La mia scoperta dei King Hannah, il nome d’arte della band formata primariamente da Craig Whittle e Hannah Merrick, con l’aggiunta di un tastierista/bassista e un batterista, è piuttosto recente e risale all’autunno dello scorso anno, quando in vista del concerto, tenutosi sempre al Monk, avevo iniziato ad ascoltare la loro musica, e soprattutto l’album Big Swimmer.
Dopo essere stata conquistata dall’esibizione di dicembre scorso, non mi lascio sfuggire la possibilità di riascoltarli dal vivo nel loro tour estivo, che di nuovo tocca il Monk di Roma.
Arrivo al concerto un po’ all’ultimo minuto direttamente dal lavoro, e per non perdere il mio posto in prima fila, non mi fermo al banchetto del merchandising dove c’è una bellissima maglietta che avrei comprato volentieri, e che invece a fine concerto è esaurita!
Comunque, almeno la prima fila (un po’ laterale) la conquisto e sono pronta con la mia macchina fotografica anche per questo concerto.
Alle 21 in punto salgono sul palco i Panta, una band indie rock di ragazzi romani che – ho ricostruito solo dopo – avevo già ascoltato dal vivo, sebbene in una formazione leggermente diversa, nel 2019 a Villa Ada nell’opening del concerto di Calexico + Iron&Wine. Rileggendo quanto avevo scritto allora, confermo la sensazione che già avevo avuto, ossia di una musica che inevitabilmente alle mie orecchie risulta troppo giovanilistica e che non mi conquista, per quanto sia gradevole da ascoltare e loro bravi ad eseguirla.
Dopo circa una mezz’ora di cambio palco, poco dopo le 22 salgono sul palco i King Hannah, e mi trovo in pieno effetto deja-vu visto che la formazione e la disposizione sul palco è la stessa di dicembre, Hannah è vestita esattamente nello stesso modo (vestito rosso a balze e scarpe adidas verdi) e anche la scaletta del concerto non è molto dissimile.
Ovviamente, rispetto all’effetto sorpresa di dicembre che mi aveva conquistata, a questo giro so già cosa mi aspetta, il che non vuol dire che il concerto mi sia piaciuto di meno.
In questo caso, poiché conoscevo già il tipo di presenza scenica di Hannah, il suo modo di cantare e di stare sul palco, mi sono concentrata di più sul pubblico, la cui età media era decisamente più alta di quella dei musicisti, e all’interno del quale c’erano molte persone in adorazione di Hannah, in particolare una donna in prima fila che ha ballato entusiasta e ascoltato rapita tutto il concerto, ricevendo vari messaggi muti dalla cantante e la consegna finale della scaletta.
Del resto, un po’ come a dicembre, dopo l’esecuzione dei primi brani, la cantante si è sciolta un po’ con il pubblico e ha raccontato che lei e Craig la sera prima erano stati ad Ostia a sentire Bill Callahan (che bella questa cosa di musicisti che vanno a sentire altri musicisti!) e durante il giorno hanno fatto i turisti per Roma per visitare i suoi monumenti e mangiare pizza e gelato.
I King Hannah si confermano musicisti di razza e lo spettacolo dal vivo è di alta qualità musicale e performativa, sebbene io confermi di essere particolarmente conquistata più che dalla loro componente rock da quella notturna e malinconica, che poi è in generale il tipo di musica che ascolto maggiormente.
Però bravi, e decisamente da tenere d’occhio anche per il futuro.
Ed è arrivata anche la mia prima volta ad una rappresentazione al teatro romano di Ostia antica, in uno scenario che direi non ha niente da invidiare al teatro greco di Siracusa (che però è più grande e dove non sono mai stata a vedere uno spettacolo).
Quest’anno il Teatro di Roma ha organizzato una mini-stagione estiva, dal titolo Il senso del passato, che ruota intorno alla figura di Antigone, di cui gli spettacoli raccontano le premesse e le numerose sfaccettature.
Grazie alla determinazione di M. prendiamo i biglietti per ben due spettacoli. Il primo è l’Edipo re di Sofocle, adattato e diretto da Luca De Fusco.
Ci vado senza grandi aspettative, con il pregiudizio che riuscire a rendere interessante oggi a una tragedia greca sia un’operazione difficile se non impossibile. E invece la scelta del regista De Fusco di trasformare Edipo re in un thriller psicanalitico, trasportando i protagonisti in un contesto primo novecentesco e facendoli interagire con un grande schermo da cui parlano alcuni dei protagonisti (ad esempio Tiresia) o su cui vengono proiettate immagini in chiave surrealista e magrittiana a commento del testo, si rivela vincente.
Edipo re, lo sfortunato protagonista di questa storia che è giunto a Tebe e ne è diventato re, dopo aver abbandonato la casa dei suoi genitori per sfuggire a un’infausta predizione (ossia che ucciderà suo padre e sposerà sua madre), è interpretato dal bravo Luca Lazzareschi, che in un gioco di rispecchiamenti interpreta anche Tiresia, il veggente cieco, il servo di Laio e il nunzio.
Nonostante il ritardo con cui lo spettacolo è cominciato, un caldo-umido insopportabile, le zanzare, una seduta non comodissima e decisamente troppo a stretto contatto con gli altri spettatori, i tempi lunghissimi di ingresso e uscita, e anche di arrivo e ritorno a casa, la visione dello spettacolo è stata soddisfacente e l’esperienza decisamente positiva.
Affronto dunque la prospettiva del secondo spettacolo a fine luglio con l’animo molto più leggero.
Questo secondo spettacolo, intitolato Ifigenia, è il frutto di una collaborazione internazionale tra il Teatro di Roma e il Festival di Mérida, in Spagna, e infatti l’adattamento è di Silvia Zarco e la regia è di Eva Romero. Il cast è interamente spagnolo, cosicché lo spettacolo richiede sovratitoli in italiano per poter essere seguito appieno.
