mercoledì 15 ottobre 2025

Tutto quello che resta di te

Tutto quello che resta di te è il film scritto, diretto e interpretato da Cherien Dabis, che racconta la storia di tre generazioni all’interno di una famiglia palestinese su un arco temporale che va dal 1948 agli anni recenti. La storia è narrata in prima persona da una Hanan ormai anziana (la stessa Cherien Dabis) a un interlocutore la cui identità verrà rivelata molto più avanti, e parte dalla morte del figlio di lei, Noor, ammazzato durante l’intifada del 1988 da un proiettile israeliano, per ritornare indietro nel tempo al 1948, quando il nonno di Noor, Sharif, viveva a Jaffa in una bella casa circondata da un agrumeto con la moglie e i figli, tra cui Salim, il marito di Hanan.

Con la fine del protettorato britannico e la nascita dello stato di Israele, a fronte di comportamenti sempre più aggressivi e intimidatori da parte dell’esercito israeliano, Sharif fa trasferire la famiglia altrove e, dopo essere finito lui stesso in un campo di prigionia, raggiunge la famiglia in Cisgiordania, dove stanno sorgendo campi profughi e poi nuovi insediamenti palestinesi. È qui che ritroveremo nel 1978 Salim, ormai adulto, sposato con Hanan, che vive insieme al padre Sharif ormai anziano, e ai figli tra cui Noor, che crescerà ribelle e combattivo come suo nonno, in contraddizione con l’animo conciliante di suo padre Salim.

Mi preme innanzitutto sottolineare che i ruoli degli uomini protagonisti di questa storia sono splendidamente interpretati da tre attori che fanno parte di una stessa famiglia palestinese, Mohammad, Saleh, Adam Bakri (il primo padre degli altri due), volti noti anche al pubblico italiano, in particolare Saleh.

La parte però più densa del film non è tanto quella storica – che pure ha un suo valore per aiutare a comprendere il punto di vista dei personaggi – bensì quella che segue la morte di Noor e che prova a riportare il conflitto a una dimensione di umanità che, in una vicenda come quella israelo-palestinese, sembra essere ormai completamente persa.

È proprio in questa dimensione - nella ricerca della comprensione, del dialogo, della compassione reciproca - che si percepisce l’impronta femminile su questo film, ed è probabilmente la cosa più forte che arriva allo spettatore.

Per il resto, il film mi è sembrato didascalico senza esserlo fino in fondo, informativo ma non abbastanza per dare tutti gli strumenti di comprensione allo spettatore, e un po’ troppo a tesi per poter raggiungere pienamente il suo scopo. Inoltre, sul piano più propriamente cinematografico, la ricostruzione mi ha fatto un po’ troppo l’effetto fiction. È un po’ la stessa cosa che mi era successa con il film della Cortellesi, anch’esso animato da buonissime intenzioni, ma secondo me un prodotto cinematografico per spettatori di bocca buona e non troppo sofisticati.

Non voglio fare la snob anche questa volta, ma non posso fare a meno di notare anche in questo film un livello di semplificazione che probabilmente è importante per raggiungere lo scopo e farsi capire dal grande pubblico, ma che io faccio fatica ad apprezzare.

Come ho sentito dire recentemente, è indubbio che i fatti esistono solo attraverso una narrazione, perché da soli sono come un dipinto senza tela. Quindi è giusto che i palestinesi e chi ha a cuore la loro causa costruiscano una propria narrazione, che forse fin qui è in parte mancata, lasciando lo spazio della narrazione dei fatti solo ad altri. È quindi fondamentale riportare i palestinesi al centro della narrazione, per non lasciare che la narrazione diventi monopolio altrui, ma è anche importante far crescere lo storytelling in qualità e complessità, per dargli spessore umano e storico.

Voto: 3/5


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