Se all’uscita dal cinema un film fa parlare per una mezz’ora buona le quattro persone che sono andate a vederlo questo è già un punto a suo favore.
Io personalmente ci tenevo molto a vederlo e, sinceramente, da Vinterberg e dal punto di vista danese mi aspettavo - sbagliando - un film a tesi. E invece mi trovo di fronte a un film che dentro ha tante cose diverse che – mi pare – richiedano tempo per essere metabolizzate.
Siamo nella Copenaghen degli anni Settanta, in un paese che come – e forse più – degli altri sta vivendo gli esiti di quella rivoluzione negli stili di vita che ha caratterizzato gli anni Sessanta e ancora crede, seppure all’interno di un orizzonte che già sta cambiando, nella libertà sessuale come espressione della libertà individuale.
Anna (Trine Dyrholm) ed Erik (Ulrich Thomsen) sono una coppia di mezza età, entrambi affermati professionisti: la prima è una giornalista, un volto noto del telegiornale nazionale, il secondo un architetto che insegna all’università. Stanno insieme da quindici anni (dunque il loro amore ha attraversato tutti gli anni Sessanta) e hanno una figlia adolescente, Freja, che ora si affaccia alle sue prime esperienze amorose.
A quanto vediamo, Erik e Anna si amano ancora, sebbene il loro rapporto sia parzialmente condizionato dalla frustrazione di Erik riguardo al proprio lavoro (vorrebbe fare l’architetto e non insegnare), e dalla stanchezza e dai momenti di noia di Anna.
Quando Erik eredita la casa del padre con cui non parlava da più di vent’anni si fa convincere da Anna a non venderla e a trasformarla in una comune, chiamando alcuni amici e conoscenti a dividere con loro spazi e gestione dell’immobile. Arrivano così uno scioperato, ma divertente amico di vecchia data, una coppia con un bambino che ha un grave problema al cuore, una rossa hippy, uno straniero che piange facilmente.
Per Anna è la novità necessaria a ravvivare la quotidianità, per Erik la definitiva presa di coscienza della disattenzione della moglie rispetto al suo lavoro e alla sua frustrazione. La vita della comune però va avanti tra gioie e piccoli drammi, ma sostanzialmente serena fino a quando Erik viene avvicinato in università da una giovane studentessa, Emma (Helene Reingaard Neumann), e inizia con questa una storia. È l’inizio della deflagrazione.
Tutto questo transita nel film attraverso gli occhi di Freja, che si trova suo malgrado a diventare ago della bilancia in una situazione sempre più delicata.
Mi aspettavo una riflessione sui limiti e l’inevitabilità dell’amore monogamo. Ed in parte il film di Vinterberg lo è. Ma sarebbe semplicistico e ingeneroso liquidarlo così. Perché dentro questo film c’è parecchio di più. Innanzitutto non c’è alcuna risposta, alcuna ricetta, anzi l’idea che qualunque ricetta può diventare suo malgrado una gabbia. La sensazione che si ricava dalla sua visione è che ogni persona ha esigenze diverse, che queste esigenze cambiano nel corso del tempo e che - nell’ampio spettro che si estende tra la monogamia e la poligamia (o meglio sarebbe dire il poliamore) – ciascuno nella propria vita affettiva si colloca in un qualche punto che sta tendenzialmente in mezzo e che può scivolare verso una estremità o l’altra a seconda delle fasi della vita e delle condizioni personali, un po’ come Kinsey aveva dimostrato per l’orientamento affettivo e sessuale. Al contempo, Vinterberg sembra volerci dire che, sempre nella vita, per motivi diversi, il ritorno emotivo che arriva dall’essere scelti da una persona è una componente essenziale del nostro benessere fisico e psicologico, e financo della nostra sopravvivenza, e che dunque questa è una componente di cui la natura umana sembra non poter fare a meno.
Probabilmente il film è anche una riflessione su una società – quella danese – che, dopo aver sperimentato la massima libertà di modelli affettivi nel periodo storico qui rappresentato, nelle generazioni successive ha prodotto modelli sociali e familiari ancora più convenzionali di quelli di partenza, senza per questo trovare una via d’uscita convincente al vicolo cieco della tensione tra il bisogno di esclusività e la molteplicità e variabilità dei bisogni affettivi di ciascuno. E ancora, il film introduce anche il tema del cambiamento determinato in ciascuno di noi dalle diverse età della vita (e lo fa attraverso l’adolescenza di Freja, la giovinezza di Emma, la maturità di Anna che facilmente vira in vecchiaia), nonché la nostra incapacità di determinare e condizionare il nostro percorso affettivo, prima di tutto perché coinvolge le scelte e i percorsi di altre persone – che sono evidentemente imprevedibili -, in secondo luogo perché sono imprevedibili le nostre stesse reazioni emotive anche a fronte di nostre scelte consapevoli e razionalmente sostenibili.
Se siete pronti all’andamento secondo me un po’ sincopato dei film danesi, La comune è certamente un film da vedere e di cui discutere.
Voto: 3,5/5
domenica 3 aprile 2016
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