L’allestimento è piuttosto classico: delle colonne illuminate e dei grossi massi sulla scena che fanno da sedute, podii e nascondimenti per i personaggi. Sull’adattamento non sono in grado di esprimermi, perché non conosco così bene l’originale di Euripide, ma ho la sensazione che nella narrazione ci finiscano elementi narrativi e personaggi provenienti da altre tragedie. Costumi e musiche strizzano l’occhio a un immaginario punk rock che a tratti crea un effetto piuttosto straniante.
La lettura del testo è in chiave chiaramente femminista e antipatriarcale, cosa che per quanto molto sensata in questo momento storico e tutto sommato coerente con alcuni elementi della tragedia, mi risulta un po’ semplicistico e alla fine anche didascalico.
In generale, l’intero spettacolo mi pare che punti molto alla leggibilità e alla semplicità del testo, del messaggio e della recitazione, il che può certamente rappresentare un elemento positivo, ma che personalmente non riesco a ad apprezzare.
Al termine della rappresentazione ho intorno a me gente entusiasta, ma anche persone molto deluse. Io appartengo decisamente al secondo gruppo, ma come sempre stiamo parlando di gusti personali e di aspettative.
In ogni caso l’esperienza al teatro di Ostia è stata nel complesso molto bella e sarà da tenere presente anche per il futuro.
E anche quest’anno non mi faccio mancare la mia maratona cinematografica per la classica rassegna Da Cannes a Roma, ospitata dal cinema Quattro fontane. Film molto diversi, alcuni dei quali parecchio originali, altri decisamente meno dirompenti.
*************************
Le città di pianura
Il film con cui si apre la mia maratona è un film italiano, diretto da Francesco Sossai, che è stato presentato con un ottimo riscontro nell’ambito della sezione Un certain regard di Cannes. La proiezione romana è molto affollata, anche perché a presentare il film, oltre al critico Alberto Crespi, ci sono il regista e due dei protagonisti, Sergio Romano (che nel film è carlobianchi, detto proprio così, tutto attaccato, o anche Charlie White come affettuosamente lo chiama l’amico di una vita Doriano) e Filippo Scotti (già visto in È stata la mano di Dio, che qui interpreta il timido e studioso Giulio).
Le città di pianura si sviluppa nell’arco di circa un giorno e mezzo ed è fondamentalmente un on the road della provincia veneta nella quale i due amici carlobianchi e Doriano (Pierpaolo Capovilla) vagano alla ricerca di un ultimo bicchiere di alcol da scolarsi, comprato o scroccato. Li seguiamo dunque in questo loro vagare, a un certo punto apparentemente finalizzato ad andare a prendere in aeroporto il loro amico Genio (Andrea Pennacchi) che torna dal Sudamerica dove ha vissuto molti anni (scopriremo poi perché). Durante questo giorno e mezzo molte sono le avventure e le disavventure che li attendono, gli incontri più o meno assurdi, e tra questi incontri c’è quello con Giulio, studente napoletano che studia architettura a Venezia, timido e imbranato, che i due volponi decidono di trascinare con loro, anche suo malgrado.
Il film è una commedia dall’impianto se vogliamo piuttosto classico, ma che si inserisce più propriamente in tutto un filone di elaborazione culturale di provenienza veneta, che ha precisi tratti estetici e antropologici.
Non a caso il film di Sossai mi ha riportato quasi immediatamente all’estetica e ai contenuti dei fumetti di Miguel Vila, autore che con i suoi graphic novel ha raccontato benissimo la provincia veneta, con i suoi tipi umani e i suoi paesaggi urbani e rurali. Per lo stesso motivo non mi ha sorpreso trovare come autore di parte della colonna sonora (e anche in un piccolo cameo) Krano (Marco Spigariol) che quasi per caso avevo conosciuto nell’opening di un concerto di Micah P. Hinson e che ha un progetto musicale a matrice profondamente veneta anche nella lingua.
Ne viene fuori una specie di elegia veneta dal sapore fortemente agrodolce, intrisa in egual misura di malinconia e leggerezza. Esperimento davvero interessante.
Voto: 3,5/5
************************* Sirat
Ho scoperto solo al termine della visione del film che il regista di questo film, Oliver Laxe, è anche il regista di O que arde, che avevo visto qualche anno fa nell’ambito di un festival del cinema spagnolo. Quel film mi era risultato difficile da digerire nelle sue caratteristiche narrative, e probabilmente se avessi saputo questa cosa avrei deciso di non andare a vedere Sirat. E avrei fatto molto male.
Sirat è un film decisamente originale. Siamo in Marocco, nel deserto, ed è in corso un grande rave: enormi altoparlanti che trasmettono musica techno e centinaia di persone che si lasciano trasportare dal ritmo della musica. Un padre, Luis (Sergi Lopez), insieme al figlio Esteban è alla ricerca della figlia scomparsa cinque mesi prima. Ma mentre è in corso il rave, arriva l’esercito che annuncia l’inizio di una guerra e costringe tutti a seguirli verso non si sa dove. Due camioncini con a bordo cinque persone riescono a scappare via e Luis e il figlio li seguono. Inizia così un on the road che metterà questo gruppo di persone decisamente originali e curiosamente assortite di fronte a una serie di eventi più o meno tragici e incredibili che li costringeranno a fare i conti con i propri limiti e le proprie paure.
