venerdì 10 novembre 2023

Festa del cinema di Roma, 18-24 ottobre 2023 (Seconda parte)

Qui la prima parte del resoconto della Festa del cinema.

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Un amor


Isabel Coixet torna al cinema adattando per il grande schermo l'omonimo romanzo di Sara Mesa.

La protagonista di Un amor è Natalie (Laia Costa), una giovane donna che fa l'interprete in un centro che si occupa di valutare le domande di asilo di immigrati. Fortemente turbata sul piano emotivo da questa attività lavorativa, Natalie decide di trasferirsi a vivere e a lavorare a La Escapa, un paesino rurale in mezzo al nulla, dove spera di ritrovare un po' di serenità interiore. In realtà la vita nel paesino si rivelerà molto più difficile di quanto lei pensi: la casa che ha affittato cade a pezzi e il proprietario non solo non ha nessuna intenzione di sistemarla ma ha un atteggiamento aggressivo verso di lei, i vicini quando non sono ostili sono invadenti e ambigui, spesso predatori. Dopo aver ricevuto una proposta "indecente" da Andreas (Hovik Keuchkerian) che tutti chiamato "il tedesco", anche se nessuno ne conosce la storia, Nat inizia una storia con questo omone grande e grosso, e di pochissime parole, occupato dal soddisfacimento dei bisogni primari e per niente interessato alle sottigliezze emotive.

Per Nat sarà l'inizio di una progressiva discesa agli inferi, durante la quale il mondo circostante assumerà una posizione via via più ostile nei suoi confronti, fino allo scioglimento finale.

C'è qualcosa nel film di Isabel Coixet che a me, ma anche a S. e a F. che vedono con me il film, fa tornare alla mente As bestas di Sorogoyen. In entrambi i casi c'è qualcuno proveniente dalla città e da lavori intellettuali che si sposta volontariamente a vivere nell'ambiente rurale alla ricerca di un ambiente più tranquillo e più vero; in entrambi i casi, queste piccole comunità rurali piuttosto isolate si rivelano molto poco accoglienti e attraversate da forme più o meno sotterranee di frustrazione e di violenza; in entrambi i casi, si manifesta presto un conflitto e una incompatibilità impossibile da sanare tra questi due mondi, che possono anche degenerare in forme di espulsione più o meno violenta.

In questo film, oltre all'evidente maschilismo che attraversa la comunità, l'elemento su cui si pone particolarmente l'attenzione è una frattura insanabile di sensibilità emotiva. Mentre Nat è abituata a riflettere e a parlare delle cose e delle situazioni, a confrontarsi con gli altri, ad analizzare i propri e gli altrui sentimenti, a dare dei nomi alle emozioni, gli abitanti di questa comunità sembrano invece o completamente appiattiti sui bisogni materiali (come nel caso di Andreas), oppure totalmente avviluppati nelle loro dinamiche individuali, o ancora prigionieri di perverse dinamiche collettive. In generale l'altro - sia esso persona o animale - esiste solo in funzione dei propri bisogni, altrimenti è rimosso o schiacciato.

Il ballo finale della ragazza è catartico e liberatorio, è una specie di rinascita a sé stessa e alla vita, forse consolatoria, ma necessaria. Mi chiedo alla fine del film come mai questo tema sia al momento attuale così tanto presente nell'immaginario e nella cultura spagnola. Mi piacerebbe saperne di più.

Voto: 3,5/5



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Fingernails


Christos Nikou è un regista greco che si è fatto conoscere grazie al film Apples (Mila), che io pure avevo parecchio apprezzato. Per questo quando ho trovato il suo nuovo film, Fingernails, in programma alla festa del cinema di Roma non ho avuto dubbi sull'acquistare i biglietti. E la sera della proiezione sono stata molto contenta della presenza in sala del regista e della breve intervista che ha rilasciato, dalla quale ho scoperto tra l'altro che il film non sarà distribuito in sala ma solo su piattaforma.

Durante l'intervista, Nikou ci dice che l'idea del film l'ha avuta perché l'amore è una cosa complicata e avrebbe voluto capirci di più, ma che anche dopo il film continua a non capirci niente.

