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California Schemin'
James McAvoy sceglie per il suo debutto dietro la macchina da presa la storia vera di un duo rap, i Silibil N' Brains, che erano due ragazzi di Dundee, Gavin e Billy, amici per la pelle, colleghi in un call center, entrambi appassionati di skateboard e scrittura di testi rap.
Dopo qualche tentativo fallimentare di piazzare le proprie canzoni presso alcune etichette musicali, i due si convincono che il motivo del loro insuccesso è il loro accento scozzese e il fatto che vengono da Dundee.
Così i due decidono di cominciare a cantare con un simil-accento californiano e a presentarsi essi stessi come americani. La strategia ha successo e i due vengono scritturati da una casa discografica e cominciano a incidere dischi, a fare concerti, e ad avere successo.
L'idea è quella di smascherare il razzismo dell'industria musicale, ma ben presto Gavin fa marcia indietro e non si rifiuta di svelare l'inganno, terrorizzato di tornare alla sua vita di prima. I due ragazzi finiranno per mettere in discussione non solo il loro futuro, ma anche la relazione tra loro e con le persone che amano.
Una commedia dal ritmo travolgente, con una sceneggiatura brillante e ricca di umorismo scottish, che si segue gradevolmente, ma che - pur impreziosita dal fatto di essere basata su una storia vera - non va oltre gli stilemi della commedia sociale.
Un esordio riuscito, ma un po' convenzionale.
Voto: 3/5
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Miss Carbón
Quando vedo film come Miss Carbón penso che davvero la realtà sia il miglior generatore di storie che ci possa essere. Se mi avessero detto che la storia di una donna trans di un paesino minerario della Patagonia che ha fatto una battaglia per poter lavorare in miniera (nelle gallerie sotterranee) anche dopo aver cambiato sesso (andando contro le norme e le superstizioni) è la storia vera di Carlita Rodriguez non ci avrei mai creduto.
E invece il film di Agustina Macri è proprio ispirato alla storia di questa donna (straordinariamente interpretata da Lux Pascal) e ci porta in un piccolo paese ai confini del mondo, dove Carlita non vuole rinunciare ad alcuno dei suoi sogni, né quello di diventare donna (cosa che già la mette in una posizione difficilissima in una comunità così piccola), né quello di essere minatrice.
Il film, pur nel suo essere un po’ olografico, è interessante sia sul piano estetico (molto belli i sogni a occhi aperti di Carlita che si immagina vestita come la madonna) sia sul piano dei contenuti, soprattutto nell’affrontare il transgenderismo come un percorso faticosissimo sul piano emotivo perché ti mette in posizione di svantaggio sia rispetto al mondo degli uomini sia rispetto a quello delle donne.
Una storia che benissimo ha fatto la Macri a riportare alla luce e all’attenzione del mondo intero.
Voto: 3/5
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Left handed girl
Il film scritto, diretto e prodotto da Shih-Ching Tsou (in cui c’è però anche lo zampino di Sean Baker, con cui la regista collabora da tempo) è la storia di una famiglia, madre single e due figlie (una tardo adolescente, I-Ann, e l’altra di 5 anni, I-Jing), che torna a vivere a Taipei, il luogo di cui proviene la madre e dove abita la sua famiglia di origine (genitori e sorelle).
Per mantenere la sua famiglia, la madre Shu-Fen prende in gestione un banco del mercato centrale dove prepara noodles, mentre la figlia grande lavora come betel nut girl e ha una relazione sessuale con il proprietario, e la bimba piccola, che è mancina, gira da sola per il mercato, cercando a suo modo di comprendere quello che le accade intorno.
Mentre Shu-Fen è in difficoltà economiche crescenti e, nonostante le attenzioni del vicino di banco al mercato, si fa sempre più depressa, I-Ann e I-Jing vanno sempre più fuori controllo, cosicché alla festa di compleanno della nonna (altro personaggio decisamente bizzarro), tutti i nodi vengono al pettine e anche le verità a lungo taciute.
