mercoledì 18 giugno 2025

Sarabanda / Ingmar Bergman; regia di Roberto Andò. Teatro Argentina, 28 maggio 2025

Ormai giunti quasi al termine della stagione teatrale, insieme al solito “gruppetto teatro”, andiamo a vedere l’ultima regia di Roberto Andò al Teatro Argentina, non senza qualche timore, considerati la location, la regia e soprattutto l’autore del testo, Ingmar Bergman.

Sarabanda – scopro solo più tardi – è una specie di testamento di Bergman (è stato realizzato nel 2003), un seguito ideale di Scene da un matrimonio, da cui riprende i personaggi a distanza di tempo. Questa opera era stata pensata da Bergman come un film per la televisione, informazione importante per comprendere la messa in scena teatrale scelta da Andò.

Al centro di Sarabanda, oltre alla musica – come è chiaro fin dal titolo -, c’è una famiglia: il capofamiglia Johan (interpretato da Renato Carpentieri), la sua ex moglie Marianne (Alvia Reale) che torna a trovarlo nella sua casa sul lago dopo molti anni di allontanamento, il figlio di Johan, Henrik (Elia Schilton), che da anni non ha rapporti con il padre, e infine Karin (Caterina Tieghi), la figlia diciannovenne di Henrik, violoncellista come il padre. L’altra protagonista di questo dramma familiare, sebbene assente,  è Anne, moglie di Henrik e madre di Karin, morta di cancro qualche anno prima, che per tutti è un po’ il termine di paragone di una relazione affettiva sana, ovviamente senza possibilità di appello o verifica.

Trattasi di un classico dramma da famiglia disfunzionale, in cui ciascuno dei protagonisti, soprattutto quelli uniti da legami di sangue, sono incastrati in dinamiche distruttive o autodistruttive: Johan è un finto mite, ma rivela di tanto in tanto la sua natura manipolatrice, Henrik è un possessivo, con un legame morboso, quasi incestuoso con la figlia, e fortemente conflittuale con il padre, Karin è ingenua e insicura, come è normale per la sua età, e fa fatica a districarsi all’interno di queste dinamiche. Marianne è un’osservatrice quasi neutrale, spesso interlocutrice e confidente dei protagonisti, in particolare Johan e Karin.

Molto d’impatto la scelta di allestimento: il palco è completamente immerso nel buio e luci molto puntuali producono un effetto fortemente fotografico e cinematografico; gli attori si muovono all’interno di una specie di scatola nera la cui faccia anteriore è formata di piani che si aprono, si chiudono e si spostano producendo vere e proprie inquadrature e un effetto di movimento da macchina da presa. Sicuramente bravissimo Gianni Carluccio a immaginare un sistema così semplice e sofisticato al contempo, che certamente è parecchio d’effetto e ben si sposa con l’approccio ormai consolidato delle regie teatrali di Roberto Andò, che tutte strizzano l’occhio al cinema.

Nonostante le interessanti soluzioni di allestimento e di regia e la bravura degli interpreti, personalmente sono comunque uscita dal teatro piuttosto delusa. Nel testo ho sentito fortissimo il sapore di un’opera senile che risente di tutti i limiti che secondo me le caratterizzano: la cupezza, la lentezza, il ripiegamento su sé stessa. Il modo di narrare di Bergman, che già non amo nelle opere più giovanili, qui mi pare che raggiunga vette di algidità e rigidità notevoli, che faccio fatica ad apprezzare, tanto più che ormai il tema della famiglia disfunzionale è onnipresente e non è facile raccontarlo in modi che non risultino già visti e sentiti.

Esco dunque dal teatro pensando che il prossimo anno la mia programmazione teatrale sarà ancora più restrittiva e meticolosa.

Voto: 3/5

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