Quello di Laxe è un mondo preapocalittico, in parte atemporale, che sul piano visivo attinge tanto all’estetica di Mad Max, ma anche all’immaginario steampunk, per raccontare un viaggio esistenziale, che nella sua essenza è il viaggio di ogni essere umano di fronte al lutto e alla morte. Per farlo Laxe mescola diversi ingredienti: un insieme di personaggi con caratteristiche freak (ci sono un uomo senza una gamba, uno senza un braccio) di cui però – salvo qualche piccolo dettaglio – non sappiamo praticamente nulla della storia passata, così come niente sappiamo davvero di Luis ed Esteban; un paesaggio con una forza visiva straordinaria, che ispira grandezza, bellezza ma anche terrore della piccolezza umana di fronte alla natura; e infine una musica che unisce e alterna techno ed elettronica, quasi alla ricerca del suono primigenio del mondo, dell’essenza della vita e della morte, la stessa che i protagonisti sperimenteranno. Del resto Sirat nella cultura islamica è il ponte che unisce la vita alla morte, come la scritta in sovrimpressione all’inizio del film ci ricorda.
Un film strano, grandioso e weird al contempo, difficile da classificare, che merita però di essere visto. E non a caso ha vinto il premio della giuria a Cannes.
Voto: 3,5/5
************************* Partir, un jour
Cécile (Juliette Armanet) vive a Parigi e fa la chef. Dopo aver vinto un programma tipo Masterchef, insieme al suo compagno sta per aprire un ristorante che punta a un posto tra i ristoranti stellati. Quando scopre che suo padre è finito in ospedale ma, contro il parere dei medici, è uscito per riaprire la piccola trattoria per camionisti che gestisce insieme alla moglie, decide di ritornare a casa, tra l’altro avendo appena scoperto di essere incinta e sapendo di non voler tenere il bambino. Il ritorno a casa la metterà di fronte ai suoi conti in sospeso, alle cose che sono sempre uguali e che dunque aprono la porta dei ricordi di adolescenza e a quelle che sono ormai cambiate irrimediabilmente, nonché al rapporto con i suoi genitori che pure è rimasto in qualche modo bloccato nelle dinamiche del passato.
La nostalgia delle radici e di quello che avrebbe potuto essere – anche a fronte dei grandi cambiamenti che sembrano attendere Cécile – manda quasi in frantumi la vita da adulta che si è costruita, ma senza questa crisi profonda la donna non potrebbe tornare a quello che è diventata con maggiore consapevolezza, dopo aver in qualche modo fatto pace con il suo passato.
Il film di Amélie Bonnin è una tipica commedia francese, dalla trama e dagli sviluppi piuttosto prevedibili, che però è impreziosita dal fatto di essere in parte una commedia musicale in cui si attinge a un repertorio musicale francese per esprimere con ironia e leggerezza i sentimenti dei protagonisti nei momenti clou del film.
Nessuna grande pretesa per un film gradevole.
Voto: 3/5
************************* Enzo
Enzo è il film che Laurent Cantet aveva scritto prima della sua prematura scomparsa e che lo stesso regista francese ha affidato per la regia a Robin Campillo (quello di 120 battiti al minuto). Nonostante questo passaggio di testimone, personalmente ho vissuto Enzo interamente come un film di Cantet, non soltanto nei temi, ma anche nella modalità narrativa e nei ritmi. Che poi sono proprio le caratteristiche che a volte mi hanno fatto apprezzare i suoi film e altre volte me li hanno resi indigeribili.
Come è chiaro dal titolo, il protagonista di questo film è Enzo (Eloy Pohu), un ragazzo di 16 anni, secondo figlio di una famiglia molto benestante, che ha una villa con piscina, e il cui fratello maggiore si sta preparando per entrare all’università a Parigi. Enzo però è diverso, o quanto meno si sente diverso.
Ha deciso di non continuare a studiare e lavora come muratore in un cantiere; ha una ragazza, ma in realtà è attratto da Vlad, un operaio ucraino che lavora con lui. Nella sua casa e nella sua famiglia Enzo si sente un pesce fuor d’acqua e questa condizione evidentemente non è solo il portato dei suoi 16 anni e della tendenza oppositiva che caratterizza gli adolescenti. In lui c’è anche il rifiuto di un modo borghese di intendere la vita e soprattutto dell’indifferenza che lo stile di vita borghese comporta rispetto al resto del mondo, quello con cui i suoi genitori e suo fratello non vengono e non verranno mai in contatto.
Il malessere di Enzo aumenta giorno dopo giorno, portandolo allo scontro in particolare con il padre (Pierfrancesco Favino) e ad azioni più o meno estreme. Ma come in ogni coming of age che si rispetti, anche in questo film di Cantet il passaggio alla vita adulta comporterà per Enzo la scelta di un compromesso, sebbene – com’è tipico del linguaggio ellittico del regista francese - non sapremo mai come il protagonista riuscirà a bilanciare i suoi desideri e attitudini con il mondo dal quale proviene. Voto: 3/5
************************* Jeunes mères
Concludo la mia maratona Da Cannes a Roma con l’ultimo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, Jeunes méres, che racconta la storia di quattro giovanissime donne, Jessica, Perla, Julie e Arianne, accomunate dal fatto di essere ospitate da una “maison maternelle”, quella che in Italia sarebbe una casa-famiglia per ragazze madri.
Ognuna si porta dietro la sua particolare vicenda: Jessica, che sta per partorire una bambina, è ossessionata dall’idea di incontrare sua madre e di chiederle perché l’ha data in affidamento quando è nata; Perla ha chiesto dei soldi in prestito a sua sorella per poter costruire una famiglia insieme a suo figlio Noé e al padre del bimbo, appena uscito di prigione; Julie ha un passato di dipendenza alle spalle e ora che ha un figlio sta cercando di uscirne e di sposarsi con il suo compagno, anche lui ex tossico; Arianne non ha abortito su pressione della madre, ma vorrebbe dare in affidamento la piccola per continuare a studiare e costruirsi un futuro.
