Stimolata dalla presenza a Roma di un gruppo di amiche non romane, lo scorso è stato un weekend caratterizzato da una full immersion nell'offerta di mostre della Capitale.
Il sabato è stata interamente dedicato al Palazzo delle Esposizioni, che - dopo essere stato chiuso a lungo per lavori di ristrutturazione - è stato riaperto da qualche anno con un'offerta davvero molto interessante e varia, resa possibile anche dai grandi spazi a disposizione.
In questo periodo, con il biglietto d'ingresso - che è possibile ottenere ridotto mostrando di essere titolari di tessere come quella Feltrinelli o Arci - è possibile visitare tre mostre che, obiettivamente, in una giornata è difficile gustarsi con calma e per intero.
La prima che abbiamo visitato è quella dedicata ai Realismi socialisti, ossia alla Grande pittura sovietica 1920 - 1970, che resterà aperta fino all'8 gennaio 2012.
Il percorso della mostra è strettamente cronologico, e le sale che si sviluppano attorno all'atrio centrale offrono ciascuna un approfondimento su un arco cronologico omogeneo dal punto di vista storico e culturale. Questo filone della riscoperta della pittura sovietica non è nuovo per il Palazzo delle Esposizioni, visto che da febbraio a maggio di quest’anno è stata dedicata una mostra monografica ad Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità, del quale nella mostra attualmente in corso sono esposte alcune opere che inseriscono più chiaramente la sua poetica all’interno di una specifica temperie culturale e artistica.
Della pittura sovietica di questo cinquantennio (1920-1970) colpisce l’inevitabile parabola che da un’iniziale fase caratterizzata da una variegata sperimentazione artistica, in linea con le più importanti correnti d’avanguardia europee, vira verso contenuti e stili smaccatamente di propaganda, per effetto delle politiche culturali restrittive del regime, fino a soluzioni più intimistiche e sempre più lontane dai dettami imposti dall’alto. Il che non vuole dire che la pittura di propaganda sia realmente appiattita e ripetitiva, perché gli artisti – pur costretti in maglie molto strette – riescono comunque a esprimere emozioni, sentimenti e punti di vista spesso originali e del tutto personali.
Mentre attraversiamo le sale dedicate alla pittura sovietica l’occhio ci cade sul punto di ingresso – per dire la verità un po’ nascosto – alla seconda mostra in programma, quella dedicata ad Aleksandr Rodčenko.
A me il nome di Rodčenko non diceva assolutamente nulla prima di scoprire – grazie a questa mostra – che si tratta di uno degli artisti più eclettici del Novecento e certamente tra quelli che hanno lasciato un segno forte sul gusto grafico e fotografico contemporaneo. Al punto tale che facilmente balzerà all’occhio del visitatore che l’immagine scelta come locandina della mostra è esplicitamente richiamata nella copertina dell’album You Can Have It So Much Better di uno dei gruppi più di tendenza degli ultimi anni, i Franz Ferdinand.
Girando per le sale e osservando i lavori di Rodčenko, che spaziano dalla composizione tipografica e grafica, ai fotomontaggi, ai ritratti, alle fotografie urbane, ai reportage, mi cade l’occhio su un'altra opera famosissima dell’autore, quel Ritratto di madre che è stato oggetto di studio di molti corsi e ricerche in ambito fotografico.
A me di questa carrellata nel mondo di Rodčenko resteranno impressi i suoi sguardi obliqui, i suoi punti di vista originali, le sue foto ravvicinate di ingranaggi industriali e – sopra tutto – la vastità e varietà delle sue creazioni.
È ormai passata più di mezza giornata dal nostro ingresso al Palazzo delle Esposizioni, ma non possiamo certo perdere la terza delle mostre in corso, che occupa l’intero primo piano, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, la mostra curata da Luigi Cavalli Sforza e Telmo Pievani. Entriamo dalla parte sbagliata cosicché tutto ci sembra incomprensibile, ma quando finalmente chiediamo aiuto e veniamo ricondotte al punto di partenza ci facciamo catturare nell’incredibile viaggio raccontato da questa mostra, il viaggio dell’uomo, quello che ha dato vita alla specie umana cui apparteniamo.
Questo racconto, fatto di introduzioni scritte, di ricostruzioni tridimensionali, di reperti, di video e di soluzioni interattive, mette in discussione tutti i miei convincimenti in merito all’evoluzione e alle origini dell’uomo, visto che a scuola mi avevano insegnato che discendiamo dall’homo sapiens, ma che questo a suo volta aveva avuto come progenitore l’homo neandertalensis. E invece tutto falso, visto che queste due specie probabilmente si sono sviluppate da un ceppo comune ma hanno avuto percorsi evolutivi differenti, a conclusione dei quali non si sa bene perché l’homo sapiens è sopravvissuto e ha popolato la terra e quello neanderthalensis si è estinto. Eppure quest’ultimo pare avesse potenzialità cognitive paragonabili e un livello di adattamento al contesto addirittura superiore al primo.
