lunedì 9 febbraio 2015
Il nome del figlio
Sono andata a vedere il film con grande entusiasmo, perché il trailer mi aveva incuriosita e perché molte persone me ne avevano parlato bene, se non – in alcuni casi – con toni entusiastici.
Tra l’altro avevo visto da non molto un altro film italiano, I nostri ragazzi, con quasi lo stesso gruppo di attori in una composizione e caratterizzazione molto simile: Luigi Lo Cascio e Valeria Golino, nelle vesti di marito e moglie (intellettuale lui e piuttosto sottomessa lei), Alessandro Gassmann (che lì era il fratello del personaggio di Lo Cascio, mentre qui della Golino), nei panni del belloccio che ha fatto carriera e soldi e ha sposato una donna per la sua bellezza (lì Barbora Bobulova, qui Micaela Ramazzotti).
In realtà il registro narrativo è completamente diverso; qui siamo nel territorio della commedia, ovviamente quella sofisticata e intellettuale, come si conviene alla Archibugi e al testo teatrale francese a cui il film è ispirato e da cui è stato tratto anche un film francese di qualche anno fa, Cena tra amici, che però non ho visto.
La versione della Archibugi è un film italianissimo da ogni punto di vista: dell’ambientazione (fortemente romana e particolarmente concentrata in quella zona di frontiera che è il Mandrione e l’inizio della Casilina dove la periferia si fa radical chic nelle strade del Pigneto), dei personaggi e del loro background culturale e politico.
Ne viene fuori un affresco gradevole e divertente che cinematograficamente collocherei idealmente a metà strada tra le Due partite della Comencini e il Carnage della Reza. E in qualche modo soffre degli stessi limiti di questi, dal momento che nel creare le condizioni per smascherare ipocrisie e stereotipi si fa esso stesso per certi versi prevedibile.
La storia è presto detta. Metti una sera a cena i due fratelli Paolo (Alessandro Gassmann) e Betta (Valeria Golino) Pontecorvo. Il primo, un agente immobiliare di successo e pieno di soldi, è sposato con Simona (Micaela Ramazzotti), una giovane e bella ragazza di periferia che ha appena scritto (o si è fatta scrivere?) un libro di grande successo anche se di scarso spessore, Le notti di F., e che aspetta un figlio. Betta è invece un’insegnante un po' frustrata, sposata con Sandro (Luigi Lo Cascio), un professore universitario di letteratura ossessionato dalla comunicazione via Twitter. Con loro l’amico di sempre, Claudio (Rocco Papaleo). Dall’innocente scherzo di Paolo in merito al nome del futuro figlio che già si sa essere maschio prende l’avvio una girandola di rivelazioni, conflitti verbali, ricordi, confronti che costringeranno Paolo, Betta, Sandro e Claudio (amici da una vita) a fare i conti con il passato e soprattutto con le figure – quasi mitiche – dei genitori di Paolo e Betta, il padre Emanuele (ebreo scampato all'eccidio nazista), morto ormai da molti anni, e la madre Lucia che vive ancora nella villa di famiglia nel livornese dove si collocano molti dei loro ricordi di gioventù.
Il film è una specie di tentativo di raccontare i cinquantenni di oggi, quelli che hanno ripudiato le premesse ideologiche della loro giovinezza e quelli che ne sono rimasti ingabbiati, tutti alla fine vittime degli schemi semplificati che in qualche modo ciascuno di loro si è costruito, e rispetto ai quali svetta la figura semplice ma in qualche modo senza mediazioni di Simona, che – nell’assenza di qualunque pretesa intellettuale – si propone esattamente per quella che è e mette a nudo lo snobismo altrui.
Man mano che guardavo il film – che pure mi ha molto divertito e di cui ho apprezzato particolarmente alcuni passaggi di una sceneggiatura decisamente brillante e che mi rimarrà a lungo nella memoria – avvertivo però la sensazione di qualcosa di familiare e al contempo di fastidioso, che ha cominciato a prendere forma quando in una delle scene del film si intravede per un attimo la copertina del libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti. Ed ecco che scopro che è proprio il famigerato Piccolo l’autore di questa sceneggiatura, ancora una volta bravissimo e capace di arrivare diretto al lettore e allo spettatore (a seconda dei casi), ma a sua volta vittima egli stesso dei suoi schemi, nella ripetizione di una tesi che vorrebbe apparire rinnovata nel tentativo di mettere a nudo le contraddizioni insite in chi si è nutrito delle ideologie di sinistra e si è beato della sua condizione di superiorità intellettuale e invece – in un doppio salto carpiato che sa di controrivoluzionario – esita in uno snobismo peggiore di quello che vuole discutere e in qualche modo irridere.
Il risultato – tra diverse risate e anche qualche momento di tensione e di commozione – non si può dire del tutto riuscito, perché non affonda il coltello e forse si fa esso stesso cliché, anche in alcune scelte registiche un po’ troppo compiaciute e nella prova degli attori, bravissimi, ma quasi crocifissi in ruoli che si ripetono ormai un po' troppo stancamente.
Voto: 3,5/5
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