mercoledì 6 novembre 2024

Festa del cinema di Roma, 16-27 ottobre 2024 (Seconda parte)

Qui la prima parte del resoconto della Festa del cinema.

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Reading Lolita in Tehran = Leggere Lolita a Teheran

Il film di Eran Riklis (il regista israeliano de La sposa siriana e Il giardino di limoni) è la trasposizione cinematografica del libro omonimo di Azar Nafisi, bestseller a livello mondiale.

La storia è appunto quella di Azar che, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, rientra nel 1979 a Teheran per insegnare all'Università, con grandi speranze sul futuro del paese dopo la rivoluzione. Purtroppo, sappiamo che l'Iran è andato incontro a una rapidissima islamizzazione, di cui hanno subito le conseguenze (e continuano a subirle) soprattutto le donne, cosicché Azar ha dovuto a un certo punto interrompere l'insegnamento. Per alcuni anni la donna ha organizzato presso la sua casa dei seminari insieme a un gruppo di allieve per leggere alcuni classici della letteratura mondiale e riflettere sulla situazione del paese. Proprio attraverso questi incontri ciascuna di loro ha in qualche modo acquisito consapevolezza della propria condizione, e la stessa Azar ha infine scelto di tornare negli Stati Uniti insieme al marito e ai figli.

Il film non mi è piaciuto, nonostante alcune ottime interpreti tra cui Golshifteh Farahani nei panni di Azar Nafisi e Zar Amir nei panni di una delle sue studentesse, e i motivi sono diversi. Sul piano narrativo l'ho trovato legnoso e poco scorrevole, oltre che molto didascalico (le studentesse sono una specie di catalogo delle varie situazioni in cui si possono trovare le donne iraniane); straniante - anche se dovuto a comprensibili ragioni - l'effetto che produce su noi spettatori italiani il fatto che moltissime scene del film siano girate a Roma (più volte viene ad esempio inquadrata la scalinata di ingresso alla Sapienza che diventa l'ingresso all'Università di Teheran).

Ma soprattutto - al di là della questione iraniana e dell'interesse e dell’empatia che suscita in tutti noi – mi è sembrato che il film non aggiunga molto a quanto già conosciamo, o quanto meno non aiuta a comprendere le complessità, e da questo punto di vista non mi pare che i riferimenti letterari facciano crescere la riflessione. I romanzi sono usati qui quasi come feticci e pretesti, e secondo me questo toglie persino forza al loro potere dirompente. Alcune amiche mi dicono che il romanzo da cui è tratto il film ha i medesimi difetti. Dubito che lo leggerò.

Voto: 2,5/5



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The return = Il ritorno

Uberto Pasolini è un regista che seguo da tempo con attenzione. Avevo amato moltissimo il suo film Still life e avevo apprezzato anche il più melodrammatico Nowhere special. Sicuramente avevo già avuto modo di notare il suo tentativo di non ripetersi e di scegliere sempre strade narrative e cinematografiche differenti.

In questo caso però il regista mi sorprende davvero con questo film dedicato a uno specifico episodio dell’Odissea, ossia il momento del ritorno di Ulisse a Itaca, dove la moglie Penelope e il figlio Telemaco resistono da anni al tentativo dei proci di prendere il potere.

Supportato da un cast di tutto rispetto in cui spiccano Ralph Fiennes nei panni di Ulisse e Juliette Binoche in quelli di Penelope (e c’è anche il nostro Claudio Santamaria nel ruolo di Eumeo), Pasolini si lancia nel classico genere peplum, con grande attenzione alle ricostruzioni e grande dispiego di mezzi.

Non posso dire che il film sia brutto, però non posso che esprimere delle perplessità verso questa operazione, certamente coraggiosa ma per me non particolarmente significativa.

È chiaro che quella di Ulisse è una storia senza tempo che appartiene al nostro bagaglio culturale e al nostro immaginario, però - anche o proprio per questo - affrontarla oggi è una sfida davvero difficile, che si scontra da un lato con quanto già conosciamo e abbiamo già visto e dall'altro con un approccio diverso al cinema che ci rende molto più smaliziati e poco inclini ad accogliere pienamente un film di questo tipo. Se un tempo il peplum suscitava nel pubblico grandi emozioni, oggi secondo me è davvero difficile sospendere l’incredulità di fronte a un film di questo tipo, a meno che non si scelga una strada molto più postmoderna come quella di Matteo Rovere ne Il primo re (che comunque in parte soffre di alcune problematiche simili).

Insomma, spero che Pasolini si ravveda da questa strada che ha imboccato e torni a fare quei film più intimisti che personalmente ho apprezzato molto di più.

Voto: 3/5

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Blitz

Steve McQueen è un regista che seguo ormai da parecchio tempo e di cui ho apprezzato molti lavori, da Hunger e Shame, a 12 anni schiavo fino ad arrivare a Small axe, la miniserie di cui avevo visto tre film alla Festa del cinema di Roma del 2020.

Va detto che McQueen è piuttosto imprevedibile e può fare film molto diversi (vedi ad esempio il film Widows che faccio decisamente più fatica a inserire nella sua filmografia), anche se negli ultimi anni sempre di più la sua attenzione si va concentrando sulle questioni razziali che hanno caratterizzato l'Inghilterra e in modo particolare Londra nelle varie fasi della sua storia.

