Questa fine di agosto cinematografica ci regala per tre giorni un nuovo lavoro firmato dallo studio Ghibli, anche se non dal maestro Miyazaki.
Si tratta di Quando c'era Marnie, di Hiromasa Yonebayashi, il regista di Arrietty.
La sceneggiatura è l'adattamento del romanzo omonimo di Joan G. Robinson e racconta la storia della dodicenne Anna, una pre-adolescente insicura e sociopatica, un po' tomboy, che vive con una tutrice (che chiama zietta) e che soffre d'asma, motivo per cui viene mandata a stare per un periodo da una coppia anziana che abita a Hokkaido in una casa sul mare.
Durante questa permanenza, Anna sarà incuriosita dalla casa in fondo alla palude, apparentemente abbandonata, dove invece incontrerà Marnie, una ragazza bionda della sua età con cui stringerà un'amicizia esclusiva e particolare.
Anna è affascinata da questa ragazza che apparentemente è il suo naturale complemento: femminile, bionda, estroversa, affettuosa e soprattutto misteriosa, come se arrivasse direttamente da un sogno o da un tempo lontano.
Man mano che l'amicizia si farà più stretta, Anna non solo si troverà a fare i conti con le gioie e i dolori dei sentimenti forti, ma attraverso questo vero e proprio percorso di formazione scoprirà anche la storia di Marnie e il segreto che nasconde, e che le permetterà anche di comprendere se stessa e la propria storia.
Quando c'era Marnie si presenta come il riversamento di un contenuto narrativo dai tratti fortemente occidentali in un contenitore genuinamente giapponese sia da un punto di vista estetico sia dal punto di vista delle tradizioni culturali, nonché - e soprattutto - delle sensibilità rappresentate. Al punto tale che a volte un pubblico di cultura occidentale può fare fatica a interpretare certi passaggi per la difficoltà di ricondurre reazioni e sentimenti alle categorie concettuali cui siamo più abituati e che sono certamente più schematiche di quelle giapponesi.
Nel complesso si tratta di un classico romanzo di formazione all'interno di una confezione che si colloca a metà strada tra il fantasy e le storie di fantasmi. Ma l'imprevedibilità giapponese e la libertà concettuale dei creatori di anime conferiscono a questo prodotto - altrimenti un po' scontato per quanto esteticamente bellissimo - un'originalità e un'aura di mistero, nonché un umorismo, capaci di lasciare lo spettatore occidentale stupito e positivamente disorientato.
L'assenza della mano di Miyazaki si avverte, ma l'operazione di Yonebayashi è certamente all'altezza dei migliori prodotti animati giapponesi.
Voto: 3,5/5
domenica 30 agosto 2015
venerdì 28 agosto 2015
Il Nao di Brown / Glyn Dillon
Il Nao di Brown / Glyn Dillon. Milano: Bao Publishing, 2014.
L'ho dovuto rileggere due volte, perché - come al mio solito - nella prima lettura l'avevo praticamente divorato e, arrivata all'ultima pagina, avevo capito l'essenziale, ma mi ero persa un sacco di pezzi e di collegamenti tra le cose, nonché un sacco di dettagli che - come si sa - nei graphic novels sono assolutamente determinanti.
Va detto che, comunque, anche alla seconda lettura mi è rimasto qualche dubbio, tipo "ma alla fine con chi si è sposata Nao?" e dunque "di chi è il figlio che le è nato?". Che, voi direte, "non ci paiono dubbi da poco" e io vi dirò "Eccerto, lo so. Anzi non è che qualcuno può sciogliermeli?" ;-)
Comunque - a parte gli scherzi - la storia raccontata in questo graphic novel è solo apparentemente semplice. Nao Brown è figlia di genitori separati, un padre giapponese e una madre inglese (una hafu nel gergo giapponese), che vive a Londra dove - in attesa che il suo lavoro di designer e grafica decolli - cerca di sbarcare il lunario lavorando nel negozio di art toys giapponesi di un suo amico molto nerd e abbastanza sfigato, Steve.
