lunedì 16 febbraio 2015

Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)

Alejandro Gonzales Iñarritu è un messicano che vive a Los Angeles.

Questa premessa è in qualche modo indispensabile per affrontare la visione del suo ultimo film Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). E lo è da almeno due punti di vista: innanzitutto perché solo un americano acquisito potrebbe guardare a Hollywood con il distacco e la consapevolezza di Iñarritu; in secondo luogo, perché la cifra dominante di questo film sta nella sua sovrabbondanza, una specie di horror vacui (sul piano narrativo, musicale, visivo, psicologico) che – unita a una certa qual componente kitsch – sarebbe incomprensibile e potrebbe persino risultare fastidiosa se non venisse correttamente inserita nel background culturale del regista.

Di cosa parla questo film? Di un attore, Riggan Thompson (un quasi irriconoscibile Michael Keaton, che si mette totalmente al servizio della causa di Iñarritu), diventato famoso negli anni Novanta interpretando un supereroe alato e volante, Birdman appunto. Dopo aver rinunciato a girare la quarta puntata della fortunata serie, Thompson ha deciso di portare in scena l’adattamento del racconto di Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. In questa nuova impresa è affiancato sul palco dalla sua amante, Laura, da una giovane attrice che ha sempre sognato di sfondare a Broadway (Naomi Watts) e da un attore talentuoso, ma parecchio sopra le righe (Edward Norton). Fuori dal palco, lo sostengono il produttore Jack, la ex moglie e la figlia Sam, appena uscita da un centro di disintossicazione.

Sul piano della confezione cinematografica, Iñarritu pensa in grande: il film è infatti costruito quasi come un unico, lunghissimo piano-sequenza che ci fa continuamente entrare e uscire dal teatro dove gli attori stanno provando, passando per i camerini, i corridoi, le scale, le terrazze e le strade circostanti. Il piano sequenza viene mantenuto anche lì dove all’interno degli stessi spazi si registra un salto temporale, che però sembra non interrompere il movimento della macchina da presa. Una specie di manifestazione estrema di virtuosismo che ben si lega all’ambizione del suo protagonista nella ricerca della consacrazione di se stesso come attore. Questo movimento fluido della camera è invece reso ritmico da una colonna sonora che – in particolare quando è in scena il protagonista Riggan Thompson – è costruita su soli tamburi, creando una tensione costante.

A livello di contenuti, Iñarritu non è meno sovrabbondante. Dentro il film trovano posto i temi più diversi (in buona parte già visti ampiamente sullo schermo) a realizzare una vera e propria summa dell’immaginario hollywoodiano.

È chiaro che l’intento primario del regista è quello di creare un gioco di specchi nel quale la meta-narrazione la fa da padrona ad ogni livello: ad esempio, il regista ci racconta il mondo hollywoodiano dall’interno, ma lo fa a partire da un palcoscenico teatrale, scoprendone in qualche modo tutti i vizi e le idiosincrasie; il suo protagonista è interpretato da un Michael Keaton che effettivamente deve parte della sua fortuna cinematografica al fatto di aver interpretato il ruolo di un supereroe alato, Batman.

Tutto questo caleidoscopio di rimandi e di indizi che il regista dissemina per tutto il film alla fine però si diparte e trova composizione nella figura di Riggan Thompson. Un attore totalmente in preda al proprio egocentrismo e sommamente terrorizzato dall’inevitabile declino e dal destino di oblio. Riggan è uno che sa fare il suo mestiere e sa riconoscere cos’è un buon attore e cosa non lo è, ma al contempo è totalmente dipendente dal riconoscimento esterno e dalla fame di popolarità. Questo sdoppiamento insanabile è incarnato dalla contrapposizione tra sé e Birdman e riflessa nell’irriducibilità tra il palcoscenico teatrale e i blockbuster movies. Nel mondo raccontato da Iñarritu - che poi è quello che ogni giorno ci si dipana davanti - qualità attoriali (e dunque competenze) e popolarità si divaricano irrimediabilmente in un gioco al ribasso che corrompe le celebrità e rende ignorante il pubblico, in un circolo vizioso che sembra alimentarsi all’infinito. E in questa parabola senza via d’uscita – in cui nessuno esce indenne, meno che mai la critica – Riggan sceglie la propria personale chiusura del cerchio, l’iper-realismo portato sul palcoscenico.

Che poi alla fine anche quello si rivelerà un sostanziale bluff, ma produrrà il risultato di riconciliare in qualche modo il nostro antieroe con se stesso.

Da vedere assolutamente in lingua originale.

Voto: 3,5/5


Nessun commento:

Posta un commento

Lascia qui un tuo commento... Se non hai un account Google o non sei iscritto al blog, lascialo come Anonimo (e se vuoi metti il tuo nome)!