Siamo proprio in questo filone anche con l'ultimo film da lui realizzato per Apple TV, Blitz, che racconta la storia di George (Elliott Heffernan), un ragazzino di 9 anni che vive nell'East End di Londra con la madre Rita (Saoirse Ronan) e il nonno Gerald (Paul Weller). Del padre sappiamo solo che è un giovane della comunità nera di Londra che a un certo punto è stato arrestato dalla polizia quasi senza motivo, e non si sa che fine abbia fatto. Siamo nel 1940, durante i bombardamenti nazisti sulla città, e Rita decide di mandare il figlio nelle campagne intorno a Londra, presso un'altra famiglia, come molti stanno facendo per mettere al sicuro i loro figli. George però vive questa scelta come un tradimento, quindi salterà giù dal treno sul quale è salito e inizierà un epico viaggio attraverso la Londra bombardata per tornare a casa. Durante questo viaggio dovrà affrontare molte situazioni e avventure, in una classica storia di coming of age, che in questo caso si arricchisce della presa di coscienza da parte del bambino di appartenere a una minoranza discriminata.

Il film è ben fatto, e gli interpreti sono molto bravi a partire dalla Ronan e dal piccolo Heffernan, però devo dire che l'ho trovato un po' troppo prevedibile e poco credibile; i personaggi eccessivamente monodimensionali, e la ricostruzione per quanto interessante un po' troppo estetizzante.

Insomma, per me un pochino un passo falso di McQueen; forse la richiesta eccessiva di contenuti per effetto del moltiplicarsi delle piattaforme non aiuta a garantire un livello sempre adeguato, nemmeno quando di mezzo ci sono grandi nomi.

Voto: 3/5

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The seed of the sacred fig = Il seme del fico selvativo 

Dopo le prime scene del film, mi torna immediatamente in mente il primo episodio del film Il male non esiste, in particolare nella percezione di un forte senso di contraddizione tra presunta normalità del quotidiano ed eccezionalità della situazione politica e sociale. Scoprirò solo dopo - perché evidentemente a suo tempo non avevo memorizzato il nome - che il regista è lo stesso, quel Mohammad Rasoulof che è dovuto scappare dall'Iran per sfuggire alla persecuzione del regime. Ma non è questo che mi ha reso il film così emotivamente vicino, anche perché sono tutte informazioni che ho letto successivamente.

Il titolo del film viene spiegato dopo i titoli di testa e fa riferimento alla pianta il cui nome scientifico è ficus religiosa, la quale si sviluppa su una pianta ospite e alla fine con i suoi rami soffoca la pianta che la ospita. Questa immagine di soffocamento sicuramente rimanda a chi vive in Iran, ma forse anche agli spettatori che durante la visione saranno lentamente risucchiati in uno stato di angoscia crescente.

La storia è quella di una famiglia, padre, madre e due figlie, la più grande che frequenta l'università e la più piccola al liceo. Il padre è un giudice e tutto inizia con la sua promozione a giudice istruttore e la consegna di una pistola che gli servirà come strumento di autodifesa. Questo nuovo incarico coincide con l'avvio delle manifestazioni di piazza che si fanno sempre più frequenti dopo la morte della giovane Mahsa Amini.

Da un lato dunque le due ragazze - grazie ai loro cellulari e alle testimonianze delle loro amiche, nonché alle esperienze che vivono anche in prima persona - acquistano progressivamente consapevolezza della condizione nella quale il paese si trova, dall'altro il loro padre si trova a dover giudicare frettolosamente i moltissimi casi delle persone arrestate e spesso - proprio in seguito a queste sentenze frettolose - mandate a morte. La madre da un lato è felice della promozione del marito che darà alla famiglia la possibilità di spostarsi in una casa più grande e rappresenta comunque un avanzamento di status, dall'altro è preoccupata del contesto che si sta creando e del fatto che le sue figlie sono sempre più critiche nei confronti del loro stesso padre. La situazione deflagra quando scompare la pistola.

Nel film di Rasoulof il dramma politico-sociale del paese diventa dramma familiare, ed è un dramma che ha più coloriture: non è solo uno scontro tra ideologie politiche, concezioni etiche e religiose, bensì anche un scontro tra generazioni (si veda il rapporto tra la madre e le figlie), e tra generi (perché non è indifferente che si stia parlando di figlie femmine alla soglia dell'età adulta).

Come già avevo avuto modo di osservare ne Il male non esiste, la forza del cinema di Rasoulof non sta solo nell'essere un cinema impegnato e di denuncia (qui abbiamo modo di vedere anche i video veri delle proteste di piazza e delle reazioni violente delle forze dell'ordine), ma soprattutto nel non essere in alcun modo didascalico né giudicante. I suoi personaggi sono sempre stratificati e complessi, mai monodimensionali, e soprattutto è sempre piuttosto evidente la pietas con cui il regista guarda alle persone che - in modi e forme diverse - sono tutti vittime di un sistema disumano, di cui talvolta si fanno strumento, anche perché è un sistema che non consente alternative alla fuga. Non è possibile starci all'interno senza essere perseguitati o persecutori.

The seed of the sacred fig è un film da tre ore, in cui personalmente non ho mai sentito alcuna stanchezza, e che è in grado di giocare persino coi generi, come quando nella parte finale vira potentemente verso il thriller e infine forse verso il grottesco.

Grandissimo film. E del resto non a caso ha vinto il Premio speciale della giuria a Cannes.

Voto: 4,5/5


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