I Dardenne hanno scritto la sceneggiatura di questo film dopo aver fatto una vera e propria indagine e una serie di interviste in una vera “maison maternelle” e, fedeli al loro approccio quasi documentaristico, si sono ispirati proprio alle storie che hanno ascoltato per scrivere questo film (che ha vinto il Premio per la miglior sceneggiatura a Cannes).
In questo racconto corale, in cui il punto di vista cambia continuamente spostandosi tra una storia e l’altra e tra una ragazza e l’altra, i Dardenne mantengono fede al loro approccio pulito ed essenziale, che vuole mostrare e comprendere, senza giudicare e senza premere sul pedale del melodramma. Qua e là però introducono elementi che staccano rispetto all’impianto “neorealistico”, come la recitazione di una poesia o una piccola esecuzione musicale.
E come ho pensato e detto subito dopo la fine del film, mi è parso che rispetto al passato questo lavoro – nonostante la tragicità dei temi trattati – sia uno dei film più pieni di speranza dei Dardenne!
Il romanzo della scrittrice brasiliana Giovana Madalosso mi è stato prima consigliato dalla mia amica A. e poi ne ho sentito parlare in un podcast dell’Internazionale e mi sono definitivamente convinta a comprarlo e a leggerlo.
Siamo a San Paolo. Fernanda e Cacà hanno una bambina di nome Cora. Fernanda è una donna in carriera e per poter fare un salto lavorativo offre a Maju, la bambinaia, un impegno lavorativo più lungo e una sistemazione nella suite di casa, che fa rinnovare appositamente.
Una mattina come qualunque altra, in cui Maju deve accompagnare Cora in piscina, la bambinaia decide di rapire la piccola portandola con sé nel piccolo paese al di là del confine dal quale proviene e crescerla come fosse sua figlia.
Quando scatta l’allarme, Fernanda è con la sua amante, una videomaker che ha conosciuto per lavoro e che ha risvegliato in lei la passione e la voglia di avventure che si erano completamente offuscate nel rapporto con suo marito.
Da qui in poi seguiamo, capitolo dopo capitolo, da un lato la linea narrativa che vede come protagonista Maju nel suo tentativo di fuggire via con Cora, dall’altro quella che segue i pensieri e le azioni di Fernanda, guardando il tempo non solo scorrere in avanti, ma anche risalendo agli eventi che hanno fatto precipitare la situazione nella vita di Fernanda e che hanno spinto Maju al gesto sconsiderato.
A confronto due donne che non solo appartengono a due classi sociali diverse, ma che sono agli antipodi da ogni punto di vista: Maju perfetta rappresentante di un mondo arcaico e contadino che crede nei valori tradizionali, nella religione, nelle relazioni e vive con profonda frustrazione il fatto di non essere madre, riversando sulla piccola Cora tutto il suo istinto materno; Fernanda è ambiziosa, libertina, ossessionata dal lavoro, insofferente della routine e delle regole sociali, completamente autoreferenziale e vive la sua maternità con fatica e senza entusiasmo, sebbene anche con qualche senso di colpa.
La scomparsa di Cora è l’inizio di un processo di deflagrazione nelle vite di entrambe: per Maju è un salto verso l’ignoto, una decisione rischiosa e avventata che ben presto si rivelerà in tutte le sue difficoltà e assurdità; per Fernanda è una specie di brusco risveglio alla realtà, l’occasione per fare i conti con quello che si nasconde dietro la passione per Yara, con il fallimento del suo matrimonio, con la necessità di dire la verità, ma è anche la condizione forse più dolorosa per rendersi conto del legame profondo con Cora, della sua quasi inevitabile maternità, che è una condizione che le appartiene nonostante tutto.
Il romanzo di Giovana Madalosso è un’avventura emotiva densa e stratificata, fatta di tanti registri diversi che si muovono con grazia e leggerezza tra una dimensione più ironica e una più drammatica, in cui la tensione cresce progressivamente fino allo scioglimento finale.
Per me una bellissima scoperta e uno di quei libri che periodicamente mi riconciliano con la lettura.
Torno a questo graphic novel a distanza di molto tempo da quando l’avevo comprato.
Allora l’acquisto era stato fatto sulla base del suggerimento di S. ma alla fine il volume era rimasto sullo scaffale. Il mio rinnovato entusiasmo per la fotografia di questi ultimi mesi mi ha attirato verso la copertina di questo albo che rappresenta una giovane donna con una rolleiflex in mano.
Siamo negli anni della Francia occupata dai nazisti: Rachel è una giovane ebrea che frequenta la Maison d'enfants di Sèvres, una scuola molto particolare – esistita veramente - dove venivano adottati metodi didattici innovativi e dove si accoglievano ragazzi di ogni provenienza religiosa e sociale.
Qui Rachel collabora con il laboratorio fotografico, non solo scattando fotografie bensì anche sviluppandole nella camera oscura.
Purtroppo l’inasprirsi delle persecuzioni nei confronti degli ebrei costringe i responsabili della scuola ad adottare una serie di strategie per proteggere i loro studenti: molti di loro devono cambiare nome e prendere documenti falsi per sfuggire ai rastrellamenti, ma quando questa soluzione non è più sufficiente molti devono abbandonare la scuola e spostarsi presso famiglie o persone che si offrono di ospitarli e proteggerli.
Accade così che Rachel diventa Catherine e comincia a girare per la Francia, senza mai però separarsi dalla sua macchina fotografica e continuando non solo a scattare ma anche a cercare laboratori dove sviluppare le sue foto. Questo le permetterà di mantenere il suo sguardo vivo e attento sul mondo, di intessere relazioni e dunque di sopravvivere ai momenti peggiori fino alla liberazione della Francia.
L’albo di Julia Billet e Claire Fauvel, ispirato a una storia vera, ha vinto il premio Andersen nel 2018, e certamente, sia dal punto di vista grafico che dei contenuti, sembra destinato primariamente a un pubblico di ragazzi.
