einaudi, 2012.
Se correte al cinema ogniqualvolta c'è uno di quei film che raccontano complicate storie in cui mafia, polizia, finanza e politica si intrecciano muovendosi su uno scacchiere internazionale al solo scopo di accumulare barche di soldi con metodi quasi sempre illeciti, questo è il libro che fa per voi.
Eh sì, perché in questo nuovo noir di Carlotto (non ho letto i precedenti) la storia si svolge a Marsiglia, ma in realtà la città francese non è altro che il crocevia di un intrigo internazionale di cui sono protagonisti un boss della mala marsigliese, una poliziotta che usa metodi poco ortodossi e la sua squadra di poliziotti emarginati, un narcotrafficante dai metodi spicci, un gruppo di magnati della finanza e della politica e quattro giovani di buona famiglia, che hanno studiato a Leeds ma sono decisi a utilizzare le loro specializzazioni per far soldi illegalmente sotto la copertura di attività legali, nel perfetto stile della criminalità del XXI secolo.
La narrazione molto cinematografica di Carlotto non risparmia complessità all'intreccio né crudezza al racconto. Il che fa sì che la lettura proceda spedita fino all'ultima pagina (cercando di tenere bene a mente i nomi veri dei personaggi e i soprannomi che assumono nel corso della storia).
In questo romanzo sono tutti cattivi e senza redenzione. E lì per lì la cosa funziona e affascina, stanchi di libri in cui non mancano mai buoni ed eroi, poco realistici se confrontati con l'esperienza quotidiana.
Però c'è qualcosa che non torna. La storia e i personaggi sono un po' troppo sopra le righe per i miei gusti. E il tutto sembra costruito per garantire un infinito sequel, che magari arriverà se questo romanzo avrà successo.
Magari è solo che io quei film li evito come la peste, perché mi sembrano un po' tutti uguali. E così anche questo libro mi è sembrato un po' banale. O forse sono troppo sentimentale e se in un film come in un libro non mi si piazza almeno un personaggio o una storia che faccia appello ai sentimenti non sono contenta ;-)
Voto: 2/5
Se correte al cinema ogniqualvolta c'è uno di quei film che raccontano complicate storie in cui mafia, polizia, finanza e politica si intrecciano muovendosi su uno scacchiere internazionale al solo scopo di accumulare barche di soldi con metodi quasi sempre illeciti, questo è il libro che fa per voi.
Eh sì, perché in questo nuovo noir di Carlotto (non ho letto i precedenti) la storia si svolge a Marsiglia, ma in realtà la città francese non è altro che il crocevia di un intrigo internazionale di cui sono protagonisti un boss della mala marsigliese, una poliziotta che usa metodi poco ortodossi e la sua squadra di poliziotti emarginati, un narcotrafficante dai metodi spicci, un gruppo di magnati della finanza e della politica e quattro giovani di buona famiglia, che hanno studiato a Leeds ma sono decisi a utilizzare le loro specializzazioni per far soldi illegalmente sotto la copertura di attività legali, nel perfetto stile della criminalità del XXI secolo.
La narrazione molto cinematografica di Carlotto non risparmia complessità all'intreccio né crudezza al racconto. Il che fa sì che la lettura proceda spedita fino all'ultima pagina (cercando di tenere bene a mente i nomi veri dei personaggi e i soprannomi che assumono nel corso della storia).
In questo romanzo sono tutti cattivi e senza redenzione. E lì per lì la cosa funziona e affascina, stanchi di libri in cui non mancano mai buoni ed eroi, poco realistici se confrontati con l'esperienza quotidiana.
Però c'è qualcosa che non torna. La storia e i personaggi sono un po' troppo sopra le righe per i miei gusti. E il tutto sembra costruito per garantire un infinito sequel, che magari arriverà se questo romanzo avrà successo.
Magari è solo che io quei film li evito come la peste, perché mi sembrano un po' tutti uguali. E così anche questo libro mi è sembrato un po' banale. O forse sono troppo sentimentale e se in un film come in un libro non mi si piazza almeno un personaggio o una storia che faccia appello ai sentimenti non sono contenta ;-)
Voto: 2/5
lunedì 3 dicembre 2012
La nave dolce
Il documentario di Daniele Vicari (lo stesso di Diaz) racconta del viaggio della nave Vlora (che proveniva da Cuba e trasportava un carico di zucchero) dal porto di Durazzo a quello di Bari con quasi 20.000 albanesi a bordo, nell'agosto del 1991. Lo fa utilizzando immagini di repertorio provenienti dagli archivi audiovisivi albanesi e soprattutto dagli archivi delle televisioni locali (tra cui la televisione nata nel mio paese natale, Telenorba) e nazionali italiane, cui si aggiungono le testimonianze dirette dei protagonisti: il capitano della nave, alcuni degli albanesi sbarcati in Italia, funzionari e amministratori locali coinvolti nella gestione dell'emergenza.
Il regista tenta di mostrare il volto vero di questa invasione pacifica al di là delle narrazioni mediatiche che ne hanno accentuato i caratteri apocalittici, le conseguenze nefaste per la società italiana, le intenzioni malevole degli immigrati. Soltanto guardando con sguardo limpido e ascoltando con orecchie non inquinate viene fuori l’immagine di un’emigrazione di massa non pianificata, del tutto casuale, spesso non ponderata e non sostenibile, in cui ognuno si portava dietro la propria personale speranza di una vita migliore, il proprio sogno nel cassetto, il bisogno della fuga dal regime, la necessità di una prospettiva.
Tutti sogni che, finendo rinchiusi nello stadio della Vittoria di Bari, si sono scontrati con la paura, la fame, l’istinto di sopravvivenza, l’umiliazione, la perdita della dignità trasformandosi presto in incubi, facendo emergere la totale impreparazione delle autorità italiane a gestire una situazione del genere fino all’inevitabile strappo istituzionale tra il governo locale e quello centrale.