Nao soffre di una strana forma di disturbo ossessivo-compulsivo che non si manifesta però nella ricerca maniacale dell'ordine o nella ripetizione di comportamenti, bensì nel fatto che - di fronte a situazioni emotivamente stressanti - lei ha pensieri violenti (tipo fare del male o uccidere chi le sta di fronte). Questo le crea enormi difficoltà psicologiche e la fa sentire una persona orribile e pericolosa.
Per riuscire a gestire questi suoi sentimenti Nao frequenta un centro buddista attraverso il quale mantiene anche un contatto con la cultura e la spiritualità orientali. A un certo punto la nostra protagonista incontra e si innamora di Gregory, un riparatore di lavatrici un po' strambo e un po' filosofo, grande e grosso e un po' infantile, che assomiglia molto al personaggio di anime preferito di Nao.
Questo rapporto metterà Nao (nonché lo stesso Gregory) di fronte ai fantasmi del passato e alle paure del presente e sarà l'occasione per trovare la forma e le motivazioni per far decollare davvero la vita.
In parallelo alla storia di Nao il graphic novel ci racconta la storia fantastica di Pictor, il ragazzo-albero al quale l'amore - dopo una serie di peripezie - consentirà di ritrovare la propria umanità e la propria natura più vera.
L'albo ha una confezione molto curata: copertina rigida, grande formato, tavole a colori, il tutto capace di valorizzare le bellissime costruzioni della pagina di Glyn Dillon e di far apprezzare i magnifici disegni, pastelli e acquerelli soffusi per la storia di Nao, più lineari e definiti nella storia di Pictor.
Alla fine resta la sensazione di aver letto una storia forte e intima, un percorso interiore drammatico ma punteggiato anche di una straordinaria ironia, una vera full immersion in questa cultura hafu, di intersezione tra Oriente e Occidente.
Il risultato - a mio modo di vedere - è affascinante anche se a tratti un po' spiazzante e disorientante.
Voto: 3,5/5
L'ho dovuto rileggere due volte, perché - come al mio solito - nella prima lettura l'avevo praticamente divorato e, arrivata all'ultima pagina, avevo capito l'essenziale, ma mi ero persa un sacco di pezzi e di collegamenti tra le cose, nonché un sacco di dettagli che - come si sa - nei graphic novels sono assolutamente determinanti.
Va detto che, comunque, anche alla seconda lettura mi è rimasto qualche dubbio, tipo "ma alla fine con chi si è sposata Nao?" e dunque "di chi è il figlio che le è nato?". Che, voi direte, "non ci paiono dubbi da poco" e io vi dirò "Eccerto, lo so. Anzi non è che qualcuno può sciogliermeli?" ;-)
Comunque - a parte gli scherzi - la storia raccontata in questo graphic novel è solo apparentemente semplice. Nao Brown è figlia di genitori separati, un padre giapponese e una madre inglese (una hafu nel gergo giapponese), che vive a Londra dove - in attesa che il suo lavoro di designer e grafica decolli - cerca di sbarcare il lunario lavorando nel negozio di art toys giapponesi di un suo amico molto nerd e abbastanza sfigato, Steve.
Nao soffre di una strana forma di disturbo ossessivo-compulsivo che non si manifesta però nella ricerca maniacale dell'ordine o nella ripetizione di comportamenti, bensì nel fatto che - di fronte a situazioni emotivamente stressanti - lei ha pensieri violenti (tipo fare del male o uccidere chi le sta di fronte). Questo le crea enormi difficoltà psicologiche e la fa sentire una persona orribile e pericolosa.