Devo dire però che si tratta di una lettura intensa, senza essere melodrammatica e patetica, e dunque adatta anche a un pubblico adulto. A me è piaciuto.
Senza il successo del film Le otto montagne (che tra l’altro io continuo a non aver visto), probabilmente Daniel Norgren sarebbe rimasto praticamente sconosciuto per il pubblico italiano, salvo probabilmente una piccola nicchia di appassionati.
E invece la scelta dei registi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch di utilizzare alcune sue canzoni, tra cui la ormai famosissima As Long As We Last presente nell’album Alabursky, per raccontare l’amicizia dei protagonisti del film (e ovviamente del libro di Cognetti) ha fatto conoscere più diffusamente il cantautore svedese, in particolare al pubblico italiano, che infatti sta riempiendo i club del suo tour estivo.
Io lo vado ad ascoltare insieme a F. al mio amato Monk, anche se la sala teatro che d’inverno è un nido caldo e accogliente d’estate diventa una specie di girone infernale a causa del caldo.
Dopo aver mangiato qualcosa in giardino e aver incrociato Norgren che faceva delle foto con dei fans, entriamo in sala subito all’apertura della stessa in modo da posizionarci come al solito sotto il palco. In questo caso non c’è nemmeno il corridoio dei fotografi, quindi siamo praticamente addosso al palco, ingombro di strumenti musicali: un vecchio pianoforte verticale sulla sinistra, delle chitarre appoggiate dallo stesso lato, la batteria al centro in fondo, un contrabbasso e un basso, e a destra un angolo tastiere e sintetizzatori, oltre ovviamente a casse e pedaliere.
Intorno alle dieci salgono sul palco Norgren e i componenti della sua band, Erik Berntsson alla batteria, Anders Grahn al contrabbasso e al basso, Anders Rane alle tastiere, sintetizzatori e flauti.
Per l’esecuzione delle prime canzoni Norgren – che è un omone di oltre due metri – si posiziona al pianoforte, cosicché noi lo vediamo solo di spalle; poi nel corso della serata si alterneranno canzoni che accompagna con il pianoforte e altre con le due chitarre elettriche, così come gli altri musicisti si muoveranno tra i vari strumenti che hanno in gestione. Mi colpisce in particolare il musicista alle tastiere e sintetizzatori, che è vestito con una salopette arancione e ha degli zoccoli svedesi tradizionali ai piedi e dimostra una straordinaria versatilità nonché bravura agli strumenti che suona.
In generale il concerto, che attraversa la produzione di Norgren tra canzoni a noi più note e altre meno note, è fatto soprattutto di arrangiamenti e di atmosfere che rivelano le qualità musicali di questo gruppo e ovviamente di Norgren, nonché la multiformità della sua musica che sarebbe riduttivo definire “alternative folk”.
Durante tutta la durata del concerto Norgren e i suoi ci trascinano attraverso ritmi e sonorità diversi che oscillano tra folk, blues, rock e sonorità ispirate a tradizioni musicali molto differenti (un tempo si diceva world music). Ne viene fuori un concerto non solo coerente, ma affascinante e quasi ipnotico, mentre Norgren ci parla di natura, di amori, di relazioni, di alberi e di boschi.
All’uscita dal palco il pubblico, entusiasta, vorrebbe ancora qualcosa. E così dopo un forsennato battimani Norgren e i suoi rientrano per quella che è una vera e propria ninna nanna con cui tutti andiamo a casa felici.
Un concerto di alto livello, di quelli che ti fanno amare la musica dal vivo e rendono l’esperienza di ascolto qualcosa di completamente diverso dall’ascolto della musica registrata. Una specie di partecipazione con tutti i sensi che ci si porta dietro a lungo.
Ho comprato questo libro dopo aver scoperto che il film del cinese Wei Shujun, Il mistero corre sul fiume, che ho visto un po' di tempo fa al cinema, è tratto proprio da un racconto di Yu Hua, autore molto prolifico e i cui romanzi e racconti sono stati ampiamente tradotti in italiano.
Decido di iniziare a conoscere l'autore con questo libro perché leggo che contiene una storia familiare e che è basato anche sulle memorie personali dello scrittore, nato nel 1960.
Devo dire che quando mi approccio alla letteratura che proviene da posti culturalmente così lontani dal nostro mondo devo innanzitutto superare lo shock culturale che, durante la prima fase della lettura, mi crea una distanza e a tratti quasi mi disorienta.
Per noi che siamo abituati tendenzialmente a una narrazione piuttosto lineare e che quando parliamo di storie familiari ci aspettiamo un certo tipo di struttura, il romanzo di Yu Hua spariglia tutte le carte, perché senza alcuna premessa né spiegazione il racconto entra in medias res e prosegue dipanandosi attraverso tante piccole storie che vanno avanti e indietro nel tempo. Anche i protagonisti delle storie compaiono e scompaiono dal racconto a seconda dell'andamento della narrazione, cosicché le storie individuali si ricostruiscono solo a posteriori man mano che la lettura prosegue e che il narratore ci consente di riempire alcuni buchi, sebbene non tutti.
Anche i contenuti delle storie, nonché i modi in cui si sviluppano e i comportamenti dei personaggi appaiono a volte poco comprensibili se letti con i nostri occhi occidentali, tanto più che la narrazione di Yu Hua risale indietro nel tempo, ai tempi della sua infanzia e in alcuni casi a periodi ancora precedenti, per raccontarci le storie dei genitori e dei nonni del protagonista.