Di fronte a questo film io mi sento parte in causa, perché mi ricordo perfettamente quegli anni, il numero crescente di albanesi che arrivavano nei nostri paesi con tutto il carico di timori e pregiudizi giustificati e ingiustificati da parte della popolazione locale. Nello stesso tempo, mi sento di parte, perché riconosco nella reazione della popolazione civile e della gran parte di coloro che localmente furono coinvolti nelle operazioni i tratti tipici dell’accoglienza e della generosità della mia terra, che – sebbene spesso in maniera disordinata e un po’ naif – è in grado però di aprirsi allo straniero senza sentirsi veramente minacciata, se non dai fantasmi che autorità e media vogliono diffondere.
Non posso non provare un moto di affetto per questi albanesi intervistati che allora sembravano venire da un mondo fermo almeno cinquant’anni prima rispetto al nostro e che ora sono indistinguibili dagli italiani. Albanesi che, essendo rimasti in buona parte in Puglia, parlano la lingua italiana con la stessa inflessione mia e dei miei conterranei e hanno le nostre stesse movenze.
Oggi che l’Albania vive un momento di crescita economica, mentre l’Italia attraversa una pesantissima fase recessiva, sono altri i disperati alla ricerca di un sogno che guardano alle nostre coste come alla terra promessa. E però la storia si ripete, senza che i nostri governi siano in grado di dare una risposta globale a problemi che hanno forti ripercussioni locali, alimentando una guerra tra poveri su cui molta politica ha costruito il proprio successo.
Vicari ci regala questa ricostruzione agrodolce, con molti tratti d’ombra, ma anche qualche elemento di luce, con molta sofferenza, ma anche tanti sorrisi di chi ha continuato a guardare al futuro con speranza e fiducia.
Voto: 3,5/5
Il regista tenta di mostrare il volto vero di questa invasione pacifica al di là delle narrazioni mediatiche che ne hanno accentuato i caratteri apocalittici, le conseguenze nefaste per la società italiana, le intenzioni malevole degli immigrati. Soltanto guardando con sguardo limpido e ascoltando con orecchie non inquinate viene fuori l’immagine di un’emigrazione di massa non pianificata, del tutto casuale, spesso non ponderata e non sostenibile, in cui ognuno si portava dietro la propria personale speranza di una vita migliore, il proprio sogno nel cassetto, il bisogno della fuga dal regime, la necessità di una prospettiva.
Tutti sogni che, finendo rinchiusi nello stadio della Vittoria di Bari, si sono scontrati con la paura, la fame, l’istinto di sopravvivenza, l’umiliazione, la perdita della dignità trasformandosi presto in incubi, facendo emergere la totale impreparazione delle autorità italiane a gestire una situazione del genere fino all’inevitabile strappo istituzionale tra il governo locale e quello centrale.
Di fronte a questo film io mi sento parte in causa, perché mi ricordo perfettamente quegli anni, il numero crescente di albanesi che arrivavano nei nostri paesi con tutto il carico di timori e pregiudizi giustificati e ingiustificati da parte della popolazione locale. Nello stesso tempo, mi sento di parte, perché riconosco nella reazione della popolazione civile e della gran parte di coloro che localmente furono coinvolti nelle operazioni i tratti tipici dell’accoglienza e della generosità della mia terra, che – sebbene spesso in maniera disordinata e un po’ naif – è in grado però di aprirsi allo straniero senza sentirsi veramente minacciata, se non dai fantasmi che autorità e media vogliono diffondere.
Non posso non provare un moto di affetto per questi albanesi intervistati che allora sembravano venire da un mondo fermo almeno cinquant’anni prima rispetto al nostro e che ora sono indistinguibili dagli italiani. Albanesi che, essendo rimasti in buona parte in Puglia, parlano la lingua italiana con la stessa inflessione mia e dei miei conterranei e hanno le nostre stesse movenze.
Oggi che l’Albania vive un momento di crescita economica, mentre l’Italia attraversa una pesantissima fase recessiva, sono altri i disperati alla ricerca di un sogno che guardano alle nostre coste come alla terra promessa. E però la storia si ripete, senza che i nostri governi siano in grado di dare una risposta globale a problemi che hanno forti ripercussioni locali, alimentando una guerra tra poveri su cui molta politica ha costruito il proprio successo.
Vicari ci regala questa ricostruzione agrodolce, con molti tratti d’ombra, ma anche qualche elemento di luce, con molta sofferenza, ma anche tanti sorrisi di chi ha continuato a guardare al futuro con speranza e fiducia.
Voto: 3,5/5
Etichette:
Bari,
cinema,
Daniele Vicari,
La nave dolce,
Nave Vlora,
Puglia
mercoledì 28 novembre 2012
Amour
Michael Haneke ci ha abituati ad uno stile cinematografico che non ha paura di rappresentare situazioni, sentimenti, tratti di umanità che tendiamo a rimuovere dalla nostra vista e dei nostri pensieri. La nostra percezione del cinema come spazio di evasione o esperienza catartica tendenzialmente ci fa rifiutare l'approccio - in qualche modo estremo - di Haneke.
Ed effettivamente bisogna essere preparati a vedere un suo film, sapere cosa ci aspetta, dunque scegliere o meno di vederlo.
In Amour il tema portato sullo schermo da Haneke è la vecchiaia, non quella edulcorata che di solito i mezzi di comunicazione di massa ci propongono, fatta di vecchietti arzilli che giocano con i nipoti e che vanno a ballare, ma quella purtroppo molto reale del decadimento fisico, della malattia, della perdita della dignità, della solitudine, della morte.