La storia di Fingernails è ambientata in futuro in tutto e per tutto simile al nostro, salvo per un piccolo dettaglio. Le coppie hanno la possibilità di effettuare un test per verificare se sono veramente innamorate e ottenere così un certificato del proprio amore; il test consiste nell'analizzare un'unghia dei partner attraverso un macchinario che sembra uscito direttamente dagli anni Sessanta. Al centro del racconto c'è Anna (Jessie Buckley), che sta insieme a Ryan (Jeremy White, l'attore della serie di successo The Bear). I due hanno già fatto il test una volta con successo, mentre tra i loro amici c'è chi non lo vuole fare e chi ha avuto un responso non positivo.

A un certo punto Anna comincia a lavorare in un Love Institute - dove appunto le coppie vengono seguite in un percorso di rafforzamento e verifica del legame prima di essere sottoposte al test - e viene affiancata ad Amir (Riz Ahmed). Il lavoro nell'Istituto alimenta da un lato i dubbi di Anna rispetto alla tenuta del suo rapporto con Ryan, dall'altro il suo desiderio romantico di trovare un modo di governare e capire l'amore. Ovviamente le cose non andranno come Anna pensa, ma andranno in un modo per lo spettatore molto prevedibile.

Ebbene sì, devo ammettere che ho trovato il film di Nikou non solo piuttosto semplicistico e scontato, ma - a parte la trovata del test con le unghie e l'idea di un certificato dell'amore (per questo però si erano già inventati il matrimonio parecchio tempo fa) - anche poco originale. Nel tentativo di comprendere in maniera laterale qualcosa di più del modo in cui funziona l'amore, il regista constata - come era naturale - che l'amore è ingovernabile e porta con sé dei rischi insopprimibili. Il bisogno di novità e quello di stabilità sono talmente connaturati all'essere umano, che quando due persone entrano in una qualche relazione la ricerca di un equilibrio tra le due spinte succitate è continua e ineliminabile.

Ne viene fuori una commedia romantica degli anni 2020 (che collegherei idealmente a cose tipo C'è posta per te oppure Harry, ti presento Sally), ma che risulta un po' troppo superficiale nel delineare i personaggi: i due uomini sono figure senza sufficiente spessore e approfondimento psicologico, e Anna risulta alla fine incomprensibilmente un po' ingenua.

Insomma, se vi aspettate un film destabilizzante alla maniera della weird wave greca, non guardate all'ultimo film di Nikou, che con questo lavoro si muove su terreni molto più standardizzati e conosciuti.

Voto: 3/5



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Notre monde


Nell'ambito di Alice nella città viene presentato il film Notre monde (Bota jonë nella versione originale) della giovanissima regista kosovara, naturalizzata francese, Luàna Bajrami, nota fin qui soprattutto per le sue interpretazioni come attrice, ad esempio nel film di Celine Sciamma Ritratto di una giovane in fiamme.

Con questo film la Bajrami volge lo sguardo al suo paese di origine, raccontando una storia ambientata nel 2007 le cui protagoniste sono due cugine che decidono di fuggire dal loro villaggio per andare a studiare all'Università di Pristina. Una delle due ha entrambi i genitori, ma soffre della rigidità del padre e della mentalità arretrata del paese, l'altra è orfana di padre, mentre la madre è andata via.

Arrivate a Pristina le due ragazze troveranno un contesto molto diverso da quello atteso: l'università è completamente allo sbando, le lezioni vengono soppresse, gli studentati sono praticamente autogestiti, e la gioventù cittadina è negletta e abbandonata, nonostante qualcuno cerchi di organizzare delle proteste e di far sentire la sua voce. Zoé e Volta fanno amicizia con altri ragazzi della loro età e a poco a poco vengono introdotte negli ambienti ch'essi frequentano, dove però trovano solo frustrazione, solitudine e desolazione. I loro sogni crolleranno uno dopo l'altro, mentre le loro strade si divideranno.

Il film di Luàna Bajrami è forse cinematograficamente acerbo e a tratti si avvita un po' su sé stesso, ma ha lo straordinario merito di accendere una luce su una realtà come quella del Kosovo che riceve attenzione solo quando divampa una guerra (fenomeno che tra l'altro riguarda molti paesi del mondo). Credo che - a parte poche e confuse notizie - tutti noi sappiamo pochissimo di questo paese che ha dichiarato unilateralmente l'indipendenza nel 2008 ed è oggi riconosciuto da molti, ma non tutti i paesi, e certamente non dalla vicina Serbia che accampa diritti sul territorio kosovaro. Per me il film della Bajrami è stata dunque l'occasione per acquisire maggiori informazioni su un paese vicino, ma che sfugge al nostro radar molto limitato.