Il punto di forza assoluto di questo film è la piccola Nina Ye, capace di interpretare in tutte le sfumature possibili la prospettiva visuale di I-Jing, e di conferire al film la sincerità, la leggerezza e in parte anche l’ingenuità dello sguardo di una bambina, rafforzato da una telecamera che per gran parte del tempo si colloca esattamente alla sua altezza e fa proprio il suo punto di vista sul mondo.
Voto: 3,5/5
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Holding Liat
Holding Liat è il film che ha vinto nella sezione Documentari alla Berlinale e racconta la storia di una famiglia ebrea, in particolare attraverso il punto di vista di Yehuda e Chaya, dopo che la figlia di questi ultimi, Liat, e suo marito sono stati presi in ostaggio da Hamas durante la ben nota azione terroristica del 7 ottobre 2023. Sono stati alcuni amici di famiglia, tra cui il regista Brandon Kramer, a convincere la famiglia a documentare questa esperienza fin dai primi momenti e poi fino alla liberazione di Liat (e anche oltre).
Ero arrivata a questa proiezione piuttosto prevenuta, temendo un’operazione propagandistica con un punto di vista unilaterale, e invece mi sono trovata di fronte a un film molto più mosso e complesso. La famiglia protagonista di questa storia è una famiglia di ebrei americani storicamente di sinistra (sulla loro auto c’è l’adesivo di supporto a Bernie Sanders), arrivata in Israele negli anni Settanta inseguendo l’utopia socialista dei kibbutz. Yehuda, il padre di Liat, è un feroce oppositore di Netanyahu e del suo governo, nonché di tutte le interferenze delle ideologie e ortodossie religiose nel governo del paese, così come ritiene che l’unica strada per dare un futuro a questa terra martoriata sia quella di una conciliazione tra israeliani e palestinesi.
È chiaro che di fronte all’azione di Hamas e alla preoccupazione per la figlia, tutta la famiglia, non solo i genitori di Liat, ma anche fratelli e sorelle, e i figli, sono profondamente scossi e inevitabilmente si trovano a dover fare i conti con la situazione e con i propri convincimenti.
Scopriamo così che parte della famiglia, il fratello di Yehuda in particolare, ma anche la sorella di Liat, hanno lasciato Israele, il primo perché in disaccordo completo con le modalità della nascita e della crescita dello stato israeliano a danno dei palestinesi, la seconda perché stanca di un contesto così conflittuale.
Emergono a poco a poco posizioni diverse, con altrettante sfumature di pensiero e differenze nelle posizioni: Chaya, la madre di Liat, è ad esempio più preoccupata della sorte della figlia che dell’interpretazione complessiva della vicenda, mentre il figlio di Liat – che era nel kibbutz durante l’assalto del commando di Hamas e ha avuto paura di morire – è su posizioni sicuramente meno concilianti.
Seguiamo così la famiglia Beinin in queste lunghe settimane durante le quali una rappresentanza della famiglia stessa, Yehuda insieme alla sorella di Liat e a suo figlio, vanno a Washington per sensibilizzare i politici americani a intervenire per la liberazione degli ostaggi, e lo fanno in molti casi anche con profondi dilemmi etici e di coscienza.
Interessante anche la parte di documentario dedicata al ritorno a casa di Liat, la quale, nonostante l’uccisione di suo marito, non fa niente per alimentare in sé stessa così come negli altri un desiderio di vendetta, anzi sembra uscita da questa esperienza con la convinzione che non esiste futuro per Israele senza riconoscimento del proprio dolore nel dolore degli altri e senza conciliazione.
Un film utile per evitare di guardare agli israeliani come a un blocco indistinto, errore che – se ci si pensa a mente lucida – è lo stesso di chi guarda ai palestinesi come a una massa indistinta e monolitica.