Nel ritmo volutamente lentissimo che rispecchia i movimenti di Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (Jean-Louis Trintignant), negli ambienti volutamente rappresentati in maniera angusta così come sono percepiti dai protagonisti, nella totale assenza di un mondo esterno - dal quale i due anziani si ritirano, nulla ci viene risparmiato della sofferenza fisica e psicologica della vecchiaia.
Paradossalmente, il fatto che questo decadimento riguardi una coppia che si ama ancora molto, dopo aver trascorso una vita insieme e aver condiviso gioie e passioni, accentua - anziché ridurre - la sofferenza. Perché il coinvolgimento emotivo rende intollerabile per chi è malato l'idea di diventare un peso per l'altro e per chi sta meglio assistere impotente alla sofferenza e perdere a poco a poco la persona che si ama.
In questo groviglio inestricabile non c'è via d'uscita: nulla può il mondo esterno. Non la figlia Eva (Isabelle Huppert) che non riesce ad accettare razionalmente la malattia della madre e la chiusura della coppia nel vivere il proprio dolore, non le persone che per affetto o per professione danno una mano alla coppia per affrontare le questioni pratiche, ma gli sono estranei nei sentimenti.
Come leggere dunque l'abbraccio mortale con cui si chiude questa storia? Come una resa, un atto d'amore, un gesto egoistico? Probabilmente non esiste comprensione al di fuori dei confini di quella coppia, di quel letto, di quella casa.
A me il film ha profondamente emozionato. Il groppo allo stomaco mi è spesso salito su nel tentativo di sciogliersi in lacrima, in un misto di rabbia, tenerezza, impotenza, ineluttabilità.
Dal giorno dopo torneremo a rimuovere il pensiero della vecchiaia e di quello che potrebbe attenderci (sperando che il destino sia clemente), in una lotta quotidiana con i nostri pensieri che il trascorrere del tempo rende sempre più impari.
Voto: 4/5
Ed effettivamente bisogna essere preparati a vedere un suo film, sapere cosa ci aspetta, dunque scegliere o meno di vederlo.
In Amour il tema portato sullo schermo da Haneke è la vecchiaia, non quella edulcorata che di solito i mezzi di comunicazione di massa ci propongono, fatta di vecchietti arzilli che giocano con i nipoti e che vanno a ballare, ma quella purtroppo molto reale del decadimento fisico, della malattia, della perdita della dignità, della solitudine, della morte.
Nel ritmo volutamente lentissimo che rispecchia i movimenti di Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (Jean-Louis Trintignant), negli ambienti volutamente rappresentati in maniera angusta così come sono percepiti dai protagonisti, nella totale assenza di un mondo esterno - dal quale i due anziani si ritirano, nulla ci viene risparmiato della sofferenza fisica e psicologica della vecchiaia.
Paradossalmente, il fatto che questo decadimento riguardi una coppia che si ama ancora molto, dopo aver trascorso una vita insieme e aver condiviso gioie e passioni, accentua - anziché ridurre - la sofferenza. Perché il coinvolgimento emotivo rende intollerabile per chi è malato l'idea di diventare un peso per l'altro e per chi sta meglio assistere impotente alla sofferenza e perdere a poco a poco la persona che si ama.
In questo groviglio inestricabile non c'è via d'uscita: nulla può il mondo esterno. Non la figlia Eva (Isabelle Huppert) che non riesce ad accettare razionalmente la malattia della madre e la chiusura della coppia nel vivere il proprio dolore, non le persone che per affetto o per professione danno una mano alla coppia per affrontare le questioni pratiche, ma gli sono estranei nei sentimenti.
Come leggere dunque l'abbraccio mortale con cui si chiude questa storia? Come una resa, un atto d'amore, un gesto egoistico? Probabilmente non esiste comprensione al di fuori dei confini di quella coppia, di quel letto, di quella casa.
A me il film ha profondamente emozionato. Il groppo allo stomaco mi è spesso salito su nel tentativo di sciogliersi in lacrima, in un misto di rabbia, tenerezza, impotenza, ineluttabilità.
Dal giorno dopo torneremo a rimuovere il pensiero della vecchiaia e di quello che potrebbe attenderci (sperando che il destino sia clemente), in una lotta quotidiana con i nostri pensieri che il trascorrere del tempo rende sempre più impari.
Voto: 4/5
sabato 24 novembre 2012
La sposa promessa
Con la mia amica G. commentavamo che guardare questo film produce la stessa sensazione che guardare dentro un acquario. Si vedono dei pesci muoversi, entrare in relazione o ignorarsi, affannarsi in una direzione o nell’altra, ma è praticamente impossibile capirne le motivazioni.
Qui l’acquario è rappresentato da una comunità ebrea ultraortodossa di Tel Aviv, in cui gli uomini hanno i capelli con le tipiche treccine laterali (payot), i copricapi con la falda tesa oppure dei cilindri coperti di pelliccia (shtreimel), le donne sposate hanno il capo coperto da una specie di turbante (tichel), e le ragazze ancora in età da marito hanno il capo scoperto ma sono vestite come negli anni ’50.
La protagonista, Shira (Hadas Yaron), ha 18 anni e la famiglia le propone un ragazzo della sua età da sposare. Quando sua sorella Esther muore dando alla luce il suo primogenito e il marito Yochai (Yiftach Klein) – dopo qualche tempo dalla morte – vuole risposarsi per dare una madre al bambino, Shira si trova di fronte a una scelta che ai nostri occhi appare paradossale: quella tra il giovane inizialmente proposto dalla famiglia o il cognato parecchio più grande di lei che la famiglia a questo punto auspicherebbe come marito.