Man mano però che la lettura prosegue, il senso di empatia cresce progressivamente e si produce quasi spontaneamente un sentimento molto diverso da quello iniziale: da un lato un senso di riconoscimento dovuto al fatto che certe dinamiche, pur così lontane cronologicamente e culturalmente, risuonano con alcune storie che persone come me hanno sentito raccontate da genitori e nonni, dall'altro un disvelamento della Cina precontemporanea e una comprensione sempre più forte di alcuni suoi tratti caratteristici, che sono il frutto di complesse combinazioni di fattori e che hanno lasciato profonde tracce anche sulla contemporaneità.
Alla fine ci si affeziona al protagonista Sun Guanglin e, nonostante alcuni personaggi - come ad esempio suo padre - risultino davvero meschini e intollerabili, si entra in connessione anche con tutti gli altri personaggi che gli ruotano intorno, arrivando in molti casi a giustificarne anche i comportamenti più abietti che agli occhi del lettore finiscono per essere spiegati da un contesto di povertà e ignoranza così forti da riuscire a drenare qualunque residua umanità.
Una lettura che, come tutte quelle che aprono il nostro sguardo verso altri mondi, risulta interessante e arricchente, sebbene a tratti faticosa e spiazzante.
La scorsa volta – e stiamo ormai parlando del lontano 2017 – ero andata al concerto di Ani Di Franco quasi per caso e fondamentalmente per curiosità, ed ero stata conquistata dall’energia straordinaria che mi aveva travolto.
E così, dopo quasi dieci anni di assenza dai palcoscenici romani, quando mi arriva la notizia che Ani suona alla Casa del jazz nell’ambito del suo tour di presentazione dell’ultimo album, Unprecedented sh!t, non mi lascio sfuggire l’occasione e compro immediatamente il biglietto.
Quando arrivo alla casa del jazz mi rendo conto di non esserci mai stata nei miei 25 anni a Roma, e mi dispiace parecchio perché il posto con il suo spazio esterno verde è davvero molto bello.
Nonostante siano solo le 21 quando arrivo, sul palco c’è già qualcuno che canta: sono Gracie and Rachel, due giovani musiciste che fanno parte della casa discografica di Ani Di Franco, Righteous Babes, e che l’accompagnano in questo tour.
Mi siedo dunque subito al mio posto in seconda fila, e ascolto le ultime 3-4 canzoni di questo opening in cui Gracie canta e suona le tastiere e Rachel suona il violino.
Dopo un cambio di palco e una preparazione degli strumenti, intorno alle 21,30 arriva Ani Di Franco, accompagnata da tre musicisti, uno alla batteria, uno alla steel guitar e chitarra elettrica, uno al contrabbasso e alle tastiere. Ani come sempre sfoggia le sue numerosissime chitarre – soprattutto acustiche, ma non solo: io ne ho contate almeno sei diverse, forse di più, con cui si è esibita nel corso di questo concerto.
A livello di scaletta, come era prevedibile Ani ha lasciato uno spazio significativo al nuovo album, ma non ha mancato di fare numerose incursioni nel suo repertorio, anche quello più datato, che è stato anche quello che per ovvi motivi ha suscitato maggiori entusiasmi nel pubblico.
Non sono mancate un paio di cover, e anche alcune canzoni eseguite con l’accompagnamento anche di Gracie and Rachel.
Tra una canzone e l’altra Ani ha parlato con il pubblico, accennando spesso alla situazione della politica americana e in generale richiamando gli ideale di lotta e resistenza cui si è sempre ispirata durante tutta la sua carriera, e che da sempre si riflettono nella sua musica.
Tutto questo, parole e musica, fatto con una carica di energia, un’empatia, un’umanità e una gioia che – esattamente come nel 2017 – hanno conquistato me e il pubblico. Così all’esecuzione dell’ultima canzone e dopo l’uscita dal palco della band, tutto il pubblico non solo l’ha richiamata a gran voce ma si è alzato dalle sedie e ha affollato lo spazio sotto il palco per assistere alla reprise stando vicino a questa donna e alla sua forza, quasi in un abbraccio reciproco.
Ed è stato bellissimo vedere che nel pubblico oltre alla mia generazione – coetanea di Ani – c’erano anche persone più avanti con gli anni e anche ragazze (soprattutto donne) molto più giovani, che evidentemente ancora nella musica della Di Franco trovano un significato e un piacere musicale e politico.
La musica e la società hanno ancora bisogno di Ani Di Franco e di musicisti che, come lei, credono ancora che la musica possa essere uno straordinario strumento di battaglia politica e di unione tra le persone.
Jonás Trueba, il regista del film Volveréis che avevo perso al Festival del cinema spagnolo e ora posso recuperare in sala, è cresciuto a pane e cinema. Suo padre, Fernando Trueba, è un importante cineasta spagnolo, così come suo zio, David Trueba, ed entrambi hanno anche una passione per la letteratura (Fernando è un curatore, David uno scrittore).
L'amore per le storie scorre dunque nel sangue di questa famiglia ed è proprio da un aneddoto familiare che nasce l'idea di questo film. Fernando era solito dire a suo figlio proprio la frase da cui prende il via la pellicola, ossia che non bisognerebbe celebrare le unioni, ma le separazioni.
E così i due protagonisti, Ale (Itsaso Arana, anche lei regista) e Alex (Vito Sanz) decidono di provare a mettere in atto quanto il padre di lei (lo stesso Fernando nella finzione cinematografica) dice da tempo. Poiché stanno per separarsi consensualmente, più per noia che per altro, mentre lo comunicano a parenti e amici aggiungono che faranno anche una grande festa di addio reciproco. La verità è che nessuno ci crede e tutti pensano che Ale e Alex si rimetteranno insieme.
In questo frattempo i due sono impegnati in un progetto cinematografico, di cui Ale è la regista e Alex il protagonista, e che scopriremo ben presto è proprio il film che stiamo vedendo sullo scorso.
