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Anora
Anora è il film vincitore della Palma d'oro a Cannes che la Festa del cinema di Roma ci dà la possibilità di vedere in anteprima. Prima di sedermi in Sala Petrassi, del film non sapevo quasi nulla, se non che il regista è Sean Baker, che ho scoperto qualche anno fa con la visione di Red Rocket.
Sean Baker è un regista che sfugge a qualunque classificazione e che fa film decisamente originali, sia a livello di soggetto sia a livello di confezione.
Qui la protagonista è Anora (Mikey Madison), una ragazza di origine russa che si fa chiamare Ani e che si mantiene facendo la lavoratrice del sesso in un locale. Ani è una donna molto sicura di sé e gestisce il suo lavoro con grande padronanza e al contempo naturalezza. Un giorno viene chiamata dal proprietario del locale per occuparsi delle esigenze di Ivan, in realtà Vanja (Mark Eydelshteyn), il rampollo di una famiglia di oligarchi russi che è negli Stati Uniti teoricamente per studiare, ma passa il tempo a divertirsi coi soldi dei genitori, tra sesso, droghe, shopping e feste. Tra Ani e Ivan si crea una sintonia: Ani accompagna Ivan nei suoi sballi e lo "aiuta" a goderseli di più, Ivan trova in Ani la perfetta partner di una filosofia di vita tutta all'insegna del lusso e del divertimento. Questo incastro porta i due a Las Vegas e al matrimonio, suscitando le ire dei genitori di Ivan che mandano i loro scagnozzi armeni a risistemare la situazione.
Se nella prima parte del film prevale la vena romantica, la seconda si fa invece grottesca e divertente, per poi virare, attraverso il personaggio chiave di Igor (quel Yuriy Borisov ammirato nel bellissimo Scompartimento n. 6), verso la malinconia e il senso di sconfitta, che in realtà - a ben vedere - corrono sotterranee fin dal principio e durante tutta la narrazione.
Gli attori in parte semisconosciuti di Sean Baker sono eccezionali nei loro ruoli, la sceneggiatura è godibilissima, a tratti esilarante, le scene ben costruite. Il film di Sean Baker è un tourbillon nel quale si viene piacevolmente risucchiati, per poi essere risputati fuori storditi e malinconici, esattamente come la protagonista, volitiva, decisa, piena di risorse, ma condannata in qualche modo a restare al suo posto, a constatare per l'ennesima volta che solo tra simili ci si comprende davvero, e che i ricchi vincono sempre perché viaggiano su altri binari.
Voto: 4/5
Qui la protagonista è Anora (Mikey Madison), una ragazza di origine russa che si fa chiamare Ani e che si mantiene facendo la lavoratrice del sesso in un locale. Ani è una donna molto sicura di sé e gestisce il suo lavoro con grande padronanza e al contempo naturalezza. Un giorno viene chiamata dal proprietario del locale per occuparsi delle esigenze di Ivan, in realtà Vanja (Mark Eydelshteyn), il rampollo di una famiglia di oligarchi russi che è negli Stati Uniti teoricamente per studiare, ma passa il tempo a divertirsi coi soldi dei genitori, tra sesso, droghe, shopping e feste. Tra Ani e Ivan si crea una sintonia: Ani accompagna Ivan nei suoi sballi e lo "aiuta" a goderseli di più, Ivan trova in Ani la perfetta partner di una filosofia di vita tutta all'insegna del lusso e del divertimento. Questo incastro porta i due a Las Vegas e al matrimonio, suscitando le ire dei genitori di Ivan che mandano i loro scagnozzi armeni a risistemare la situazione.
Se nella prima parte del film prevale la vena romantica, la seconda si fa invece grottesca e divertente, per poi virare, attraverso il personaggio chiave di Igor (quel Yuriy Borisov ammirato nel bellissimo Scompartimento n. 6), verso la malinconia e il senso di sconfitta, che in realtà - a ben vedere - corrono sotterranee fin dal principio e durante tutta la narrazione.
