"Perché devo essere costretto a fare delle cose? Solo perché sono bravo?"
Questa frase di Sergei Polunin si ricollega idealmente a quella che sua madre gli dice quando torna a casa: "La vita è fatta così. Ci sono le responsabilità. Ognuno di noi ha la responsabilità di qualcun altro e deve farsene carico".
La vita di Sergei Polunin in qualche modo è una molla sempre tirata - e a costante rischio di spezzarsi - tra un grande senso di responsabilità (verso se stesso, verso la propria famiglia, verso il proprio talento) e il bisogno di vivere la propria età, di condurre una vita normale, di non dover essere prigioniero del proprio talento, che pur essendo un dono richiede energie, applicazione, fatica e abnegazione, e spesso produce solitudine e sofferenza.
Il film che il regista Steven Cantor (le cui qualità e sensibilità erano già emerse con altri lavori, per esempio il documentario dedicato a Sally Mann, che infatti vorrei recuperare) ha dedicato al ballerino ucraino Sergei Polunin non è solo una biografia per immagini; è un tentativo - secondo me riuscito - di esplorare la psicologia di questo ragazzo e di analizzare il mondo della danza andando al di là delle ricostruzioni semplicistiche, delle etichette e degli stereotipi utilizzati dai mass media.
Sergei Polunin (che oggi ha quasi trent'anni) nasce a Cherson, un piccolo paese nel sud dell'Ucraina, da una famiglia con pochi mezzi: suo padre Vladimir è operaio e sua madre Galina è casalinga. Fin da piccolo, Sergei - che come tutti i bambini dell'Est Europa viene avviato piccolissimo alla ginnastica artistica - dimostra di avere una naturale propensione per la danza, testimoniata dai numerosi video delle coreografie che improvvisa a casa. Al momento in cui - come ci dice sua madre - i bambini devono scegliere se continuare la strada della ginnastica o passare alla danza, Sergei sceglie ovviamente la danza e inizia la sua formazione con una insegnante e ballerina della scuola locale, cui rimarrà molto legato.
Quando le sue qualità diventano evidenti, sua madre decide di iscriverlo alla scuola di danza di Kiev e - per poterlo mantenere agli studi - la famiglia si divide: sua nonna va a fare la badante in Grecia, suo padre va a lavorare in Portogallo e sua madre si trasferisce con lui a Kiev. Qui, come dirà Sergei più avanti, finisce per lui il divertimento. Perché è vero che il piccolo Sergei è sempre un passo avanti a tutti e diventa sempre più bravo, ma su di lui aumenta progressivamente la pressione psicologica - inevitabile - di una scelta familiare pesante che è di fatto un investimento sul suo successo. Sarà sempre la madre a iscriverlo a un'audizione alla British Royal Ballet School e la sua accettazione nella scuola segnerà una svolta nel percorso di Sergei. Da un lato il giovanissimo ballerino brucia tutte le tappe: ha uno straordinario talento e studia il doppio degli altri, come dicono i suoi compagni di corso, cosicché presto diventa ballerino solista e a soli 19 anni primo ballerino, il più giovane della storia del Royal Ballet; dall'altro lato, la sua famiglia - che Sergei avrebbe voluto riunire grazie ai suoi successi - si sfalda: i suoi genitori si separano e Sergei va in crisi di motivazione.
In questo periodo si amplificano le voci della stampa sul suo tormento interiore che lo portano a coprirsi il corpo di tatuaggi, a fare uso di droghe e di alcol, a inseguire feste di ogni genere.
"Non ho scelto di danzare. La danza è quello che sono". L'incredibile talento che Sergei possiede e che giustamente la sua famiglia ha fatto di tutto per valorizzare ha un prezzo ed è un peso enorme da portare per un ragazzo che alla danza ha dedicato tutta la sua giovinezza e che - proprio in virtù di questo talento - fa fatica a trovare nuove sfide e facilmente cade nella noia.
Dopo due anni al Royal Ballet un Polunin in crisi di motivazione rassegna le dimissioni scatenando le reazioni dei mass media e suscitando scandalo. Dopo qualche tempo di riflessione tornerà in Russia, prima in un programma televisivo, poi alla scuola di Igor Zelensky, che avvia una nuova fase e porta nuovi stimoli alla carriera di Sergei. Ma anche in questo caso la parabola è destinata a compiersi presto e nel giro di un paio d'anni Polunin si ritrova nuovamente senza voglia ed energie.
Sarà il video di David La Chapelle sulle note di Take me to church, nato da un'idea dello stesso Polunin, a riportare il giovane ballerino e la sua eccezionalità all'attenzione del mondo.
Il documentario di Cantor si conclude con il ritorno in famiglia, il confronto con la madre e la presenza - per la prima volta - dei genitori e della nonna a un suo spettacolo, in un misto di emozione, di malinconia, di gioia e di tristezza, di leggerezza e di gravità, tutte componenti che attraversano la storia di questo ragazzo messo alla prova da un talento enorme, dono straordinario e inevitabile condanna.
Un film che regala grandi emozioni: quella, unica, di un corpo perfetto che comunica attraverso movimenti perfetti e quella, altrettanto straordinaria, che nasce dalla capacità di superare le apparenze di quel corpo per scoprirne l'anima.
Un film che - andando al di là del palcoscenico - permette di toccare con mano che anche ciò che sembra naturale e senza sforzo nasconde una fatica enorme.
Voto: 4/5
mercoledì 7 marzo 2018
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