Manolo (Andrea Carpenzano) e Mirko (Matteo Olivetti) sono due giovani della periferia romana, quella che potrebbe essere ovunque e nello stesso tempo non può che essere un tutt'uno con la città di Roma. Sono amici da una vita: vanno all'alberghiero insieme, la sera consegnano le pizze per tirare su qualche soldo, ridono di niente. Una sera mentre tornano a casa investono per sbaglio un uomo e fuggono via. Scoprono più tardi che si tratta di un boss locale che collabora con la polizia e che il clan che controlla il territorio voleva ammazzare.
Su suggerimento del padre di Manolo, l'episodio di per sé psicologicamente non facile da superare viene vissuto come l'occasione di una svolta, ossia la possibilità di "lavorare" per il clan e cambiare vita. Inizia così una discesa agli inferi che porterà i due ragazzi a un confronto doloroso e fatale con la propria coscienza.
Il film dei giovani fratelli D'Innocenzo, Damiano e Fabio, è un parente prossimo del cinema di periferia che ha avuto in Claudio Caligari il suo autore culto (vedi Amore tossico e Non essere cattivo). Se Caligari raccontava i giovani della periferia romana negli anni Ottanta e Novanta, i fratelli D'Innocenzo (nemmeno trentenni) parlano dell'oggi in una terra in cui l'abbastanza - spogliato di sogni, di prospettive e di alternative - non è sufficiente a dare un senso all'esistenza.
Gli adulti lo vivono chi con frustrazione (vedi il padre di Manolo, un perdente che vive in un garage), chi con fatica infinita ma con sostanziale dignità (vedi la madre di Mirko). I giovani - tra campi di calcio e piste da skateboard abbandonate e piene di rifiuti, circondate di case modeste sprofondate nel vuoto urbano - fanno fatica a difendere quello spazio mentale di giocosità e tenerezza che gli appartiene perché la quotidianità non gli offre appigli per sognare. E così la vita criminale si presenta come la grande occasione, che coglieranno con un atteggiamento costantemente ambivalente, di partecipazione ed estraneità, in un dissidio interiore crescente e senza soluzione.
I fratelli D'Innocenzo costruiscono i loro personaggi in maniera così vera che lo spettatore vede il conflitto esplicito in Mirko, ma non percepisce - se non indistintamente - l'abisso in cui sta sprofondando Manolo, e da cui è colpito come un pugno inaspettato nello stomaco.
La terra dell'abbastanza ci mostra mirabilmente il crinale sottile sul quale si muovono le vite di questi giovani di periferia, chiusi nelle maglie di una quotidianità dagli orizzonti ristretti su cui eventi e coincidenze impreviste possono produrre esiti diversi.
Registicamente Damiano e Fabio D'Innocenzo scelgono di stare addosso ai loro personaggi, perché è del loro tumulto interiore che vogliono parlare e di quello che si muove al di là della superficie.
Così, negli occhi di Mirko e della madre che guardano nella vetrina delle
pastarelle c'è il senso di un'innocenza che meriterebbe di essere difesa
e valorizzata.
Vero è che quello del cinema di periferia è ormai un filone forse un po' abusato e che rischia di diventare stucchevole in una cinematografia italiana cui manca una vera varietà di registri; il film dei fratelli D'Innocenzo però si inserisce in questo genere in maniera fresca e promettente.
Voto: 3,5/5
venerdì 24 agosto 2018
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