Gli attori in parte semisconosciuti di Sean Baker sono eccezionali nei loro ruoli, la sceneggiatura è godibilissima, a tratti esilarante, le scene ben costruite. Il film di Sean Baker è un tourbillon nel quale si viene piacevolmente risucchiati, per poi essere risputati fuori storditi e malinconici, esattamente come la protagonista, volitiva, decisa, piena di risorse, ma condannata in qualche modo a restare al suo posto, a constatare per l'ennesima volta che solo tra simili ci si comprende davvero, e che i ricchi vincono sempre perché viaggiano su altri binari.
Voto: 4/5
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Bring them down
Il film dell'irlandese Chris Andrews è un dramma rurale senza via d'uscite. Ambientato nelle colline irlandesi, protagonisti sono due famiglie le cui fattorie non sono distanti e i cui terreni sono confinanti: quella di Mikey (Christopher Abbot) che vive da solo col padre e alleva pecore, e quella di Caroline (Nora-Jane Noone), di suo marito Gary (Paul Ready) e di suo figlio Jack (Barry Keoghan).
Tutto ruota intorno al furto di due montoni del gregge di cui si occupa Mikey, e a partire da questo episodio, grazie anche a una narrazione che ci mostra gli eventi da punti di vista differenti, via via scopriamo i complessi rapporti tra queste due famiglie, e si vanno delineando i motivi dell'ostilità di Gary, ma soprattutto di Jack nei confronti di Mikey. La vicenda si fa così sempre più cupa e nera, e si avverte con forza sempre maggiore quanto primitiva e lontana dal mondo sia la vita di queste persone, talvolta frutto di una scelta consapevole, una forma quasi di espiazione dei propri errori, altre volte una condizione che si subisce ma da cui non si riesce a sfuggire.
Storia fatta di buio, di sangue, di sguardi e di pochissime parole, in cui viene lasciato interamente allo spettatore interpretare i sentimenti e i pensieri che stanno dietro le azioni non sempre prevedibili dei personaggi del film.
Ottimo cast, bravo Abbot, sempre con la giusta dose di ambiguità Keoghan. Qualche perplessità ho invece sulla costruzione del film e il montaggio, che a volte ho trovato un po' confuso e disorientante.
A tratti mi ha richiamato alla mente - più come sensazione che come narrazione - As bestas di Sorogoyen, altro dramma provenienti da mondi remoti e rurali, nei quali ogni cosa può amplificarsi e assumere proporzioni ingestibili.
Voto: 3/5
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We live in time - Tutto il tempo che abbiamo
Il regista John Crowley si affida ad Andrew Garfield e Florence Pugh per dare spessore ai protagonisti di questa storia dal soggetto piuttosto classico, ma che sa essere decisamente sorprendente. Tobias e Almut si conoscono in un'occasione non felice: Almut investe Tobias nel giorno in cui lui ha firmato le carte del divorzio. Nel breve tempo che i due trascorrono insieme nasce un feeling che li porterà a rivedersi, e poi a diventare una coppia, a fare una figlia, a condividere gioie e successi personali e lavorativi (Almut è una chef stellata), ad affrontare la malattia di Almut.
Detto così, sembra qualcosa di già visto mille volte, un melodramma tra il romantico e il lacrimevole. Crowley però riesce a dare a questa storia un respiro fresco e originale, ottimamente supportato dall'ottima alchimia tra i due protagonisti, ma anche da una sceneggiatura di altissimo livello (di Nick Payne) e quasi senza sbavature, da un montaggio che attraverso la scomposizione della narrazione ci permette di scoprire le cose in maniera sempre nuova e sorprendente, da una colonna sonora non banale.
Oltre ad alcune scene davvero magistrali (penso in particolare a quella della nascita di Ella nella stazione di servizio), il film promana una tenerezza, una sincerità e una vitalità, che in opere come questa facilmente scadono nello stucchevole e nel lacrimevole. Non che in We live in time non ci si commuova, ma la commozione è uno dei tanti sentimenti della giostra emotiva che Crowley magistralmente costruisce.
Chi legge questo blog sa che rapporto difficile ed entusiasmante ho con il tempo: non potevo non amare un film che mette al centro il "tempo che abbiamo", non per dirci banalmente che dobbiamo vivere il presente ecc. ecc. ma per farci capire, mettendo in sequenza una vita, quanta ricchezza c'è al suo interno, se solo la sappiamo vedere.