Per riuscire a gestire questi suoi sentimenti Nao frequenta un centro buddista attraverso il quale mantiene anche un contatto con la cultura e la spiritualità orientali. A un certo punto la nostra protagonista incontra e si innamora di Gregory, un riparatore di lavatrici un po' strambo e un po' filosofo, grande e grosso e un po' infantile, che assomiglia molto al personaggio di anime preferito di Nao.
Questo rapporto metterà Nao (nonché lo stesso Gregory) di fronte ai fantasmi del passato e alle paure del presente e sarà l'occasione per trovare la forma e le motivazioni per far decollare davvero la vita.
In parallelo alla storia di Nao il graphic novel ci racconta la storia fantastica di Pictor, il ragazzo-albero al quale l'amore - dopo una serie di peripezie - consentirà di ritrovare la propria umanità e la propria natura più vera.
L'albo ha una confezione molto curata: copertina rigida, grande formato, tavole a colori, il tutto capace di valorizzare le bellissime costruzioni della pagina di Glyn Dillon e di far apprezzare i magnifici disegni, pastelli e acquerelli soffusi per la storia di Nao, più lineari e definiti nella storia di Pictor.
Alla fine resta la sensazione di aver letto una storia forte e intima, un percorso interiore drammatico ma punteggiato anche di una straordinaria ironia, una vera full immersion in questa cultura hafu, di intersezione tra Oriente e Occidente.
Il risultato - a mio modo di vedere - è affascinante anche se a tratti un po' spiazzante e disorientante.
Voto: 3,5/5
mercoledì 26 agosto 2015
American Gods / Neil Gaiman
American Gods / Neil Gaiman; trad. di Katia Bagnoli. Milano: Mondadori, 2002.
American Gods è uno di quei libri che è praticamente impossibile da raccontare, e che mentre li leggi ti chiedi sotto quali sostanze stupefacenti era il suo autore quando lo scriveva! ;-)
In realtà, il nocciolo della storia è piuttosto semplice: il protagonista Shadow è un ragazzone grande e grosso che ha scontato tre anni di prigione a causa di una rissa e non vede l'ora di tornare a casa da sua moglie Laura e dal suo migliore amico che gli ha promesso un lavoro. Quando esce, però, la situazione è ben diversa da quella che aveva sperato: sua moglie è morta in un incidente stradale e al suo funerale scopre che lo tradiva con il suo migliore amico, morto anche lui nel medesimo incidente. In questo stesso tempo, Shadow incontra uno strano personaggio, Wednesday, che gli offre un lavoro come suo assistente.
Presto Shadow scoprirà che Wednesday non è una persona qualunque e si troverà coinvolto nel bel mezzo di uno scontro epocale: la resa dei conti finale tra gli dei antichi, quelli arrivati centinaia e persino migliaia di anni prima in America e via via dimenticati e dunque costretti ad arrangiarsi in mille modi per sopravvivere, e i nuovi dei (quelli giovani e tecnologici e massmediatici) che la gente ha ormai adottato.
In questo scontro, poco a poco Shadow si troverà ad essere non solo spettatore e testimone, ma anche parte in causa fino a svolgervi un ruolo determinante.
E fin qui sembra tutto semplice. Ma poi, una volta immersi nelle pagine del libro di Gaiman, sarete catapultati in un mondo fantasmagorico e psichedelico in cui tutto è possibile e non ci si può sorprendere di niente, in cui le storie si moltiplicano e i personaggi vanno e vengono.
Il classico libro che forse varrebbe la pena di leggere due volte, se uno ce ne avesse la forza e volesse provare a capire alcuni passaggi di una trama oggettivamente complessa, ma nella quale forse l'obiettivo non è quello di fare veramente tornare tutti i conti.
Certamente resta geniale l'idea di fondo, ossia che gli dei non vivano in un mondo separato e lontano da noi, ma siano invece mescolati tra di noi, costretti anch'essi a cercare modi (più o meno fantasiosi) per sbarcare il lunario e vivere (più o meno dignitosamente) le loro vite, pur conservando una sorta di immortalità e di poteri soprannaturali. Il pantheon umanissimo e soprannaturale costruito da Neil Gaiman è sorprendente e stroboscopico e la sua componente surreale e kitsch è a tratti elevatissima, cosicché la si può amare o odiare, perdersi o ritrovarsi, lasciarsi andare o rifiutarla.