In questo ardito e divertito intreccio metacinematografico non mancano le citazioni di alcuni classici del cinema mondiale, da Bergman alla nouvelle vague alla commedia hollywoodiana su remarriage, così come il mondo degli amici che ruotano intorno ai protagonisti a loro volta sono esponenti del mondo del cinema spagnolo che in alcuni casi interpretano sé stessi nel loro lavoro, come nel caso di Francesco Carril che la protagonista incontra mentre sta girando la serie Dieci capodanni di Sorogoyen.
Alla fine Volveréis sembra davvero per Trueba l'occasione di rendere omaggio al mondo al quale appartiene e all'intreccio inestricabile tra vita reale e vita narrata. Alla fine anche lo spettatore nel guardare questa pellicola comincerà a dubitare o comunque a chiedersi cosa sia reale, cosa finzione e cosa metafinzione, e il regista non farà molto per sciogliere questi dubbi, anzi insisterà su un processo iterativo che alla fine rappresenta non solo il modo di narrare ma anche il senso del racconto e quello, in ultimo, della relazione di coppia.
Un esperimento interessante, sebbene appaia un gioco più intellettuale che strettamente empatico.
Approfittando dei ponti postpasquali io e S. decidiamo di tornare in Sicilia dove eravamo state l’ultima volta nel maggio del 2021 nella zona di Trapani e Favignana. Questa volta l’obiettivo del nostro tour è quello di esplorare l’area sud-orientale dell’isola, con una breve puntatina nel centro.
*************************
Sull'Etna
Etna e dintorni
La prima tappa del tour è la zona dell’Etna. Arriviamo in aereo a Catania, qui noleggiamo un’auto e ci dirigiamo immediatamente verso il vulcano. Dormiamo alla periferia di Linguaglossa, un paese alle pendici nordest dell’Etna.
La casetta è molto carina (ha un grande giardino di inverno coltivato a cactus, davvero spettacolare!) e Marina, la nostra host friulana con marito siciliano, è davvero molto molto disponibile.
Il tempo di sistemarci e andiamo a mangiare Dai Pennisi (macelleria con cucina) dove mangiamo una tartare buonissima e poi una grigliata mista - soprattutto del maiale di zona - con contorno di cime di rapa e patate e Etna rosso ad accompagnare. Poi un cannolo in due e io un amaro Reset, molto buono.
Sull'Etna con le guide vulcanologiche
Dopo 8 giorni, al ritorno dal viaggio, dovendo tornare a recuperare al nostro b&b un paio di jeans che S. si è dimenticata, ne approfittiamo per un pranzo da Nica Nuci dove mangiamo arancino, un pezzo di tavola calda con melanzane e una brioche gigante con pistacchio.
Per il giorno dopo abbiamo prenotato un’escursione sull’Etna con le guide vulcanologiche che parte da Piano Provenzana. Andiamo su con pulmino 4x4 e con Davide come guida, un ragazzo preparato e carino. Saliamo prima a poco più di 2000 metri dove si vede l'ultima colata lavica (prima di quella recentissima di maggio), poi saliamo a 2800 metri, dove c'è la neve e siamo proprio sotto i tre crateri sommitali. Un'esperienza davvero molto molto bella e un paesaggio incredibile anche grazie a un meteo davvero molto favorevole.
Castello di Lauria a Castiglione di Sicilia
Dopo una visita al paese di Castiglione di Sicilia con passeggiata nel centro storico fino al castello di Lauria da dove si vede la valle dell'Alcantara, scendiamo al fiume, all’altezza delle piccole gole e camminiamo lungo il fiume mentre il sole tramonta.
Il giorno dopo prima di andare verso Siracusa facciamo un salto a Taormina a vedere il teatro greco. C'è parecchio traffico, soprattutto lungo la costa, e salendo verso Taormina ci sono anche alcune deviazioni. Stiamo per rinunciare perché non troviamo parcheggio ma alla fine arriviamo all’imbocco dell’orrendo parcheggio di porta Catania e ci fermiamo. Attraversiamo la città, piena di turisti e di negozi per turisti, e siamo al teatro greco che offre un colpo d’occhio davvero spettacolare. Sul cucuzzolo della montagna che guarda il mare da una parte e dall'altra e domina la costa offrendo anche una magnifica vista dell’Etna.
Taormina
************************* Siracusa e dintorni
A Siracusa siamo in un piccolo appartamento poco fuori Ortigia.
Nella nostra prima passeggiata verso l’isola di Ortigia facciamo una sosta alla Nuova Dolceria su corso Umberto per mangiare granita e brioche.
Ortigia la giriamo lasciandoci guidare dall’istinto e dalla voglia di esplorare, e ovviamente non manchiamo la visita al duomo e la passeggiata fino alla punta più a sud dell’isola, dove c’è il castello normanno.
All'ingresso del duomo di Siracusa
La sera ceniamo da Anchovies vicino a palazzo Bellomo, come suggerito dal nostro host. Mangiamo benissimo: tartare di gambero rosso, spaghetto alle acciughe, calamaro ripieno e cannolo con la ricotta. Tutto eccellente.
Il giorno dopo facciamo un giro al mercato di Ortigia dove compriamo il polpo da cucinare in serata e qualcosa da portare a casa. Non ci lasciamo sfuggire l’occasione di comprare un panino dal caseificio Borderi che mangeremo per pranzo.
Poi andiamo verso sud. La destinazione di oggi sono i laghetti di Cavagrande, un posto che molti ci hanno suggerito di visitare. Oggi il tempo è variabile e tendente al nuvoloso e forse è la giornata migliore per questa escursione che prevede una discesa nella gola che dura circa 45 minuti e una risalita di circa 50. Rispetto a quanto ci avevano raccontato – ossia un accesso non regolamentato e consentito dal custode in maniera ufficiosa – ora per entrare si paga un biglietto e il sentiero in discesa è in buona parte dotato di corrimano in legno (evviva!).