Voto: 4/5
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The outrun
The outrun è il film della regista Nora Fingscheidt, tratto dal romanzo autobiografico dal titolo Nelle isole estreme di Amy Liptrot, che è anche coautrice della sceneggiatura.
Al centro del racconto Rona (la sempre bravissima Saoirse Ronan), una giovane donna originaria delle isole Orcadi che ha studiato biologia e vissuto per un periodo a Londra, ma di fronte a un serio problema di alcolismo decide di ritornare a casa, per affrontare i suoi fantasmi anche attraverso un rinnovato contatto con la natura selvaggia delle isole.
Il presente di Rona è nelle Orcadi, dove lei ha fatto ritorno alla ricerca di sé stessa e nel tentativo di colmare i suoi vuoti e dare una risposta alla propria insoddisfazione. Attraverso un montaggio che ci porta avanti e indietro nel tempo, in fasi diverse della giovane vita della protagonista, via via ne comprendiamo il percorso e la personalità: vediamo Rona bambina all'interno di un contesto familiare non facile, in particolare a causa del bipolarismo grave del padre che ha portato alla separazione dei genitori e ha spinto la madre verso una religiosità quasi bigotta; poi più avanti la ritroviamo a Londra tra discoteche, uscite con gli amici, sbronze colossali, e nelle varie fasi del rapporto con il giovane Daynin (Paapa Essiedu), dall'intesa iniziale all'allontanamento a causa dei problemi di alcolismo di lei; infine la ritroviamo nel primo tentativo di rimanere sobria attraverso un programma di disintossicazione, che dopo oltre 200 giorni si infrange contro una crisi del padre e il fondo di vino di un bicchiere.
Rispetto ad altre storie simili che già conosciamo o che abbiamo visto sullo schermo, la cosa interessante in questo caso non è solo la riflessione sulla dipendenza, ma anche e soprattutto il rapporto con il paesaggio e la natura, probabilmente particolarmente significativo per Rona in virtù della sua formazione universitaria, ma anche come conseguenza delle sue origini.
Nell'alternativa tra metropoli e ruralità estrema io al momento non avrei dubbi su cosa scegliere e faccio davvero fatica a capire una vita così solitaria e ritirata in un posto dal clima così inospitale, però devo anche dire che queste realtà mi affascinano enormemente e mi piacerebbe entrarci in contatto.
Voto: 3,5/5
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Conclave
Di Edward Berger avevo visto Niente di nuovo sul fronte occidentale (non al cinema) e devo dire che non mi aveva colpita particolarmente. Questa volta il regista austriaco - ispirandosi nuovamente a un romanzo - si sposta dalle trincee della prima guerra mondiale a un luogo se vogliamo ancora più claustrofobico, le stanze del Vaticano durante il conclave.
Il libro omonimo è quello di Robert Harris, un best seller che ovviamente non ho letto, ma che - dopo aver visto il film - mi sono fatta l'idea che appartenga allo stesso genere di libri come Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Al centro del romanzo la morte del pontefice, a seguito della quale viene affidato al cardinale decano Thomas Lawrence (un credibilissimo Ralph Fiennes) il compito di gestire il conclave che dovrà eleggere il nuovo pontefice. Mentre a Roma convergono da tutto il mondo i cardinali, nonché un folto stuolo di suore che dovrà occuparsi del vitto e alloggio degli stessi durante il periodo del conclave, si vanno delineando gli schieramenti. Al soglio pontificio ambiscono un cardinale africano Adeyemi (Lucian Msamati), lo statunitense cardinale Tremblay (John Lithgow), nonché due italiani, i cardinali Bellini (Stanley Tucci) e Tedesco (Sergio Castellitto), esponenti di posizioni "politiche" e punti di vista molto diversi.
Il tono della narrazione è quello di un vero e proprio thriller, in cui si susseguono i colpi di scena: prima l'arrivo di un cardinale nominato in pectore dal precedente pontefice, il cardinale Benitez (Carlos Diehz), poi l'emergere di scandali che riguardano Adeyemi e Tremblay, e parallelamente anche il voto dei convenuti si sposta. Lawrence deve gestire tutto questo, in una condizione individuale sempre più difficile e incerta, fino al colpo di scena finale (invero piuttosto incredibile, nel senso di difficile da credere).