Alla fine su tutto si staglia la figura umanissima, tenera e commovente di Shadow, personaggio che resta a lungo nel cuore.
Voto: 3,5/5
American Gods è uno di quei libri che è praticamente impossibile da raccontare, e che mentre li leggi ti chiedi sotto quali sostanze stupefacenti era il suo autore quando lo scriveva! ;-)
In realtà, il nocciolo della storia è piuttosto semplice: il protagonista Shadow è un ragazzone grande e grosso che ha scontato tre anni di prigione a causa di una rissa e non vede l'ora di tornare a casa da sua moglie Laura e dal suo migliore amico che gli ha promesso un lavoro. Quando esce, però, la situazione è ben diversa da quella che aveva sperato: sua moglie è morta in un incidente stradale e al suo funerale scopre che lo tradiva con il suo migliore amico, morto anche lui nel medesimo incidente. In questo stesso tempo, Shadow incontra uno strano personaggio, Wednesday, che gli offre un lavoro come suo assistente.
Presto Shadow scoprirà che Wednesday non è una persona qualunque e si troverà coinvolto nel bel mezzo di uno scontro epocale: la resa dei conti finale tra gli dei antichi, quelli arrivati centinaia e persino migliaia di anni prima in America e via via dimenticati e dunque costretti ad arrangiarsi in mille modi per sopravvivere, e i nuovi dei (quelli giovani e tecnologici e massmediatici) che la gente ha ormai adottato.
In questo scontro, poco a poco Shadow si troverà ad essere non solo spettatore e testimone, ma anche parte in causa fino a svolgervi un ruolo determinante.
E fin qui sembra tutto semplice. Ma poi, una volta immersi nelle pagine del libro di Gaiman, sarete catapultati in un mondo fantasmagorico e psichedelico in cui tutto è possibile e non ci si può sorprendere di niente, in cui le storie si moltiplicano e i personaggi vanno e vengono.
Il classico libro che forse varrebbe la pena di leggere due volte, se uno ce ne avesse la forza e volesse provare a capire alcuni passaggi di una trama oggettivamente complessa, ma nella quale forse l'obiettivo non è quello di fare veramente tornare tutti i conti.
Certamente resta geniale l'idea di fondo, ossia che gli dei non vivano in un mondo separato e lontano da noi, ma siano invece mescolati tra di noi, costretti anch'essi a cercare modi (più o meno fantasiosi) per sbarcare il lunario e vivere (più o meno dignitosamente) le loro vite, pur conservando una sorta di immortalità e di poteri soprannaturali. Il pantheon umanissimo e soprannaturale costruito da Neil Gaiman è sorprendente e stroboscopico e la sua componente surreale e kitsch è a tratti elevatissima, cosicché la si può amare o odiare, perdersi o ritrovarsi, lasciarsi andare o rifiutarla.
Alla fine su tutto si staglia la figura umanissima, tenera e commovente di Shadow, personaggio che resta a lungo nel cuore.
Voto: 3,5/5
lunedì 24 agosto 2015
I kill giants / Joe Kelly e JM Ken Niimura
I kill giants / scritto da Joe Kelly; disegnato da JM Ken Niimura. Milano: Bao Publishing, 2015.
Sarà che in questo periodo sono particolarmente "senza pelle", ma l'albo sceneggiato dall'americano Joe Kelly e disegnato dallo spagnolo di origini giapponesi JM Ken Niimura, prima mi ha emozionato e poi mi ha riempito gli occhi di lacrime (salvo poi asciugarmele con la lettura delle tavole finali, in cui i due rappresentano se stessi durante la realizzazione del fumetto con un piglio autoironico veramente strepitoso).