Voto: 3,5/5
James McAvoy sceglie per il suo debutto dietro la macchina da presa la storia vera di un duo rap, i Silibil N' Brains, che erano due ragazzi di Dundee, Gavin e Billy, amici per la pelle, colleghi in un call center, entrambi appassionati di skateboard e scrittura di testi rap.
Dopo qualche tentativo fallimentare di piazzare le proprie canzoni presso alcune etichette musicali, i due si convincono che il motivo del loro insuccesso è il loro accento scozzese e il fatto che vengono da Dundee.
Così i due decidono di cominciare a cantare con un simil-accento californiano e a presentarsi essi stessi come americani. La strategia ha successo e i due vengono scritturati da una casa discografica e cominciano a incidere dischi, a fare concerti, e ad avere successo.
L'idea è quella di smascherare il razzismo dell'industria musicale, ma ben presto Gavin fa marcia indietro e non si rifiuta di svelare l'inganno, terrorizzato di tornare alla sua vita di prima. I due ragazzi finiranno per mettere in discussione non solo il loro futuro, ma anche la relazione tra loro e con le persone che amano.
Una commedia dal ritmo travolgente, con una sceneggiatura brillante e ricca di umorismo scottish, che si segue gradevolmente, ma che - pur impreziosita dal fatto di essere basata su una storia vera - non va oltre gli stilemi della commedia sociale.
Un esordio riuscito, ma un po' convenzionale.
Voto: 3/5
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Miss Carbón
Quando vedo film come Miss Carbón penso che davvero la realtà sia il miglior generatore di storie che ci possa essere. Se mi avessero detto che la storia di una donna trans di un paesino minerario della Patagonia che ha fatto una battaglia per poter lavorare in miniera (nelle gallerie sotterranee) anche dopo aver cambiato sesso (andando contro le norme e le superstizioni) è la storia vera di Carlita Rodriguez non ci avrei mai creduto.
E invece il film di Agustina Macri è proprio ispirato alla storia di questa donna (straordinariamente interpretata da Lux Pascal) e ci porta in un piccolo paese ai confini del mondo, dove Carlita non vuole rinunciare ad alcuno dei suoi sogni, né quello di diventare donna (cosa che già la mette in una posizione difficilissima in una comunità così piccola), né quello di essere minatrice.
Il film, pur nel suo essere un po’ olografico, è interessante sia sul piano estetico (molto belli i sogni a occhi aperti di Carlita che si immagina vestita come la madonna) sia sul piano dei contenuti, soprattutto nell’affrontare il transgenderismo come un percorso faticosissimo sul piano emotivo perché ti mette in posizione di svantaggio sia rispetto al mondo degli uomini sia rispetto a quello delle donne.
Una storia che benissimo ha fatto la Macri a riportare alla luce e all’attenzione del mondo intero.
Voto: 3/5
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Left handed girl
Il film scritto, diretto e prodotto da Shih-Ching Tsou (in cui c’è però anche lo zampino di Sean Baker, con cui la regista collabora da tempo) è la storia di una famiglia, madre single e due figlie (una tardo adolescente, I-Ann, e l’altra di 5 anni, I-Jing), che torna a vivere a Taipei, il luogo di cui proviene la madre e dove abita la sua famiglia di origine (genitori e sorelle).
Per mantenere la sua famiglia, la madre Shu-Fen prende in gestione un banco del mercato centrale dove prepara noodles, mentre la figlia grande lavora come betel nut girl e ha una relazione sessuale con il proprietario, e la bimba piccola, che è mancina, gira da sola per il mercato, cercando a suo modo di comprendere quello che le accade intorno.
Mentre Shu-Fen è in difficoltà economiche crescenti e, nonostante le attenzioni del vicino di banco al mercato, si fa sempre più depressa, I-Ann e I-Jing vanno sempre più fuori controllo, cosicché alla festa di compleanno della nonna (altro personaggio decisamente bizzarro), tutti i nodi vengono al pettine e anche le verità a lungo taciute.