Non si può dire che il film non mantenga viva l'attenzione, e certamente si avvale di attori molto in parte (su tutti Ralph Fiennes), però sul piano dell'intreccio non convince (probabilmente come il libro da cui proviene). Ho trovato invece strepitosa la fotografia - alcune scene da lasciare a bocca aperta per composizione e colori - e molto affascinanti procedure e dettagli messi a punto nei secoli dalla Chiesa per gestire il momento della transizione tra un pontefice e un altro.
Voto: 3/5
A tratti mi ha richiamato alla mente - più come sensazione che come narrazione - As bestas di Sorogoyen, altro dramma provenienti da mondi remoti e rurali, nei quali ogni cosa può amplificarsi e assumere proporzioni ingestibili.
Voto: 3/5
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We live in time - Tutto il tempo che abbiamo
Il regista John Crowley si affida ad Andrew Garfield e Florence Pugh per dare spessore ai protagonisti di questa storia dal soggetto piuttosto classico, ma che sa essere decisamente sorprendente. Tobias e Almut si conoscono in un'occasione non felice: Almut investe Tobias nel giorno in cui lui ha firmato le carte del divorzio. Nel breve tempo che i due trascorrono insieme nasce un feeling che li porterà a rivedersi, e poi a diventare una coppia, a fare una figlia, a condividere gioie e successi personali e lavorativi (Almut è una chef stellata), ad affrontare la malattia di Almut.
Detto così, sembra qualcosa di già visto mille volte, un melodramma tra il romantico e il lacrimevole. Crowley però riesce a dare a questa storia un respiro fresco e originale, ottimamente supportato dall'ottima alchimia tra i due protagonisti, ma anche da una sceneggiatura di altissimo livello (di Nick Payne) e quasi senza sbavature, da un montaggio che attraverso la scomposizione della narrazione ci permette di scoprire le cose in maniera sempre nuova e sorprendente, da una colonna sonora non banale.
Oltre ad alcune scene davvero magistrali (penso in particolare a quella della nascita di Ella nella stazione di servizio), il film promana una tenerezza, una sincerità e una vitalità, che in opere come questa facilmente scadono nello stucchevole e nel lacrimevole. Non che in We live in time non ci si commuova, ma la commozione è uno dei tanti sentimenti della giostra emotiva che Crowley magistralmente costruisce.
Chi legge questo blog sa che rapporto difficile ed entusiasmante ho con il tempo: non potevo non amare un film che mette al centro il "tempo che abbiamo", non per dirci banalmente che dobbiamo vivere il presente ecc. ecc. ma per farci capire, mettendo in sequenza una vita, quanta ricchezza c'è al suo interno, se solo la sappiamo vedere.
Voto: 4/5
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The outrun
The outrun è il film della regista Nora Fingscheidt, tratto dal romanzo autobiografico dal titolo Nelle isole estreme di Amy Liptrot, che è anche coautrice della sceneggiatura.
Al centro del racconto Rona (la sempre bravissima Saoirse Ronan), una giovane donna originaria delle isole Orcadi che ha studiato biologia e vissuto per un periodo a Londra, ma di fronte a un serio problema di alcolismo decide di ritornare a casa, per affrontare i suoi fantasmi anche attraverso un rinnovato contatto con la natura selvaggia delle isole.
Il presente di Rona è nelle Orcadi, dove lei ha fatto ritorno alla ricerca di sé stessa e nel tentativo di colmare i suoi vuoti e dare una risposta alla propria insoddisfazione. Attraverso un montaggio che ci porta avanti e indietro nel tempo, in fasi diverse della giovane vita della protagonista, via via ne comprendiamo il percorso e la personalità: vediamo Rona bambina all'interno di un contesto familiare non facile, in particolare a causa del bipolarismo grave del padre che ha portato alla separazione dei genitori e ha spinto la madre verso una religiosità quasi bigotta; poi più avanti la ritroviamo a Londra tra discoteche, uscite con gli amici, sbronze colossali, e nelle varie fasi del rapporto con il giovane Daynin (Paapa Essiedu), dall'intesa iniziale all'allontanamento a causa dei problemi di alcolismo di lei; infine la ritroviamo nel primo tentativo di rimanere sobria attraverso un programma di disintossicazione, che dopo oltre 200 giorni si infrange contro una crisi del padre e il fondo di vino di un bicchiere.
