Il testo da cui è tratto lo spettacolo teatrale messo in scena al Teatro India è quello con cui lo scrittore americano di origini pakistane Ayad Akhtar ha vinto nel 2013 il Premio Pulitzer.
Disgraced è la storia di Amir, un americano di origini pakistane (esattamente come l’autore del testo), che ha preso le distanze dalle sue origini e dalla religione musulmana, e sembra essere perfettamente integrato nella società americana: è sposato con una donna americana, artista di larghe vedute, peraltro appassionata dell’arte islamica, e lavora per un importante studio di avvocati che si occupano di questioni finanziarie.
In realtà le cose sono molto meno semplici e risolte di come appaiano, soprattutto nell'America del post 11 settembre, dove le persone di origine musulmana sono guardate con sospetto già solo per il loro aspetto (anche se magari sono nati negli Stati Uniti). E da questo punto di vista mi è tornato in mente il film The reluctant fundamentalist che avevo visto al cinema qualche anno fa.
Amir infatti – oltre ad aver cambiato il suo cognome – cerca di non esibire le sue origini e non perde occasione per ribadire la sua distanza culturale da una religione, nata – come dice lui – in un deserto per una società tribale. Anche per questo è in difficoltà con suo nipote, Abe, che vorrebbe il suo aiuto per un amico Imam che è accusato di sostegno alle attività terroristiche.
Tutte queste contraddizioni esplodono durante una cena cui sono invitati il gallerista ebreo che esporrà le opere di sua moglie con la relativa moglie afroamericana, tra l’altro collega di Amir nello stesso studio legale.
Durante questa cena emergono da un lato le ipocrisie della classe colta e liberale americana che scambia il proprio essere politicamente corretta con la capacità vera di fare i conti con la diversità e i possibili pericoli che in essa sono insiti, dall’altro la fragilità di un’integrazione che – sembra dirci l’autore – è possibile solo in una situazione ideale o facendo finta che le differenze e le contraddizioni non esistano.
Il punto di vista del testo di Akhtar fa molto discutere perché sembra non lasciare spazio ad alcun tipo di speranza e sembra suggerire che – per quanto razionalmente si prendano le distanze dalle proprie origini - queste possono in qualunque momento riprendere il sopravvento in una situazione emotivamente difficile o quando si è sotto pressione, e che a quel punto la lettura delle tue azioni sarà sempre ricondotta alle tue origini.
Ayad Akhtar solleva il velo da una società solo apparentemente aperta, liberale, multiculturale, nella quale in realtà l’integrazione è di là da venire e forse per certi versi impossibile, e in cui - pur essendo l’America stessa il risultato di un melting pot - ciascuna etnia fa a gara per rivendicare la propria maggiore americanità e la consonanza del proprio background culturale con i principi fondativi della nazione americana.
Un testo che sarebbe risultato profondamente razzista se non fosse stato scritto da qualcuno che con quel clima di sospetto che è l’anticamera del razzismo nonché della propria radicalizzazione ha dovuto fare i conti in prima persona e sulla propria pelle.
Di buon livello anche gli attori, tra l’altro scelti all’interno delle comunità etniche che rappresentano in modo da rendere la rappresentazione più realistica.
Dal punto di vista narrativo il testo parte un po’ in sordina per crescere a poco a poco. A me resta una certa idiosincrasia nei confronti di una scrittura americana molto molto tipica, a cui forse ci siamo così abituati che ormai a tratti risulta piuttosto stucchevole. Però, certamente, in questo caso da un testo apparentemente molto tipico e già sentito viene fuori un dramma molto originale e per nulla banale.
Voto: 3,5/5
lunedì 19 marzo 2018
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