Accabadora / Michela Murgia. Torino: Einaudi, 2009.
Non avevo mai letto nulla di Michela Murgia, una carenza imperdonabile nel panorama delle mie letture. Ma dopo l’entusiasmo di C. per questo libro non ho più potuto sottrarmi.
E così eccomi a leggere Accabadora, il libro con cui la Murgia ha vinto il Premio Campiello 2010. L’ho letto quasi d’un fiato, in pochissimi giorni.
Quando l’ho finito non ho potuto fare a meno di pensare che questo libro appartiene a precise categorie narrative: innanzitutto quella delle storie con una forte connotazione regionale (in questo caso l’ambientazione sarda), in secondo luogo quella dei racconti un po’ minimali, cioè non minimali per la portata dei sentimenti che raccontano, né minimali nello sviluppo psicologico dei protagonisti, ma minimali nel senso di circoscritte, semplici, quasi contenute. Infine, il libro appartiene alle storie che non lasciano scampo né ai protagonisti, né al lettore, trascinandoli nelle pieghe di un destino che sembra non consentire spazi di speranza, se non esclusivamente intimi.
Michela Murgia non vuole raccontare saghe familiari, né parlare di vicende storico-sociali ampie a partire dalle storie personali, bensì si concentra su due personaggi femminili, quella di Bonaria Urriu, l’accabadora, e quella di Maria Listru, la fill’e anima di Bonaria.
Bonaria è una che osserva la vita per comprenderla. Cerca non il suo significato profondo e universalmente valido, ma quello che in qualche modo è più compatibile con la nostra umanità. È una donna di profondi sentimenti e di un elevato livello di moralità, ma si trova a fare i conti con domande che non hanno risposte semplici, nemmeno per chi è disponibile a cercarle con umiltà.
Maria ruba attimi ad un’esistenza che si annuncia grama e scarna di soddisfazioni. Si illude di poter prendere il controllo di se stessa e della vita, pensa di poter capire tutto e sulla base di questo di poter giudicare. Ma si renderà conto a proprie spese che i sentimenti ci sfuggono di mano, l’umanità ha sfaccettature complesse, le cose non hanno nomi definiti una volta per tutte, i torti non sempre trovano compensazione.
Maria imparerà la difficile arte dell’accettazione della propria e dell’altrui imperfezione in un finale ineluttabile nel rivendicare la forza delle origini.
Il libro di Michela Murgia sprigiona umiltà da ogni pagina, non cerca di essere difficile a tutti i costi, non aspira all’intellettualismo. Piuttosto si fa semplice, piano, piccolo, esattamente come il mondo che racconta. Non per questo però cade nella semplificazione, conscio che anche le società e le persone più semplici portano impressi i segni della complessità della nostra umanità.
Voto: 3,5/5
domenica 16 marzo 2014
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