I kill giants è la storia di Barbara, una bambina di quinta elementare un po' maschiaccio, un po' stramba e un po' asociale. Barbara gira con uno strano oggetto sempre con sé che lei ha chiamato Coveleski, come un giocatore di baseball che contribuì in maniera determinante a far riuscire la sua squadra nell'impresa di sconfiggere una squadra enormentemente più forte. Il Coveleski di Barbara è invece un martello per distruggere i giganti, la missione nella quale la bambina è costantemente impegnata.
La piccola vive a casa con la sorella maggiore e un fratello pestifero, e dorme in una tenda che si è costruita in cantina perché non vuole salire al piano di sopra della sua casa.
A scuola Barbara è isolata e subisce il bullismo di chi – più grande e grosso di lei – cerca di ridicolizzarla davanti a tutti per i suoi strani rituali e le sue buffe azioni e di metterla in difficoltà, ma la ragazzina sembra non aver paura di niente e risponde con l'aggressività all'aggressività del mondo, rifiutando qualunque aiuto e affetto: quelli della paziente e affettuosa assistente sociale della scuola, la signora Molle, ovvero quelli di Sophia, la nuova vicina di casa, che vuole diventarle amica.
Ma i giganti arriveranno davvero, sotto forma di un tornado che spazzerà via parte del quartiere dove vive Barbara e la costringerà a confrontarsi con i suoi demoni interiori ed esteriori, riconoscendo la propria fragilità e abbracciando le proprie paure per scoprire che "siamo più forti di quanto pensiamo".
Il graphic novel, sponsorizzato in Italia da Zerocalcare (che ha disegnato anche le copertine dell'edizione di Bao Publishing), è divertente nei disegni (che ricordano molto i manga giapponesi, soprattutto nelle buffe espressioni dei personaggi, che a tutti coloro che sono nati dagli anni Settanta in poi ricorderanno quelle dei personaggi dei loro anime preferiti), nonché efficace nella sceneggiatura costruita quasi come fosse il punto di incontro tra un giallo e un libro di avventura.
Uno dei fumetti più belli che io abbia letto in questi ultimissimi tempi. Sfido chiunque a non amarlo.
Voto: 4,5/5
Sarà che in questo periodo sono particolarmente "senza pelle", ma l'albo sceneggiato dall'americano Joe Kelly e disegnato dallo spagnolo di origini giapponesi JM Ken Niimura, prima mi ha emozionato e poi mi ha riempito gli occhi di lacrime (salvo poi asciugarmele con la lettura delle tavole finali, in cui i due rappresentano se stessi durante la realizzazione del fumetto con un piglio autoironico veramente strepitoso).
I kill giants è la storia di Barbara, una bambina di quinta elementare un po' maschiaccio, un po' stramba e un po' asociale. Barbara gira con uno strano oggetto sempre con sé che lei ha chiamato Coveleski, come un giocatore di baseball che contribuì in maniera determinante a far riuscire la sua squadra nell'impresa di sconfiggere una squadra enormentemente più forte. Il Coveleski di Barbara è invece un martello per distruggere i giganti, la missione nella quale la bambina è costantemente impegnata.
La piccola vive a casa con la sorella maggiore e un fratello pestifero, e dorme in una tenda che si è costruita in cantina perché non vuole salire al piano di sopra della sua casa.
A scuola Barbara è isolata e subisce il bullismo di chi – più grande e grosso di lei – cerca di ridicolizzarla davanti a tutti per i suoi strani rituali e le sue buffe azioni e di metterla in difficoltà, ma la ragazzina sembra non aver paura di niente e risponde con l'aggressività all'aggressività del mondo, rifiutando qualunque aiuto e affetto: quelli della paziente e affettuosa assistente sociale della scuola, la signora Molle, ovvero quelli di Sophia, la nuova vicina di casa, che vuole diventarle amica.
