Si spengono le luci in sala, si accendono quelle di una specie di aula scolastica dove si tengono le riunioni di Act Up Paris, il ramo francese di un’associazione americana che tra gli anni Ottanta e Novanta fece dure battaglie per i malati di AIDS.
Subito vengono messe in chiaro le regole del gioco: questo è un collettivo di attivisti e ciascuno è chiamato a dare il suo contributo nel rispetto delle regole di convivenza che il gruppo si è dato, il che non esclude un confronto a volte emotivamente duro tra i suoi componenti e lo scontro tra le diverse anime –talvolta inconciliabili – che lo attraversano.
Siamo dentro la storia con la S maiuscola, per quanto una storia spesso misconosciuta ovvero una storia che tutti abbiamo fatto finta di non conoscere o di dimenticare perché non ci riguardava.
Chiunque come me abbia vissuto la sua adolescenza e prima giovinezza tra gli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta credo ricordi benissimo cosa ha significato questa vera e propria epidemia e come sia stata interpretata dall’ipocrisia e dal perbenismo dilagante (e mai superato): una specie di punizione divina per tutti i comportamenti devianti e promiscui e un monito per tutti.
Credo che l’approccio alla sessualità di un’intera generazione sia stato profondamente condizionato da questa dolorosa vicenda, che oggi ancora non si può dire conclusa.
Ebbene, in questo orizzonte della grande storia e delle azioni collettive dell’associazione si muovono e si consumano tante “piccole” storie, come quella – in particolare – di Sean (Nahuel Pérez Biscayart) e Nathan (Arnaud Valois), due giovanissimi che si incontrano ad Act Up e si innamorano. Sean è sieropositivo, Nathan no, ma ha conosciuto e incontrato l’AIDS nella sua vita.
Il loro desiderio sessuale e il loro amore è un riscatto della vita contro la morte che inesorabilmente invade gli spazi e assottiglia sempre di più il tempo di cui Sean dispone.
Il film di Robin Campillo è fatto di lunghi dibattiti tra i membri di Act Up, di progettazione e realizzazione di azioni per sensibilizzare – sempre in modo non violento – la politica e l’opinione pubblica, di momenti di gioia liberatoria attraverso il ballo e il sesso, di amore, gelosie e conflitti, di dolore e profonda tristezza per gli amici che la malattia si porta via uno dopo l’altro.
Un film non perfetto (dal mio punto di vista tradisce qualcosa di meccanico, di non perfettamente fluido), ma profondamente sincero nella misura in cui non idealizza i protagonisti, non li fa assurgere ad eroi, e al contempo non nasconde, né passa sotto silenzio quegli aspetti che ancora oggi urtano i perbenisti e i moralisti nascosti un po’ ovunque, perfino nella comunità gay.
La realtà è complessa e sfaccettata, ognuno di noi è un groviglio di sentimenti e di contraddizioni, ideali e meschinità si mescolano in maniera inscindibile, ma ognuno dei protagonisti di 120 battiti al minuto fa quello che può per un obiettivo in cui crede come bene collettivo e individuale.
Ed è questa straordinaria e talvolta scomoda sincerità che fa la bellezza e la forza di questo film.
Se vi posso dare un consiglio: andatelo a vedere in lingua originale!
Voto: 3,5/5
venerdì 20 ottobre 2017
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