Il tormento interiore di Shira risulta incomprensibile agli occhi di chi - come la sottoscritta - continua a chiedersi per tutto il film come un essere umano possa accettare un tale insieme regole di vita e sociali senza ribellarsi. O meglio, in realtà, si può comprendere che, se questo è sempre stato il proprio mondo o se ci si è arrivati rifiutando quello circostante, certi meccanismi non arrivano nemmeno a poter essere messi in discussione, ovvero li si è scelti proprio per la loro certezza/rigidità e l’impossibilità/non necessità di un approccio critico.
Mi impressiona leggere che la regista Rama Burshtein è nata a New York, ma dopo essere andata a studiare a Gerusalemme e aver conosciuto le comunità ortodosse ha deciso non solo di aderire in prima persona a questo modello di vita ma anche di utilizzare l’arte cinematografica per far conoscere questo mondo all’esterno.
Ebbene, dal mio punto di vista, Rama Burshtein non fa un buon servizio agli ebrei ortodossi, dal momento che chiunque abbia vissuto un minimo processo di emancipazione non potrà che rifiutare un mondo in cui gli universi maschile e femminile sono completamente separati, le donne hanno come loro massima aspirazione il matrimonio e quelle che non si sposano portano addosso una specie di marchio di infamia, la vita di tutti è profondamente condizionata dalle scelte del rabbino, dalle sue decisioni e dalle sue interpretazioni degli eventi.
È evidente che il mondo qui rappresentato non è espressione esclusiva degli ebrei ortodossi in quanto molte caratteristiche si ritrovano trasversalmente in numerose comunità religiose e non, soprattutto quelle con forti regole tutte interne e autoreferenziali.
Non sono dunque d’accordo con chi dice che questa è fondamentalmente una storia d’amore e che - anche all’interno delle regole sociali rigide in cui si muove – si riconoscono sentimenti forti e universali. Io non ho visto una storia d’amore, bensì una storia di autocastrazione e di scelta volontaria della sofferenza.
Voto: 2/5
Qui l’acquario è rappresentato da una comunità ebrea ultraortodossa di Tel Aviv, in cui gli uomini hanno i capelli con le tipiche treccine laterali (payot), i copricapi con la falda tesa oppure dei cilindri coperti di pelliccia (shtreimel), le donne sposate hanno il capo coperto da una specie di turbante (tichel), e le ragazze ancora in età da marito hanno il capo scoperto ma sono vestite come negli anni ’50.
La protagonista, Shira (Hadas Yaron), ha 18 anni e la famiglia le propone un ragazzo della sua età da sposare. Quando sua sorella Esther muore dando alla luce il suo primogenito e il marito Yochai (Yiftach Klein) – dopo qualche tempo dalla morte – vuole risposarsi per dare una madre al bambino, Shira si trova di fronte a una scelta che ai nostri occhi appare paradossale: quella tra il giovane inizialmente proposto dalla famiglia o il cognato parecchio più grande di lei che la famiglia a questo punto auspicherebbe come marito.
Il tormento interiore di Shira risulta incomprensibile agli occhi di chi - come la sottoscritta - continua a chiedersi per tutto il film come un essere umano possa accettare un tale insieme regole di vita e sociali senza ribellarsi. O meglio, in realtà, si può comprendere che, se questo è sempre stato il proprio mondo o se ci si è arrivati rifiutando quello circostante, certi meccanismi non arrivano nemmeno a poter essere messi in discussione, ovvero li si è scelti proprio per la loro certezza/rigidità e l’impossibilità/non necessità di un approccio critico.
Mi impressiona leggere che la regista Rama Burshtein è nata a New York, ma dopo essere andata a studiare a Gerusalemme e aver conosciuto le comunità ortodosse ha deciso non solo di aderire in prima persona a questo modello di vita ma anche di utilizzare l’arte cinematografica per far conoscere questo mondo all’esterno.
Ebbene, dal mio punto di vista, Rama Burshtein non fa un buon servizio agli ebrei ortodossi, dal momento che chiunque abbia vissuto un minimo processo di emancipazione non potrà che rifiutare un mondo in cui gli universi maschile e femminile sono completamente separati, le donne hanno come loro massima aspirazione il matrimonio e quelle che non si sposano portano addosso una specie di marchio di infamia, la vita di tutti è profondamente condizionata dalle scelte del rabbino, dalle sue decisioni e dalle sue interpretazioni degli eventi.
È evidente che il mondo qui rappresentato non è espressione esclusiva degli ebrei ortodossi in quanto molte caratteristiche si ritrovano trasversalmente in numerose comunità religiose e non, soprattutto quelle con forti regole tutte interne e autoreferenziali.
Non sono dunque d’accordo con chi dice che questa è fondamentalmente una storia d’amore e che - anche all’interno delle regole sociali rigide in cui si muove – si riconoscono sentimenti forti e universali. Io non ho visto una storia d’amore, bensì una storia di autocastrazione e di scelta volontaria della sofferenza.
Voto: 2/5
mercoledì 21 novembre 2012
Nel nome di Martha Argerich
Fino a un mese fa circa, data la mia già denunciata ignoranza in materia di musica classica, non sapevo neppure chi fosse Martha Argerich. Poi, su suggerimento esterno, compro i biglietti per il concerto al Santa Cecilia in cui la Argerich suona Schumann.
E qui cominciano i miei ascolti che culminano nel weekend in cui, il giorno prima di andare ad ascoltare il concerto, vado a vedere al Festival internazionale del film di Roma il film-documentario Bloody daughter che Stephanie Argerich ha realizzato per raccontare dei suoi genitori, entrambi pianisti, in particolare di sua madre Martha.
E qui cominciano i miei ascolti che culminano nel weekend in cui, il giorno prima di andare ad ascoltare il concerto, vado a vedere al Festival internazionale del film di Roma il film-documentario Bloody daughter che Stephanie Argerich ha realizzato per raccontare dei suoi genitori, entrambi pianisti, in particolare di sua madre Martha.