Voto: 3/5

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Past lives


Avevo già adocchiato questo film qualche mese fa quando avevo scoperto che nella sua colonna sonora è presente una canzone di Sharon Van Etten, una delle mie cantautrici preferite. Quando l'ho rivisto nel programma della festa non me lo sono lasciato sfuggire.

La regista Celine Song, di origine sudcoreana poi naturalizzata canadese, attinge anche alla propria storia personale per raccontare la vicenda di Na-Young (Greta Lee), nata a Seoul ma emigrata intorno ai dodici anni insieme ai genitori in Canada, dove prende il nome di Nora. Il film si apre con una scena che rivedremo quasi al termine della pellicola: Nora è al bancone di un bar con due uomini, un coreano e un americano, e qualcuno li osserva facendo illazioni su quali siano i rapporti tra questi personaggi. Dopo questo prologo la vicenda si sviluppa in tre differenti fasi temporali: la prima si svolge in Corea quando Na-Young ha dodici anni e ha una cotta per il suo compagno di scuola Hae Sung, che però dovrà lasciare a breve vista la decisione dei genitori di emigrare in Canada; la seconda parte vede Nora, che intanto vive da sola a New York dove si è trasferita per inseguire il suo sogno di diventare scrittrice, e Sae Hung, che sta terminando i suoi studi a Seoul, ritrovarsi attraverso i social dopo molti anni e cominciare a videochiamarsi e a ricostituire il legame passato, salvo decidere alfine di non sentirsi più, vista la distanza e le scelte inconciliabili; infine nell'ultima parte, Sae Hung decide di fare un viaggio a New York e di andare a trovare Nora, che nel frattempo si è sposata e vive con Arthur (John Magaro). In questi pochi giorni insieme il legame tra Nora e Sae Hung si conferma molto forte, ma entrambi sono consapevoli che la vita è ormai andata in un'altra direzione.

Quella di Celine Song è la reinterpretazione della teoria delle sliding doors (ossia delle strade diverse che per scelte, coincidenze, situazioni imprevedibili le nostre vite possono prendere) alla luce della cultura sudcoreana e in particolare del concetto dell'in-yuan (una forma di fatalismo amoroso che ha a che fare con la reincarnazione).

Ne viene fuori una commedia romantica delicata, che risulta antica e contemporanea al contempo, anche grazie a una parziale inversione di ruoli che vede una figura femminile dalle idee molto chiare e due uomini gentili ma anche piuttosto insicuri, in una dinamica complessiva in cui prevalgono il rispetto e la complicità sulla gelosia e la competizione.

Voto: 3,5/5



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Mother, couch


La mia maratona cinematografica alla festa del cinema di Roma si conclude con questo folle film del regista svedese Niclas Larsson, tratto dal romanzo Mamma i sofa di Jerker Virdborg.

Il film racconta l'esperienza tra il surreale e l'onirico che David (il bravo Ewan McGregor) si trova a vivere nel momento in cui varca la soglia di uno strano negozio di mobili vintage, nel quale lo attendono suo fratello Gruffudd (Rhys Ifans) e sua madre (Ellen Burstyn). Apparentemente sono lì per comprare una cassettiera, se non fosse che la madre si è seduta su un divano e non ha alcuna intenzione di spostarsi di lì.

Il tutto comincia come una commedia un po' grottesca e surreale, ma - man mano che la narrazione va avanti - il tono si fa sempre più inquietante e quello a cui assistiamo si presenta sempre di più come un incubo a occhi aperti o un viaggio nell'inconscio, nei quali i rapporti di causa-effetto si perdono e la narrazione si fa sempre più priva di senso o quantomeno di spiegazioni razionali. Del resto il film di Larsson sembra proprio attingere alla specificità narrativa dei sogni, che risultano credibilissimi mentre li facciamo, ma poi, quando tentiamo di raccontarli, mostrano rapidamente tutta la loro insensatezza.

Non ho visto Beau ha paura, ma mi sono figurata che tra il film di Ari Aster e quello di Larsson ci possano essere delle similitudini, quanto meno perché al centro c'è un rapporto madre-figlio e, nello specifico, un figlio che deve affrontare e riemergere tra un trauma infantile legato proprio alla figura della madre.

Non posso dire che il film non tenga attaccati alla poltrona e non susciti interrogativi solo parzialmente sciolti dalla sceneggiatura, ma nel complesso - e al netto delle ottime interpretazioni di protagonisti e comprimari - c'è qualcosa che non funziona e che lascia un po' frustrati e insoddisfatti.

Voto: 3/5

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