Rispetto ad altre storie simili che già conosciamo o che abbiamo visto sullo schermo, la cosa interessante in questo caso non è solo la riflessione sulla dipendenza, ma anche e soprattutto il rapporto con il paesaggio e la natura, probabilmente particolarmente significativo per Rona in virtù della sua formazione universitaria, ma anche come conseguenza delle sue origini.
Nell'alternativa tra metropoli e ruralità estrema io al momento non avrei dubbi su cosa scegliere e faccio davvero fatica a capire una vita così solitaria e ritirata in un posto dal clima così inospitale, però devo anche dire che queste realtà mi affascinano enormemente e mi piacerebbe entrarci in contatto.
Voto: 3,5/5
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Conclave
Di Edward Berger avevo visto Niente di nuovo sul fronte occidentale (non al cinema) e devo dire che non mi aveva colpita particolarmente. Questa volta il regista austriaco - ispirandosi nuovamente a un romanzo - si sposta dalle trincee della prima guerra mondiale a un luogo se vogliamo ancora più claustrofobico, le stanze del Vaticano durante il conclave.
Il libro omonimo è quello di Robert Harris, un best seller che ovviamente non ho letto, ma che - dopo aver visto il film - mi sono fatta l'idea che appartenga allo stesso genere di libri come Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Al centro del romanzo la morte del pontefice, a seguito della quale viene affidato al cardinale decano Thomas Lawrence (un credibilissimo Ralph Fiennes) il compito di gestire il conclave che dovrà eleggere il nuovo pontefice. Mentre a Roma convergono da tutto il mondo i cardinali, nonché un folto stuolo di suore che dovrà occuparsi del vitto e alloggio degli stessi durante il periodo del conclave, si vanno delineando gli schieramenti. Al soglio pontificio ambiscono un cardinale africano Adeyemi (Lucian Msamati), lo statunitense cardinale Tremblay (John Lithgow), nonché due italiani, i cardinali Bellini (Stanley Tucci) e Tedesco (Sergio Castellitto), esponenti di posizioni "politiche" e punti di vista molto diversi.
Il tono della narrazione è quello di un vero e proprio thriller, in cui si susseguono i colpi di scena: prima l'arrivo di un cardinale nominato in pectore dal precedente pontefice, il cardinale Benitez (Carlos Diehz), poi l'emergere di scandali che riguardano Adeyemi e Tremblay, e parallelamente anche il voto dei convenuti si sposta. Lawrence deve gestire tutto questo, in una condizione individuale sempre più difficile e incerta, fino al colpo di scena finale (invero piuttosto incredibile, nel senso di difficile da credere).
Non si può dire che il film non mantenga viva l'attenzione, e certamente si avvale di attori molto in parte (su tutti Ralph Fiennes), però sul piano dell'intreccio non convince (probabilmente come il libro da cui proviene). Ho trovato invece strepitosa la fotografia - alcune scene da lasciare a bocca aperta per composizione e colori - e molto affascinanti procedure e dettagli messi a punto nei secoli dalla Chiesa per gestire il momento della transizione tra un pontefice e un altro.
Voto: 3/5
Caspita che menù!!!
RispondiEliminaIl film di Sean Baker assolutamente perché ho amato Un sogno chiamato Florida, ma anche gli altri non sembrano niente male 👍
Eh un sacco di cose da vedere!!
EliminaCuriosissimo di vedere Anora: chi dice che è un capolavoro, chi addirittura non lo avrebbe messo nemmeno in concorso a Cannes... dire che è divisivo è poco. E poi ovviamente aspetto anche "The Outrun", ma solo per la splendida Saoirse :)
RispondiEliminaCome sai, sono contraria alle estremizzazioni. Anora è un film ben fatto e interessante, ma per usare la parola capolavoro io conto sempre fino a 100. Saoirse sempre da vedere. Io la adoro.
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