Bloody daughter non è un documentario di grandissime pretese artistiche, né concettuali, però è perfetto nel mettere in contatto con la personalità complessa di Martha Argerich e per guardare a questa grande pianista con l’occhio privato e affettuoso di sua figlia. Ne viene fuori il ritratto di una donna che ha dedicato la sua vita al pianoforte e alla musica, i cui amori più grandi sono certamente stati Beethoven e Schumann, ma la cui vita è stata anche attraversata ed è abitata da molte persone importanti: una madre dotata di un carattere fortissimo e soverchiante, i tre uomini dai quali ha avuto le sue tre figlie, appunto le tre figlie che hanno segnato periodi importanti e spesso difficili della sua vita, i nipotini, il suo manager che è una specie di amico fraterno, i fan cui Martha ha sempre dedicato molto tempo.
Al centro della vita di Martha c’è però sempre stato il palcoscenico, cui la lega un rapporto di amore e di odio: luogo della vita più vera per una pianista che solo nell’esecuzione della musica, nella performance musicale, realizza se stessa, ma anche luogo simbolico della paura più grande di tutte, quella di non essere all’altezza. E ovviamente il pianoforte che sembra per la Argerich l'unica vera maniera di esprimersi, tanto che di fronte alle domande della figlia spesso non riesce a completare le frasi e ne conclude che le parole non bastano, che è difficile spiegare le cose verbalmente.
È sorprendente scoprire che una musicista di questo livello continui a sentirsi annichilita ogni volta che sta per salire sul palco, mentre quando ne discende sembra aver succhiato la linfa direttamente dell’albero della vita.
È sorprendente scoprire che una musicista di questo livello continui a sentirsi annichilita ogni volta che sta per salire sul palco, mentre quando ne discende sembra aver succhiato la linfa direttamente dell’albero della vita.
Così, se è vero che la giovane e timida ragazza dai capelli corvini ha lasciato il posto a una signora dalla folta chioma grigia, lo stesso miracolo sembra accadere il giorno dopo la visione del film, quando, nell’ambito del Schumann Fest, dopo il Nachtlied op. 108 eseguito dal coro e dall’orchestra diretta del maestro Antonio Pappano, Martha Argerich si siede al pianoforte dialogando con l’orchestra nell’op. 54 (concerto per pianoforte e orchestra in La minore).
La più che settantenne Argerich non solo è più volte richiamata sul palco dal pubblico, ma alla fine concede un piccolo bis per la gioia di tutti i presenti.
Segue la sinfonia n. 2 che chiude in bellezza questa serata dedicata a Schumann.
Ne esco contenta, appagata. E, il giorno dopo, la mia personale biblioteca di musica classica si arricchisce di altri 4-5 CD :-)
La più che settantenne Argerich non solo è più volte richiamata sul palco dal pubblico, ma alla fine concede un piccolo bis per la gioia di tutti i presenti.
Segue la sinfonia n. 2 che chiude in bellezza questa serata dedicata a Schumann.
Ne esco contenta, appagata. E, il giorno dopo, la mia personale biblioteca di musica classica si arricchisce di altri 4-5 CD :-)
lunedì 19 novembre 2012
Main dans la main
Ogni anno una puntatina al Festival internazionale del film di Roma mi piace farla. Sì, perché si tratta di andare al cinema a vedere un film, ma anche di partecipare a un evento con tutti gli annessi e connessi: la presenza di regista, attori e produttori in sala, battiti di mani o fischi alla fine del film (in questo caso c'è stato un applauso persino durante il film dopo una scena quasi epica!), la presenza massiccia della stampa, il febbrile lavoro che si svolge dietro il vetro della sala stampa, il tappeto rosso su cui si fanno fotografare protagonisti del mondo del cinema (più o meno famosi).
Quest'anno scelgo di andare a vedere un film francese, Main dans la main, per il quale la proiezione romana rappresenta l'anteprima mondiale (addirittura!). In sala ci sono la regista Valérie Donzelli (che aveva riscosso un certo successo con il suo precedente film, La guerra è dichiarata, che non ho visto e a questo punto vorrei recuperare), i due attori protagonisti (Jérémie Elkaïm, prima compagno della Donzelli nella vita, ora separato, e Valérie Lemercier) e due produttori.
Il film utilizza il genere della commedia per raccontare una storia surreale.
Joachim (Jérémie Elkaïm, premio per la migliore interpretazione maschile) fa il vetraio, ama andare in skateboard, e vive nella casa della sorella (interpretata dalla stessa Valérie Donzelli) insieme al cognato, alle tre figlie e alla nonna centenaria.
Hélène (Valérie Lemercier) dirige la scuola di danza dell'Opera di Parigi. Vive con Constance, a cui la lega un rapporto di complicità e l'esigenza di superare le rispettive solitudini.
Un giorno Joachim viene mandato all'Opera a sostituire un vetro; lì incontra Hélène e dopo un bacio rubato i due sono legati indissolubilmente da una specie di incantesimo: non solo diventano inseparabili, ma i loro corpi rispondono agli input della volontà dell'uno o dell'altro a seconda di chi di volta in volta si impone.
Questa situazione manda in tilt gli equilibri che ciascuno di loro aveva costruito nella propria vita e mette in discussione tutti i legami precedenti.
La vicenda è comica da molteplici punti di vista; si ride moltissimo per le numerose situazioni imbarazzanti e surreali in cui i due si vengono a trovare. Ma - sotto questa apparenza da commedia - si affronta un tema molto serio e importante: quello del sé nel rapporto a due.