Ma i giganti arriveranno davvero, sotto forma di un tornado che spazzerà via parte del quartiere dove vive Barbara e la costringerà a confrontarsi con i suoi demoni interiori ed esteriori, riconoscendo la propria fragilità e abbracciando le proprie paure per scoprire che "siamo più forti di quanto pensiamo".
Il graphic novel, sponsorizzato in Italia da Zerocalcare (che ha disegnato anche le copertine dell'edizione di Bao Publishing), è divertente nei disegni (che ricordano molto i manga giapponesi, soprattutto nelle buffe espressioni dei personaggi, che a tutti coloro che sono nati dagli anni Settanta in poi ricorderanno quelle dei personaggi dei loro anime preferiti), nonché efficace nella sceneggiatura costruita quasi come fosse il punto di incontro tra un giallo e un libro di avventura.
Uno dei fumetti più belli che io abbia letto in questi ultimissimi tempi. Sfido chiunque a non amarlo.
Voto: 4,5/5
mercoledì 5 agosto 2015
Predestination
Il mio coraggioso nipote tredicenne è in visita a Roma da solo. E così - in una metà giornata che ci regaliamo tutta per noi - dopo aver visitato i luoghi di Dan Brown a Roma, aver comprato un videogiochi usato e aver preparato degli hamburger, decidiamo di concederci anche un cinema.
Ed eccoci al Lux a vedere Predestination, scelto in una programmazione estiva che rende sempre piuttosto difficile la scelta. Comunque la lettura di alcune recensioni e la presenza di Ethan Hawke mi convincono che Predestination può essere il film che fa per noi.
Si tratta di un fanta-thriller il cui protagonista è un agente della polizia temporale (interpretato appunto da Ethan Hawke), ossia un agente che ha il compito di sventare atti terroristici viaggiando nel tempo.
Il film si apre mostrandoci alcune scene collocate in momenti temporali diversi e apparentemente sconnesse le une con le altre. Poi si ferma al momento dell'incontro del poliziotto con John (la bellissima attrice australiana Sarah Snook), che racconta la storia di come da bambina orfana di nome Jane è diventata un uomo.
La prima metà del film è completamente dedicata a questo racconto. E quando arriva l'intervallo mi sto sinceramente chiedendo cosa c'entri questa lunghissima digressione con la missione del poliziotto temporale che sta tentando di fermare il terrorista chiamato fizzle bomber.
A poco a poco però - nella seconda parte del film - in una sequenza abbastanza impressionante di colpi di scena, i pezzi cominciano a incastrarsi e gradualmente il puzzle della storia si va completando. In realtà, a più riprese si ha la sensazione di perdersi in questa intricata costruzione narrativa, in cui i paradossi temporali si sprecano, ma alla fine la sceneggiatura (adattata dal racconto Tutti i miei fantasmi di Robert Heinlein) tiene e alla fine ci sembra di aver capito tutto (o quasi).
Io e mio nipote ne continuiamo a parlare per qualche ora dopo l'uscita dal cinema, un po' contenti e un po' perplessi, ma alla fine tutto sommato siamo soddisfatti della scelta fatta.
I due registi, i fratelli gemelli Michael e Peter Spierig, sono molto bravi a costruire un film che riesce a tenere lo spettatore incollato alla sedia, senza avere a disposizione grandi budget e senza fare uso di particolari effetti speciali.
Un film tutto sommato semplice, ma che può tranquillamente aspirare a diventare un piccolo cult del genere.
Voto: 3,5/5
Ed eccoci al Lux a vedere Predestination, scelto in una programmazione estiva che rende sempre piuttosto difficile la scelta. Comunque la lettura di alcune recensioni e la presenza di Ethan Hawke mi convincono che Predestination può essere il film che fa per noi.
