In una delle prime scene del film-documentario realizzato da Wim Wenders insieme a Pina Bausch e poi a lei dedicato dopo la sua morte - avvenuta prima della fine delle riprese -, quest’ultima dice che la danza inizia dove finiscono le parole.
A Wenders non deve essere costato molto restare fedele a questo assunto di base. Infatti, nel film di parole ce ne sono davvero poche, perché a farla da padrone sono appunto la danza, nell’incontrarsi dei corpi che si muovono all’interno di uno spazio, e la musica, che interpreta e viene interpretata da questi corpi in movimento.
Persino le interviste ai ballerini che hanno lavorato con Pina sono in realtà dei ritratti muti, in cui le parole fluttuano autonomamente come fossero pensieri. Ciascun ritratto introduce una coreografia, una performance, un racconto danzato, di cui il ballerino con cui abbiamo fatto conoscenza è il protagonista.
Alla fine a venir fuori è non tanto il ritratto di Pina, ma la vera immagine di sé che ciascun ballerino ha messo a fuoco proprio grazie all’insegnamento della coreografa tedesca, grazie al suo stimolo a fare della danza il proprio strumento di ricerca.
Così, ogni coreografia è umanizzata (e arricchita di significati) dalla conoscenza del suo protagonista, e al contempo acquista una natura rarefatta e leggera che le dà un respiro universale.
Il film ci investe con un profluvio di immagini e di emozioni, in cui l’intensità dei movimenti dei corpi viene amplificata dalla loro interazione con gli elementi naturali (la terra, l’acqua, la roccia…) e dalle straordinarie ambientazioni naturalistiche e metropolitane. I ballerini passano così da paesaggi brulli e desolati, quasi lunari a foreste rigogliose e corsi d’acqua, da architetture industriali abbandonate a spazi interamente vetrati, dalle strade cittadine alla metropolitana sospesa su monorotaia.
Questi veri e propri quadri in movimento non sono solo il risultato di una ricerca puramente estetica, bensì costituiscono la sintesi corporea di sentimenti che vanno dalla gioia alla solitudine, dalla fiducia all’inganno, dall’amore all’oppressione, dalla follia alla forza, dall'angoscia al divertimento.
Difficile isolare le singole parti di questo racconto che appare fondamentalmente unitario. Ciascuno spettatore sarà inevitabilmente attratto da ciò che più risuona con le corde della sua sensibilità, e di cui dunque conserverà più nitidamente il ricordo. Per quanto mi riguarda ho trovato toccante la coreografia che mette in relazione due uomini nella casa di vetro, sulla musica di Simon Diaz Luna de Margarita:
Così come ho sentito liberatorio il ballo collettivo con e nell’acqua:
Ma faccio davvero fatica a non citare qui tanti altri passaggi sorprendenti, divertenti, spiazzanti, sconcertanti, inquietanti, affrancanti. Pina di Wenders ci costringe a metterci in gioco lasciandoci andare alle emozioni, senza la pretesa di capire, di tradurre in parole, di razionalizzare.
In questo senso per la prima volta il 3D diventa davvero funzionale al film, perché conferisce rotondità, peso e leggerezza ai corpi. Forse però proprio per questo, esso finisce per risultare insoddisfacente perché crea un’illusione di fisicità senza in realtà realizzarla per davvero.
Che amiate o no la danza, correte a vedere Pina finché siete in tempo. E non lasciatevi scappare la colonna sonora.
Voto: 4/5
domenica 29 gennaio 2012
Pina 3D
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