In questa storia ci sono molti rapporti a due: quello tra Joachim e sua sorella (che si dicono indivisibili), quello tra Hélène e Constance (che non riescono a fare nulla separatamente), infine quello tra Joachim ed Hélène, che sono forzati all'indivisibilità. Alla fine, tutti questi rapporti - indipendentemente dalla motivazione che li anima - hanno una caratteristica comune, quella di limitare l'espressione del singolo e la piena realizzazione di sé e della propria volontà.
Con una sceneggiatura molto francese, ossia molto parlata, Valérie Donzelli sembra volerci dire che spesso sono l'insicurezza, la solitudine, la paura a spingerci verso legami simbiotici che da un lato ci stanno stretti, ma dall'altro ci danno sicurezza.
La regista chiude però il film con una grande apertura di speranza, fors'anche un po' forzata e sdolcinata, dimostrando che la solitudine è innaturale, ma la simbiosi non è l'unica risposta. È nella faticosa ricerca di sé, nel riconoscimento della necessità di una realizzazione personale, nella consapevolezza della bellezza del condividere senza essere dipendenti che si apre una speranza di vita a due che possa aspirare a evitare la prigione del bisogno che spesso ci scegliamo.
Protagonisti molto in vena, regia brillante, bella colonna sonora. Fastidiosi soltanto l'intervento di una specie di narratore che commenta e fa da eco ai protagonisti e la virata un po' troppo romanticheggiante dell'ultima parte del film, che forse avrebbe funzionato meglio senza un cambio di tono così repentino ed eccessivo.
Voto: 3,5
Quest'anno scelgo di andare a vedere un film francese, Main dans la main, per il quale la proiezione romana rappresenta l'anteprima mondiale (addirittura!). In sala ci sono la regista Valérie Donzelli (che aveva riscosso un certo successo con il suo precedente film, La guerra è dichiarata, che non ho visto e a questo punto vorrei recuperare), i due attori protagonisti (Jérémie Elkaïm, prima compagno della Donzelli nella vita, ora separato, e Valérie Lemercier) e due produttori.
Il film utilizza il genere della commedia per raccontare una storia surreale.
Joachim (Jérémie Elkaïm, premio per la migliore interpretazione maschile) fa il vetraio, ama andare in skateboard, e vive nella casa della sorella (interpretata dalla stessa Valérie Donzelli) insieme al cognato, alle tre figlie e alla nonna centenaria.
Hélène (Valérie Lemercier) dirige la scuola di danza dell'Opera di Parigi. Vive con Constance, a cui la lega un rapporto di complicità e l'esigenza di superare le rispettive solitudini.
Un giorno Joachim viene mandato all'Opera a sostituire un vetro; lì incontra Hélène e dopo un bacio rubato i due sono legati indissolubilmente da una specie di incantesimo: non solo diventano inseparabili, ma i loro corpi rispondono agli input della volontà dell'uno o dell'altro a seconda di chi di volta in volta si impone.
Questa situazione manda in tilt gli equilibri che ciascuno di loro aveva costruito nella propria vita e mette in discussione tutti i legami precedenti.
La vicenda è comica da molteplici punti di vista; si ride moltissimo per le numerose situazioni imbarazzanti e surreali in cui i due si vengono a trovare. Ma - sotto questa apparenza da commedia - si affronta un tema molto serio e importante: quello del sé nel rapporto a due.
In questa storia ci sono molti rapporti a due: quello tra Joachim e sua sorella (che si dicono indivisibili), quello tra Hélène e Constance (che non riescono a fare nulla separatamente), infine quello tra Joachim ed Hélène, che sono forzati all'indivisibilità. Alla fine, tutti questi rapporti - indipendentemente dalla motivazione che li anima - hanno una caratteristica comune, quella di limitare l'espressione del singolo e la piena realizzazione di sé e della propria volontà.
Con una sceneggiatura molto francese, ossia molto parlata, Valérie Donzelli sembra volerci dire che spesso sono l'insicurezza, la solitudine, la paura a spingerci verso legami simbiotici che da un lato ci stanno stretti, ma dall'altro ci danno sicurezza.
La regista chiude però il film con una grande apertura di speranza, fors'anche un po' forzata e sdolcinata, dimostrando che la solitudine è innaturale, ma la simbiosi non è l'unica risposta. È nella faticosa ricerca di sé, nel riconoscimento della necessità di una realizzazione personale, nella consapevolezza della bellezza del condividere senza essere dipendenti che si apre una speranza di vita a due che possa aspirare a evitare la prigione del bisogno che spesso ci scegliamo.
Protagonisti molto in vena, regia brillante, bella colonna sonora. Fastidiosi soltanto l'intervento di una specie di narratore che commenta e fa da eco ai protagonisti e la virata un po' troppo romanticheggiante dell'ultima parte del film, che forse avrebbe funzionato meglio senza un cambio di tono così repentino ed eccessivo.
Voto: 3,5
martedì 13 novembre 2012
La creazione / Franz Joseph Haydn
Premessa: non capisco assolutamente nulla di musica classica, però quest’anno mi sono fatta convincere ad andare a sentire un po’ di concerti al Santa Cecilia.
Il primo è stato La creazione di Haydn ed io, da secchiona quale sono sempre stata, mi sono preparata attentamente. Ho comprato il CD con lo stesso concerto diretto da Leonard Bernstein (mica uno qualunque) e l’ho ascoltato almeno 4-5 volte in modo da abituare un po’ l’orecchio alla musica.
Poi mi sono letta una breve introduzione a questa opera musicale, dalla quale non solo sono riuscita a collocare cronologicamente e geograficamente Haydn, ma ho anche imparato che La creazione appartiene al genere dell’Oratorio (semplificando, un insieme di orchestra e cantato a tematica sacra) e ho scoperto che essa è stata realizzata prima in inglese, perché a Vienna nessuno voleva finanziare Haydn nella realizzazione di qualcosa che lì si considerava già superato, mentre a Londra gli oratori erano ancora molto apprezzati. Questa prima versione inglese (a partire da un libretto scritto per Handel) è stata poi tradotta parola per parola in tedesco, lingua nella quale La creazione è stata portata in scena per la prima volta.