Si tratta di un fanta-thriller il cui protagonista è un agente della polizia temporale (interpretato appunto da Ethan Hawke), ossia un agente che ha il compito di sventare atti terroristici viaggiando nel tempo.
Il film si apre mostrandoci alcune scene collocate in momenti temporali diversi e apparentemente sconnesse le une con le altre. Poi si ferma al momento dell'incontro del poliziotto con John (la bellissima attrice australiana Sarah Snook), che racconta la storia di come da bambina orfana di nome Jane è diventata un uomo.
La prima metà del film è completamente dedicata a questo racconto. E quando arriva l'intervallo mi sto sinceramente chiedendo cosa c'entri questa lunghissima digressione con la missione del poliziotto temporale che sta tentando di fermare il terrorista chiamato fizzle bomber.
A poco a poco però - nella seconda parte del film - in una sequenza abbastanza impressionante di colpi di scena, i pezzi cominciano a incastrarsi e gradualmente il puzzle della storia si va completando. In realtà, a più riprese si ha la sensazione di perdersi in questa intricata costruzione narrativa, in cui i paradossi temporali si sprecano, ma alla fine la sceneggiatura (adattata dal racconto Tutti i miei fantasmi di Robert Heinlein) tiene e alla fine ci sembra di aver capito tutto (o quasi).
Io e mio nipote ne continuiamo a parlare per qualche ora dopo l'uscita dal cinema, un po' contenti e un po' perplessi, ma alla fine tutto sommato siamo soddisfatti della scelta fatta.
I due registi, i fratelli gemelli Michael e Peter Spierig, sono molto bravi a costruire un film che riesce a tenere lo spettatore incollato alla sedia, senza avere a disposizione grandi budget e senza fare uso di particolari effetti speciali.
Un film tutto sommato semplice, ma che può tranquillamente aspirare a diventare un piccolo cult del genere.
Voto: 3,5/5
domenica 2 agosto 2015
The Notwist, Roma, Villa Ada, 21 luglio 2015
La mia serata inizia con me che arrivo al botteghino insieme a L., la quale in mezzo secondo compra il suo biglietto a 12 euro. Io l'ho comprato mesi e mesi prima e sono lì con il mio foglietto per il ritiro e la ragazza che mi dice "Ma il suo biglietto non c'è!". "Come non c'è? Controlli meglio!". "Le dico che non c'è. Mi faccia vedere la mail di conferma.... Ah, ma certo, lei ha pagato 10 euro in più per riceverlo a casa con il corriere espresso...".
In un attimo realizzo che effettivamente mi era arrivato un biglietto a casa e mi ero chiesta perché. A volte (spesso) sono davvero rin*******ta! E meno male che villa Ada è vicino casa e posso tornare indietro a prendere un biglietto che mi è costato il doppio di quanto sia costato a L. che l'ha comprato la sera stessa! No comment!
Comunque, eccoci nell'isoletta in mezzo al laghetto, sedute a un tavolino a bere una birra e divorare un hamburger (non ci vediamo più dalla fame!). Due appunti: innanzitutto non si capisce perché per arrivare all'area concerti (e anche per uscirne) dobbiamo fare il giro largo attraverso il mercatino; in secondo luogo, la ristorazione quest'anno lascia un po' a desiderare non tanto nella qualità, quanto nella limitatezza e nella scarsa varietà (oltre che nei prezzi). Mah!
Dulcis in fundo, i Notwist (che io ho già visto ben due volte dal vivo, al Circolo degli artisti e all'Auditorium) salgono sul palco dopo le 22,30 (concerto previsto per le 21,30 e l'indomani io devo alzarmi alle sei!). Ma quando salgono sul palco - e nonostante i dolori che la posizione in piedi in vecchiaia (!) rende inevitabili - capisco che in qualche modo ne è valsa la pena. I Notwist non sono in tour promozionale; il loro ultimo album, Close to the glass, è uscito l'anno scorso, e quindi la band tedesca si sente libera di spaziare nel proprio repertorio come più gli aggrada e di giocare quanto vuole con gli arrangiamenti, usando oltre che gli strumenti classici, anche giradischi, campionatori e tutta una complicata strumentazione con cui fanno magie.