Il punto di forza assoluto di questo film è la piccola Nina Ye, capace di interpretare in tutte le sfumature possibili la prospettiva visuale di I-Jing, e di conferire al film la sincerità, la leggerezza e in parte anche l’ingenuità dello sguardo di una bambina, rafforzato da una telecamera che per gran parte del tempo si colloca esattamente alla sua altezza e fa proprio il suo punto di vista sul mondo.
Voto: 3,5/5
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Holding Liat
Holding Liat è il film che ha vinto nella sezione Documentari alla Berlinale e racconta la storia di una famiglia ebrea, in particolare attraverso il punto di vista di Yehuda e Chaya, dopo che la figlia di questi ultimi, Liat, e suo marito sono stati presi in ostaggio da Hamas durante la ben nota azione terroristica del 7 ottobre 2023. Sono stati alcuni amici di famiglia, tra cui il regista Brandon Kramer, a convincere la famiglia a documentare questa esperienza fin dai primi momenti e poi fino alla liberazione di Liat (e anche oltre).
Ero arrivata a questa proiezione piuttosto prevenuta, temendo un’operazione propagandistica con un punto di vista unilaterale, e invece mi sono trovata di fronte a un film molto più mosso e complesso. La famiglia protagonista di questa storia è una famiglia di ebrei americani storicamente di sinistra (sulla loro auto c’è l’adesivo di supporto a Bernie Sanders), arrivata in Israele negli anni Settanta inseguendo l’utopia socialista dei kibbutz. Yehuda, il padre di Liat, è un feroce oppositore di Netanyahu e del suo governo, nonché di tutte le interferenze delle ideologie e ortodossie religiose nel governo del paese, così come ritiene che l’unica strada per dare un futuro a questa terra martoriata sia quella di una conciliazione tra israeliani e palestinesi.
È chiaro che di fronte all’azione di Hamas e alla preoccupazione per la figlia, tutta la famiglia, non solo i genitori di Liat, ma anche fratelli e sorelle, e i figli, sono profondamente scossi e inevitabilmente si trovano a dover fare i conti con la situazione e con i propri convincimenti.
Scopriamo così che parte della famiglia, il fratello di Yehuda in particolare, ma anche la sorella di Liat, hanno lasciato Israele, il primo perché in disaccordo completo con le modalità della nascita e della crescita dello stato israeliano a danno dei palestinesi, la seconda perché stanca di un contesto così conflittuale.
Emergono a poco a poco posizioni diverse, con altrettante sfumature di pensiero e differenze nelle posizioni: Chaya, la madre di Liat, è ad esempio più preoccupata della sorte della figlia che dell’interpretazione complessiva della vicenda, mentre il figlio di Liat – che era nel kibbutz durante l’assalto del commando di Hamas e ha avuto paura di morire – è su posizioni sicuramente meno concilianti.
Seguiamo così la famiglia Beinin in queste lunghe settimane durante le quali una rappresentanza della famiglia stessa, Yehuda insieme alla sorella di Liat e a suo figlio, vanno a Washington per sensibilizzare i politici americani a intervenire per la liberazione degli ostaggi, e lo fanno in molti casi anche con profondi dilemmi etici e di coscienza.
Interessante anche la parte di documentario dedicata al ritorno a casa di Liat, la quale, nonostante l’uccisione di suo marito, non fa niente per alimentare in sé stessa così come negli altri un desiderio di vendetta, anzi sembra uscita da questa esperienza con la convinzione che non esiste futuro per Israele senza riconoscimento del proprio dolore nel dolore degli altri e senza conciliazione.
Un film utile per evitare di guardare agli israeliani come a un blocco indistinto, errore che – se ci si pensa a mente lucida – è lo stesso di chi guarda ai palestinesi come a una massa indistinta e monolitica.
Voto: 3,5/5





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