Si tratta di circa due ore di musica in tre parti. Nella prima si narra in musica la creazione del mondo, nella seconda la creazione degli animali e dell’uomo e la terza è dedicata ad Adamo ed Eva.
Per la prima volta in un concerto di questo genere non mi si sono mai chiusi gli occhi, anzi – libretto alla mano – ho seguito tutto con grande partecipazione ed emozione.
E nel mio essere completamente profana e a digiuno di musica classica il passaggio della creazione del sole e della luna mi ha veramente emozionato.
Ovviamente non sono in grado di dire assolutamente niente sulla resa da parte dell’orchestra e coro dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia, diretta da Hartmut Haenchen, e da parte dei cantanti solisti Marita Solberg (soprano), Jeremy Ovenden (tenore) e Kay Stiefermann (basso). A me è sembrato di aver ascoltato un concerto di alto livello e di aver vissuto un’esperienza molto particolare anche nell’assistere al meraviglioso spettacolo di un palco in cui trovano spazio un grande coro, un’orchestra al completo e tre cantanti solisti (un soprano, un baritono e un basso), che con i loro movimenti creano una vera e propria coreografia di accompagnamento all’ascolto.
Mi dicono che la musica classica è principalmente un’emozione e che questo è l’unico dato rilevante nella valutazione. A me La creazione ha emozionato.
(Ma lasciate che per questa volta mi astenga da punteggi, ché non mi sento all’altezza).
Il primo è stato La creazione di Haydn ed io, da secchiona quale sono sempre stata, mi sono preparata attentamente. Ho comprato il CD con lo stesso concerto diretto da Leonard Bernstein (mica uno qualunque) e l’ho ascoltato almeno 4-5 volte in modo da abituare un po’ l’orecchio alla musica.
Poi mi sono letta una breve introduzione a questa opera musicale, dalla quale non solo sono riuscita a collocare cronologicamente e geograficamente Haydn, ma ho anche imparato che La creazione appartiene al genere dell’Oratorio (semplificando, un insieme di orchestra e cantato a tematica sacra) e ho scoperto che essa è stata realizzata prima in inglese, perché a Vienna nessuno voleva finanziare Haydn nella realizzazione di qualcosa che lì si considerava già superato, mentre a Londra gli oratori erano ancora molto apprezzati. Questa prima versione inglese (a partire da un libretto scritto per Handel) è stata poi tradotta parola per parola in tedesco, lingua nella quale La creazione è stata portata in scena per la prima volta.
Si tratta di circa due ore di musica in tre parti. Nella prima si narra in musica la creazione del mondo, nella seconda la creazione degli animali e dell’uomo e la terza è dedicata ad Adamo ed Eva.
Per la prima volta in un concerto di questo genere non mi si sono mai chiusi gli occhi, anzi – libretto alla mano – ho seguito tutto con grande partecipazione ed emozione.
E nel mio essere completamente profana e a digiuno di musica classica il passaggio della creazione del sole e della luna mi ha veramente emozionato.
Ovviamente non sono in grado di dire assolutamente niente sulla resa da parte dell’orchestra e coro dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia, diretta da Hartmut Haenchen, e da parte dei cantanti solisti Marita Solberg (soprano), Jeremy Ovenden (tenore) e Kay Stiefermann (basso). A me è sembrato di aver ascoltato un concerto di alto livello e di aver vissuto un’esperienza molto particolare anche nell’assistere al meraviglioso spettacolo di un palco in cui trovano spazio un grande coro, un’orchestra al completo e tre cantanti solisti (un soprano, un baritono e un basso), che con i loro movimenti creano una vera e propria coreografia di accompagnamento all’ascolto.
Mi dicono che la musica classica è principalmente un’emozione e che questo è l’unico dato rilevante nella valutazione. A me La creazione ha emozionato.
(Ma lasciate che per questa volta mi astenga da punteggi, ché non mi sento all’altezza).
giovedì 8 novembre 2012
Cronache veneziane / Enrico Casarosa
Cronache veneziane: diario di viaggio a matita, acquerelli, luci e ombre di assurdità / Enrico Casarosa; trad. di Elisabetta Sedda. Milano: Rizzoli Lizard, 2012.
Enrico Casarosa è quello del bellissimo cortometraggio La luna che la Pixar ha inserito in apertura dell'ultimo film Ribelle.
Enrico Casarosa è quello del bellissimo cortometraggio La luna che la Pixar ha inserito in apertura dell'ultimo film Ribelle.
Enrico è anche uno di quegli italiani che, per poter fare della propria passione un lavoro, ha lasciato l'Italia alla volta degli Stati Uniti, San Francisco, e che, grazie alle sue capacità, è finito alla Pixar, quella fucina di talenti che ha rivoluzionato il mondo dell'animazione digitale.
Ma Casarosa è anche e soprattutto un disegnatore, un narratore di storie per immagini. E ne dà dimostrazione in questo bel lavoro appena uscito, Cronache veneziane.
Questo graphic novel racconta fondamentalmente una storia d'amore, e i numerosi viaggi in aereo che l'hanno costellata: dagli Stati Uniti a Venezia e ritorno, da San Francisco al Messico e ritorno, dagli Stati Uniti a Genova e ritorno.
In realtà, dal punto di vista strettamente narrativo, l'andamento è molto frammentario, tenuto insieme dal dialogo costante del protagonista, lo stesso Enrico, con la sua coscienza buona e quella cattiva nella forma classica di un "angioletto" e di un "diavoletto". Proprio questi dialoghi sono forse l'aspetto meno riuscito di Cronache veneziane, per quel po' di stucchevolezza ed adolescenzialità che inevitabilmente li caratterizza.