Il percorso espositivo non solo ci racconta quando e come sono comparsi sulla terra i primi ominidi, ma anche come le diverse specie si sono evolute e in molti casi estinte, dopo aver raggiunto terre lontane migliaia di chilometri dal loro punto di partenza, tutto questo in parallelo con gli straordinari cambiamenti della flora e della fauna sulla terra. Inoltre ci racconta come l’homo sapiens sia sopravvissuto alle glaciazioni e come abbia scoperto l’arte, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, che hanno rappresentato il punto di partenza della crescita della civiltà e di quella che ci hanno insegnato a chiamare storia.
L’ultima sezione della mostra riepiloga la molteplicità e complessità dei contenuti esposti attirando il visitatore in una serie di divertenti giochi interattivi, come quello del riconoscimento delle razze, oppure quello che ci porta a scoprire la provenienza degli oggetti e dei concetti con cui abbiamo a che fare ogni giorno, o ancora il racconto animato e proiettato dell’evoluzione che chiude il percorso.
Personalmente ci avrei passato giorni. E devo dire che - nonostante la complessità della materia e forse l’eccesso di comunicazione scritta che caratterizza la mostra – sono uscita non solo sapendo certamente qualcosa di più sull'evoluzione umana, ma anche con numerosi stimoli alla riflessione sul rapporto tra l’uomo e la natura, sulle presunte differenze razziali, sul mistero profondo e al contempo il senso di casualità a cui è inevitabilmente riconducibile la nostra esistenza umana.
Fatto il pieno di mostre, resta giusto il tempo per qualche fotografia delle vetrine che – nella libreria del Palazzo delle Esposizioni - presentano le opere realizzate da una mia amica siciliana, creatrice del marchio Antico Valore, che realizza artigianalmente piccoli libri che diventano poi protagonisti di orecchini e collane. La sera ci aspetta una cena pugliese che mi vedrà alla prova sulle braciole (piccoli involtini ripieni di aglio, prezzemolo e pecorino) fatti cuocere nella salsa di pomodoro poi utilizzata per condire anche la pasta. Slurp!!!
La domenica il nostro tour culturale continua. Questa volta la destinazione è il MAXXI, il Museo di Arte del XXI secolo, edificio progettato da Zaha Hadid, l’architetto iracheno ormai conosciuto in tutto il mondo. Dal punto di vista architettonico il MAXXI è una realizzazione di grande impatto, con i suoi volumi semplici che si intersecano creando prospettive originali e sorprendenti. Va sottolineato che, a differenza di molte altre capitali europee, Roma è stata sin qui profondamente restia a lasciarsi colonizzare dall’architettura contemporanea. E probabilmente non a torto.
Forse per questo anche lì dove si è consentito agli architetti contemporanei di lasciare il proprio segno sul tessuto urbano si sono scelti progetti di grande qualità, ma al contempo capaci di comunicare con lo spirito e la storia di Roma. Quella del MAXXI è una realizzazione che mi rende orgogliosa della città in cui vivo, perché ha certamente conferito identità a quest’area, creando una continuità geografica ed ideale dal punto di vista architettonico tra l’Auditorium di Renzo Piano, il Palazzetto dello Sport di Perluigi Nervi e il nuovo ponte sul Tevere disegnato da Calatrava.
Ma, come nel caso dell’Auditorium, il segno architettonico non basta a creare un spazio vivibile ed accogliente se mancano i contenuti. E così, se il Parco della Musica è diventato una vera e propria fucina e piazza culturale per la città, il MAXXI si sta già proponendo come vetrina di linguaggi artistici nuovi, spazio di libertà e sperimentazione culturale.
In questo periodo il Museo ospita una mostra dal titolo Indian Highway, dedicata alla produzione (installazioni, grafica, video, pittura, opere polimateriche etc.) di giovani artisti indiani. Ci siamo andate attirate principalmente dal contenitore architettonico e invece la mostra ci ha positivamente sorprese.
Ai nostri occhi si è rivelata un’India in pieno fermento artistico e culturale, un paese che ha assorbito la lezione di stile dell’arte contemporanea occidentale, ma che ha mantenuto forte il legame con le sue radici, un paese con una profonda consapevolezza di sé e delle sue contraddizioni, con un sorprendente senso critico nei confronti del proprio passato e del proprio presente.
Si resta così sbalorditi di fronte all’installazione che ricostruisce un vecchio ufficio pubblico, con le catene che tengono legate e al sicuro dai furti tavoli e sedie e le gavette sotto ogni scrivania, o a quella che rappresenta la densità di una metropoli indiana con materiali di recupero sulle pareti interne di una stanza, o ancora il corridoio decadente in cui strani santini si affacciano dagli strappi nella carta da parati, per non parlare della foresta di incensi, delle serie a fumetti e delle numerose video-installazioni che ci sarebbero voluti due giorni per godersi appieno.
Ancora uno sguardo dall’ideale prua di questo edificio-bastimento, dalla cui vetrata aggettante sembra di essere sospesi nel vuoto, una discesa dalle scale che a tratti sembrano quelle impossibili di un edificio di Escher, una sosta sui divanetti argentati di design al piano terra, e poi eccoci di nuovo nella nostra Pandina del Car Sharing dirette verso la stazione dove ci aspetta il treno che porterà a casa le mie amiche.
Roma è una città faticosa. Non c’è dubbio.
Ma sa presentarsi nella luce migliore a chi la visita. E a volte sa farsi amare anche da chi ci vive.
Come questa volta.
lunedì 28 novembre 2011
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