Nel 1947, all’indomani della seconda guerra mondiale, nasceva la Magnum, una cooperativa fondata da celebri fotografi, tra cui Henri Cartier Bresson e Robert Capa, destinata ad avere una lunga e gloriosa storia.
L’agenzia fotogiornalistica nasceva inizialmente per raccontare in immagini il mondo post-bellico, ma ben presto – includendo via via altri fotografi – allargò i propri orizzonti ai grandi temi del mondo contemporaneo.
La mostra si propone di raccontarne la storia e si articola in tre parti corrispondenti ad altrettanti periodi: la prima parte è dedicata al periodo 1947-1968: Diritti e rovesci umani, la seconda al periodo 1969-1989: Un inventario di differenze, e la terza infine al periodo 1970-2017: Storie della fine.
Ciascuna sezione è introdotta da una grande parete che raccoglie numerose fotografie di vari autori che in qualche modo sono considerate rappresentative dei temi di quel periodo.
Poi, per ciascuno di questi periodi, si alternano piccole serie fotografiche di autori diversi, noti e meno noti al grande pubblico, accompagnate spesso dalle riproduzione delle pagine delle riviste in cui questi reportage sono stati pubblicati.
E così, man mano che si procede lungo il percorso della mostra, ci si rende conto che i fotografi della Magnum da ormai 70 anni raccontano il mondo nel quale viviamo con le loro diverse sensibilità e con i loro progetti fotografici che non sempre puntano all’estetica ma certamente non mancano mai di senso.
Ai grandi nomi come quelli di Cartier Bresson, Robert Capa, Elliott Erwitt, Antoine D’Agata, Joseph Koudelka e Martin Parr si alternano fotografi e fotografe meno noti ma non per questo meno incisivi. Certo, resta la sensazione che il mondo della fotografia sia dominato da uomini bianchi di cultura occidentale, ma questo credo abbia poco a che fare con Magnum bensì con questioni molto più ampie.
L’ultima parte della mostra riproduce alcuni documenti archivistici relativi alla storia della Magnum, in particolare corrispondenze tra i fotografi che attraverso le loro lettere mettono in evidenza gli orientamenti interni all’agenzia e anche i conflitti tra visioni diverse.
Nel complesso una mostra di grande interesse (e con un grande catalogo a supporto), anche se l’organizzazione della mostra – come purtroppo spesso accade al Museo dell’Ara Pacis – lascia un po’ a desiderare.
Lo spazio espositivo al piano seminterrato dell’Ara Pacis sta diventando uno dei più importanti poli romani per le mostre fotografiche. E questo non può che farmi piacere. Però certamente bisognerebbe fare qualcosa di più per migliorare la gestione di questo spazio.
In questo caso non posso non notare un’organizzazione dei contenuti non sempre intuitiva e nemmeno tanto ben segnalata, alcune scelte nella disposizione delle fotografie quanto meno discutibili (sequenze di foto sistemate da destra verso sinistra e altre da sinistra verso destra senza una spiegazione razionale), nonché la limitata disponibilità dei fogli plastificati indispensabili a interpretare correttamente le grandi pareti con le foto mute che introducono ogni sezione (capisco che la gente non è sempre corretta ed educata e i fogli non bastano mai, ma magari anche delle fotocopie in bianco e nero sarebbero state apprezzate).
Insomma, in conclusione ho trovato la mostra soddisfacente nei contenuti, ma un po’ deludente sul piano organizzativo.
Chiudo con una bellissima frase di Erwitt a corredo del suo famosissimo lavoro Mother and child in cui credo ogni fotografo - o aspirante tale - si possa riconoscere: “For me, making pictures is a fine pastime. And making pictures I like, a wonderful pastime, And making pictures I like and other people like, a sensational pastime. And making pictures I like and others like and editors use, even better than that”.
Voto: 3/5
giovedì 1 marzo 2018
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