È invece molto convincente - nonché profondamente romantica - la storia d'amore ivi raccontata, che è poi quella tra Enrico e la ballerina Marit, prima sua fidanzata, poi moglie. È questa storia d'amore che stimola i passaggi più belli, più divertenti, più commoventi e veri.
Ma Casarosa è anche e soprattutto un disegnatore, un narratore di storie per immagini. E ne dà dimostrazione in questo bel lavoro appena uscito, Cronache veneziane.
Questo graphic novel racconta fondamentalmente una storia d'amore, e i numerosi viaggi in aereo che l'hanno costellata: dagli Stati Uniti a Venezia e ritorno, da San Francisco al Messico e ritorno, dagli Stati Uniti a Genova e ritorno.
In realtà, dal punto di vista strettamente narrativo, l'andamento è molto frammentario, tenuto insieme dal dialogo costante del protagonista, lo stesso Enrico, con la sua coscienza buona e quella cattiva nella forma classica di un "angioletto" e di un "diavoletto". Proprio questi dialoghi sono forse l'aspetto meno riuscito di Cronache veneziane, per quel po' di stucchevolezza ed adolescenzialità che inevitabilmente li caratterizza.
È invece molto convincente - nonché profondamente romantica - la storia d'amore ivi raccontata, che è poi quella tra Enrico e la ballerina Marit, prima sua fidanzata, poi moglie. È questa storia d'amore che stimola i passaggi più belli, più divertenti, più commoventi e veri.
Al di là dei contenuti narrativi, il lavoro di Enrico Casarosa è pieno di chicche e invenzioni. Innanzitutto gli splendidi acquerelli che ci regala, in particolare quelli veneziani, poi gli straordinari disegni degli spettacoli di danza della compagnia di Marit (sia quelli a carboncino, sia quelli fatti al buio con la matita che non si stacca mai dal foglio), i disegni di Marit e dei genitori durante la gita veneziana, le ricostruzioni di interni, i disegni in soggettiva di se stesso al lavoro, gli spunti ironici ed autoironici, il rimando al fumetto multimediale realizzato per il compleanno di Marit.
Ne viene fuori il ritratto di una persona per la quale il rapporto tra la vita e il disegno è costante e profondamente complesso. Casarosa fa passare attraverso le sue matite e i suoi acquerelli qualunque emozione ed evento significativo della vita, a volte ricrea la vita attraverso il disegno, altre volte il disegno aggiunge spessore alla vita.
Dunque, non solo vita e letteratura possono essere intrecciati al punto tale da risultare indistinguibili e indivisibili, ma anche vita e disegno, come Casarosa ci dimostra.
Voto: 3,5/5
Ne viene fuori il ritratto di una persona per la quale il rapporto tra la vita e il disegno è costante e profondamente complesso. Casarosa fa passare attraverso le sue matite e i suoi acquerelli qualunque emozione ed evento significativo della vita, a volte ricrea la vita attraverso il disegno, altre volte il disegno aggiunge spessore alla vita.
Dunque, non solo vita e letteratura possono essere intrecciati al punto tale da risultare indistinguibili e indivisibili, ma anche vita e disegno, come Casarosa ci dimostra.
Voto: 3,5/5
domenica 4 novembre 2012
Io e te
Ed eccomi all'ennesimo film (dopo Un sapore di ruggine e ossa, Tutti i santi giorni e L'intervallo) i cui protagonisti sono un ragazzo e una ragazza, Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori) e Olivia (Tea Falco).
Sarà l'atmosfera generale determinata dalla crisi finanziaria e dalle politiche di austerity, ma sembra proprio che il cinema (non solo quello italiano a quanto pare) si stia ritirando su una dimensione intima, quasi minimale, accentuando una tendenza che nel cinema italiano degli ultimi decenni è stata particolarmente evidente.
L'ultimo film di Bernando Bertolucci, intitolato Io e te, è tratto dall'omonimo libro di Niccolò Ammaniti e da Ammaniti eredita un'ambientazione claustrofobica che sembra essere un leitmotiv per lo scrittore (la buca di Io non ho paura, il bosco buio con la pioggia di Come Dio comanda). In questo caso siamo dentro la cantina della casa di Lorenzo, quella dove il ragazzo si rifugia per sfuggire alla settimana bianca con la scuola, la stessa dove troverà riparo anche Olivia, la sorellastra.
Lorenzo e Olivia sono due emarginati.
Il primo ha scelto di auto-isolarsi e di guardare il mondo dall'esterno con la sua lente di ingrandimento, come fosse il formicaio che ha comprato, così da non esserne toccato e non soffrire.
La seconda è talmente all'interno delle emozioni da esserne travolta. Non riesce a superare l'abbandono della famiglia da parte del padre (che poi ha sposato la madre di Lorenzo) e proietta sugli altri uomini della sua vita questo primordiale rifiuto. È tossicodipendente e giunge nella cantina dove si è accampato Lorenzo in piena crisi di astinenza.
In questo spazio fuori dal mondo, queste due anime ipersensibili e dunque destinate in qualche modo alla sconfitta si incontrano e si rispecchiano. Ma il riscatto non è automatico, perché la vita è complessa e il nostro mondo interiore soverchia la nostra volontà.
Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco sono "inquietanti" al punto giusto per questo film e si addicono perfettamente a quel non so che di forzato e vagamente sopra le righe che spesso caratterizza i film di Bertolucci.
Il tutto può piacere o lasciare parzialmente indifferenti. Personalmente appartengo più alla seconda categoria.
Voto: 2,5/5
Iscriviti a:
Post (Atom)