lunedì 17 maggio 2010

Testimone inconsapevole / Gianrico Carofiglio

Testimone inconsapevole / Gianrico Carofiglio. Palermo, Sellerio, 2002.

E bravo Gianrico. Sì, lo voglio chiamare così, per nome. Perché il modo in cui parla della mia terra e dei miei luoghi (che sono anche i suoi) mi dà un senso di comune appartenenza e mi fa sentire un’inusitata vicinanza. Ora poi che scopro che è nato, come me, il 30 maggio lasciatemi giocare e fantasticare su questa inaspettata coincidenza.

La pugliesità – e forse più precisamente la baresità - è qualcosa che ho riscoperto nel tempo, dopo averla a lungo rinnegata. Mi dicono che questa riscoperta delle origini, che sembra caratterizzare il mio più recente percorso e che per me è realmente nuova in quanto esce purificata dal tempo e dall'esperienza della lontananza, sia un segno di maturità e crescita.
Forse, dunque, nonostante i ripetuti inviti che che mi sono stati rivolti nel tempo da parte di più persone, non ci sarebbe stato momento migliore di questo per iniziare a leggere Carofiglio (la cui lettura voglio, a questo punto, certamente proseguire).

Cosa mi è piaciuto di questo libro? Certamente – e più di tutto – il modo in cui è costruito e raccontato il protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri. Il suo percorso di riscatto, come uomo e come avvocato. La sua fragilità e le sue debolezze, i suoi dubbi e le sue incertezze, la sua umanità sofferta e spocchiosa al tempo stesso, ma sempre assolutamente piena e vera.

La difesa del senegalese Abdou dall’accusa di omicidio del piccolo Francesco non è il solito caso giudiziario, è in realtà un processo interiore di riscoperta di quanto di bello c’è in se stessi, negli altri e nella vita. Gli abissi da cui Guido risale lo riportano al mondo, più vero e più maturo; e ad ogni sigaretta accesa lo si ama di più.
L'iniziale squallore di questo avvocatucolo che ha perso qualunque idealità, finendo per perdere anche se stesso, conferisce agli esiti del percorso una forza emotiva e comunicativa di tutto rilievo.

Guido non è un personaggio complesso, di quelli giocati su piani psicologicamente arditi e affascinanti, ma che non ci appartengono, bensì, in fondo, uno qualunque. Però - o forse proprio per questo - alla fine una lacrima ce la strappa.

Per una incorreggibile romantica come me, la storia e lo stesso Guerrieri acquistano poi una marcia in più nel momento in cui entra in scena Margherita. Che personaggio delicato e indimenticabile questa Margherita, che pur restando sempre in secondo piano e muovendosi sempre quasi in sordina, imprime al racconto una forte dose di sensibilità e lo segna in maniera del tutto particolare!

In secondo luogo, mi è piaciuta la scrittura di questo romanzo. All’inizio l’ho scambiata per una scrittura di basso profilo. E invece è cosa ben diversa. È come il suo protagonista: semplice, ma non banale. Capace di disseminare qua e là piccole perle destinate a rimanere impresse nella memoria a lungo.
Giusto per fare qualche esempio tra quelle che mi sono piaciute di più:

«Ci si affeziona anche al dolore, persino alla disperazione. Quando abbiamo sofferto moltissimo per una persona, il fatto che il dolore stia passando ci sgomenta. Perché crediamo significhi, una volta di più, che tutto, veramente tutto finisce.» (p. 179)

«Eppure, forse per la prima volta nella mia vita, non mi sentivo a disagio nel silenzio. Non sentivo l’ansia di riempirlo, in qualche modo, con la mia voce o qualche altro rumore. Avevo l’impressione di intuirne la trama delicata, mobile. La musica, pensai in quel momento.» (p. 184)

«Sentivo il tempo rallentato, la tensione nell’aria e sulla mia pelle. Sentivo gli occhi di Margherita su di me, sapevo che non c’era bisogno di chiederle se ero stato bravo. Ero stato bravo.» (p. 213)

«Ci passano vicini interi mondi e non ce ne accorgiamo. Ero turbato.» (p. 233)

«Senza una ragione che fossi in grado di identificare, mi venne in mente un proverbio turco, antico, che diceva più o meno così: Prima di amare, impara a camminare sulla neve senza lasciare impronte.» (p. 256)

«Appassionarsi e nutrire aspettative sono due cose pericolose.» (p. 302)

«Io aspettavo di finire di mangiare, perché bisogna avere pazienza e fare ogni cosa al momento giusto. Mi sembrava di avere capito questa cosa, insieme ad alcune altre.» (p. 311)

«Pensai ai conti che si chiudono e alle cose che cominciano. Pensai che avevo paura ma che, per la prima volta, non volevo sfuggirla o nasconderla, quella paura. E mi sembrava una cosa tremenda, e bellissima.» (p. 315)

Ancora una volta, rileggendo in fila queste frasi, mi rendo conto di essere irrimediabilmente e inconsciamente attratta dal rapporto che i personaggi hanno con il tempo; cerco, forse, attraverso di loro, di fare pace anch'io con il vuoto, con il silenzio, con l'impotenza, con la necessità di aspettare. E così mi sembra così appropriato a me quel proverbio cinese che Guido cita durante l’arringa finale: «Due terzi di quello che vediamo, è dietro i nostri occhi.» (p. 287).
Non so, sarà che negli ultimi tempi ciò che guardo intorno a me si dilata e si contrae continuamente, assume colori completamente diversi in sintonia con i moti del mio animo, risplende e poi improvvisamente scompare alla vista... ma ho sempre più la sensazione che questi cinesi abbiano proprio ragione.

Voto: 4/5

P.S. Siamo al secondo post scritto durante un viaggio in aereo. Aereo che non mi ispira affatto la lettura di studio, ma che evidentemente concilia – almeno in parte – questa vena creativa da blogger. E visto che l’aereo diventerà piuttosto presente nella mia vita per i prossimi sei mesi, ho idea che il blog ne potrà davvero trarre qualche beneficio! ;-)

2 commenti:

  1. anch'io ho letto con gran piacere sia questo Testimone inconsapevole che l'altro Ad occhi chiusi. Non sono però riuscita a leggere Il passato è in terra straniera, e nè La perfezione provvisoria. Sto ancora sperando che ne scriva uno a livello dei primi due

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    1. Anch'io aspetto un'altra storia di Guerrieri all'altezza di questa... :-)

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