Solo l'anno scorso ho scoperto Ascanio Celestini dal vivo. Una scoperta che non ho voluto lasciare cadere, cosicché non mi sono fatta sfuggire l'occasione di andare nuovamente ad ascoltarlo al Teatro Vittoria (teatro con cui evidentemente Celestini ha una sintonia particolare, fors'anche per la collocazione all'interno della città di Roma), nell'ambito del Romaeuropa Festival che si tiene ogni anno nella capitale.
Quest'anno Celestini torna sul palco con il suo nuovo lavoro Pueblo. Di cosa parla Pueblo? Parla appunto della gente, soprattutto quella che vive ai margini della società e che porta avanti la propria vita tra mille difficoltà: parla di Violetta e di sua madre che vivono nella casa di fronte, parla della storia di Domenica, una barbona che abita al Quadraro, di Valentina che fa la cassiera al supermercato, di Said e il videopoker, dello zingaro di otto anni che fuma.
Le caratteristiche proprie di Celestini e del suo teatro ci sono tutte: il mix inscindibile di comico e tragico (che è poi proprio della vita), la carica politica e sociale nella sua accezione più alta, una narrazione che è come un fiume in piena (e che in questo caso si avvale della tastiera e della fisarmonica di Gianluca Casadei) a fare da contrappunto).
Nel tempo il teatro di Celestini - pur restando un teatro di forte impegno civile - sembra progressivamente spostarsi dalla Storia con la S maiuscola (si pensi allo spettacolo Radio clandestina, che tanto mi era piaciuto lo scorso anno) alla storia quotidiana, quella di persone che non lasciano alcun segno del loro passaggio, vite dimenticate persino in vita.
Credo sia anche un segno dei tempi, l'effetto di una società nella quale l'azione collettiva, le istituzioni, i movimenti si sono progressivamente svuotati e hanno perso la loro attrattiva, e la quotidianità si è trasformata in una sommatoria di individualità in lotta per la sopravvivenza, dentro un vuoto siderale.
Di fronte a questa realtà Celestini sembra puntare tutto sulla narrazione. In fondo, questo suo ultimo spettacolo è incentrato proprio sul potere del racconto, come dichiarato nei primi minuti. Il narratore racconterà storie di persone di cui non sa nulla, ma che attraverso la narrazione diventano vive e conosciute.
È una dichiarazione d'amore e di fiducia nell'unico bene che nessuno ci può toccare: il racconto.
E così Celestini si fa - ancor più del solito - cantastorie, incantatore, narratore di strada, quasi nel tentativo di resuscitare una specie di storia orale che nel corso dei secoli è stata completamente soppiantata dalla storia scritta. Questo perché la storia orale è l'unica che nasce non sui documenti d'archivio, ma per le strade, tra la gente, e di questa gente racconta non necessariamente la verità, ma qualcosa che finisce per essere più vera della realtà stessa.
Di conseguenza, anche il rapporto tra il narratore e il pubblico assume un colore antico. Siamo in un teatro: Celestini sul palco e noi seduti in platea. Ma potremmo essere tranquillamente all'angolo di una strada di periferia e fermarci ad ascoltare la magia del flusso di parole di questo straordinario cantastorie.
Voto: 3,5/5
venerdì 27 ottobre 2017
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