La cosa bella è che in scaletta mettono molto del loro lavoro più famoso, Neon Golden, che è anche quello più riuscito, un quasi capolavoro, in particolare su tracce come Consequence e la stessa Neon Golden, queste ultime entrambe proposte nel bis richiesto dal pubblico.
Per il resto è uno scintillio di musica e di arrangiamenti, una fluidità di suoni che si mescolano gli uni con gli altri e che trasformano alcune tracce in veri e propri medley, in cui finiscono tutti i generi, rock, jazz, house e quant'altro.
A mio modo di vedere, una band in grandissima forma, che ha trasformato un repertorio, se volete ormai scontato per chi li conosce e li segue da un po', in una esperienza sonora del tutto nuova e imprevedibile.
Non si continua a fare musica di qualità dal 1989 a oggi e a conquistare il pubblico se non si è davvero dei gran musicisti e i fratelli Markus e Michael Acher, insieme agli altri componenti della band, lo sono con certezza.
Voto: 3,5/5
In un attimo realizzo che effettivamente mi era arrivato un biglietto a casa e mi ero chiesta perché. A volte (spesso) sono davvero rin*******ta! E meno male che villa Ada è vicino casa e posso tornare indietro a prendere un biglietto che mi è costato il doppio di quanto sia costato a L. che l'ha comprato la sera stessa! No comment!
Comunque, eccoci nell'isoletta in mezzo al laghetto, sedute a un tavolino a bere una birra e divorare un hamburger (non ci vediamo più dalla fame!). Due appunti: innanzitutto non si capisce perché per arrivare all'area concerti (e anche per uscirne) dobbiamo fare il giro largo attraverso il mercatino; in secondo luogo, la ristorazione quest'anno lascia un po' a desiderare non tanto nella qualità, quanto nella limitatezza e nella scarsa varietà (oltre che nei prezzi). Mah!
Dulcis in fundo, i Notwist (che io ho già visto ben due volte dal vivo, al Circolo degli artisti e all'Auditorium) salgono sul palco dopo le 22,30 (concerto previsto per le 21,30 e l'indomani io devo alzarmi alle sei!). Ma quando salgono sul palco - e nonostante i dolori che la posizione in piedi in vecchiaia (!) rende inevitabili - capisco che in qualche modo ne è valsa la pena. I Notwist non sono in tour promozionale; il loro ultimo album, Close to the glass, è uscito l'anno scorso, e quindi la band tedesca si sente libera di spaziare nel proprio repertorio come più gli aggrada e di giocare quanto vuole con gli arrangiamenti, usando oltre che gli strumenti classici, anche giradischi, campionatori e tutta una complicata strumentazione con cui fanno magie.
La cosa bella è che in scaletta mettono molto del loro lavoro più famoso, Neon Golden, che è anche quello più riuscito, un quasi capolavoro, in particolare su tracce come Consequence e la stessa Neon Golden, queste ultime entrambe proposte nel bis richiesto dal pubblico.
Per il resto è uno scintillio di musica e di arrangiamenti, una fluidità di suoni che si mescolano gli uni con gli altri e che trasformano alcune tracce in veri e propri medley, in cui finiscono tutti i generi, rock, jazz, house e quant'altro.
A mio modo di vedere, una band in grandissima forma, che ha trasformato un repertorio, se volete ormai scontato per chi li conosce e li segue da un po', in una esperienza sonora del tutto nuova e imprevedibile.
Non si continua a fare musica di qualità dal 1989 a oggi e a conquistare il pubblico se non si è davvero dei gran musicisti e i fratelli Markus e Michael Acher, insieme agli altri componenti della band, lo sono con certezza.
Voto: 3,5/5
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