Laghetti di Cavagrande
Quando arriviamo in fondo alla gola, ai laghetti, c'è poca gente e un'atmosfera abbastanza paradisiaca. Qui ci fermiamo su una roccia liscia e bianca a mangiare il nostro panino guardando l'acqua smeraldina e ascoltando il rumore delle cascatelle. Poi torniamo su, con una certa fatica ma con soddisfazione. Ci rimettiamo in marcia verso Noto che abbiamo scelto come meta per vedere almeno uno dei paesi del barocco siciliano. Facciamo una passeggiata nel centro, dove non ci sono per fortuna molti turisti e poi ci rimettiamo in macchina per tornare a Siracusa.
La mattina seguente e dopo aver caricato le valigie in macchina (visto che per la serata saremo a Piazza Armerina) andiamo alla vicina chiesa di Santa Lucia dove c'è un quadro di Caravaggio che raffigura il seppellimento della santa. Un sagrestano si offre di farci da guida: peccato che è logorroico e dopo aver parlato di Caravaggio e del quadro sta per raccontarci tutta la storia di Siracusa. Anche quando diciamo che “purtroppo” dobbiamo scappare trova il tempo di darci il cotone benedetto della santa.
Nell'area archeologica di Siracusa
A questo punto siamo pronte per la visita all'area archeologica Neapolis dove visitiamo il teatro greco (in allestimento per le prime rappresentazioni di maggio), le latomie e le grotte della grande cava, l'anfiteatro e i resti del tempio: posto molto bello e suggestivo, peccato per i miliardi di ragazzini in visita scolastica.
Il pomeriggio ci spostiamo verso sud, verso la riserva naturale di Vendicari, in particolare la zona della vecchia tonnara. Proprio alla spiaggia della tonnara faccio il primo bagno della stagione. Da qui ci spostiamo a Marzamemi per la visita al borgo dei pescatori, posto suggestivo nonostante sia ormai iperturistico e pieno di bambini e ragazzi in gita scolastica. Prendiamo due granite e ce ne andiamo, sempre colpite dalle contraddizioni di questa isola in cui bellezza e bruttezza sembrano inscindibili. Poi ci rimettiamo in macchina dirette a Caltagirone.
Oasi di Vendicari
Visitiamo il paese delle ceramiche – dove in generale c’è poca gente -, saliamo per la famosa scalinata con i gradini decorati dalle piastrelle dipinte a mano e compriamo delle ceramiche da portare a casa. Il paese ci è piaciuto molto nel suo complesso: fermo agli anni Cinquanta ma con una identità spiccata e segni di brutture abbastanza contenuti.
************************* Piazza Armerina e la Villa romana del casale
Ci rimettiamo in macchina in direzione di Piazza Armerina. Attraversiamo così una zona interna della Sicilia con un paesaggio che niente ha da invidiare a certe parti della toscana: colline verdi, casali, cipressi, morbidi declivi baciati dalla luce del tramonto. Qua e là purtroppo un viadotto o una cava, però restiamo davvero a bocca aperta, perché non avevamo idea potesse esserci un paesaggio così rigoglioso in Sicilia.
Verso Piazza Armerina
A Piazza Armerina siamo in un piccolo monolocale nel centro storico, che dà sui tetti della cittadina.
A cena andiamo alla Trattoria del goloso dove prendiamo un antipasto della casa per 1 (abbondante e ottimo), una pasta con salsiccia e zucchine e pomodori secchi, e un agnello al forno con patate da urlo. Poi cannolo e biancomangiare per finire. Davvero tutto molto buono e prezzo più che adeguato.
Il giorno dopo è dedicato alla Villa romana del casale, che sta a pochi chilometri dalla città, un edificio probabilmente di un prefetto romano, con funzioni sia di amministrazione e rappresentanza che di abitazione privata. È una costruzione straordinaria sia dal punto di vista della struttura architettonica che dal punto di vista decorativo, coperta com'è da un tappeto di mosaici davvero straordinari che fanno impallidire qualunque cosa io abbia visto prima. Una roba veramente incredibile.
La Villa romana del casale
Dopo aver mangiato qualcosa ci spostiamo verso Aidone dove vogliamo visitare il museo archeologico regionale nel quale sono conservati i reperti archeologici di Morgantina e in particolare una famosa dea a figura intera. Nel paese c'è la festa patronale di San Filippo e questo ci spiega perché un sacco di gente sta andando a piedi da Piazza Armerina a Aidone (un rito collegato alla festa). Per fortuna riusciamo a parcheggiare non lontano dal centro e andiamo a piedi al museo passando per la fiera che invade il centro del paese.
************************* Agrigento e dintorni
Punta bianca
Il giorno dopo andiamo verso Agrigento e prima di andare al nostro alloggio decidiamo di fare una puntatina al mare, alle spiagge dopo la Scala dei turchi. Ci troviamo però imbottigliate a Porto Empedocle dove scopriamo essere ancorata la Amerigo Vespucci cosicché metà Sicilia si è spostata per venire a vederla. Io mi innervosisco e non sappiamo bene se andare al b&b in anticipo oppure cambiare programma. Alla fine decidiamo di spostarci verso la spiaggia dello Zingarello che sta dal lato opposto di Agrigento rispetto a Porto Empedocle. Non ci fu scelta più azzeccata. Scendiamo sulla spiaggia con le falesie dietro, dove siamo praticamente da sole per quasi tutto il tempo della nostra permanenza. Da lontano vediamo un promontorio bianco che scopriamo essere un parente minore della Scala dei turchi: Punta bianca. Così quando siamo stanche dello Zingarello decidiamo di andarci. Ci si arriva con un lungo sterrato e poi una breve passeggiata a piedi che ci fa scoprire anche delle calette molto belle. Passiamo davanti al rudere della casa dei doganieri e poi facciamo una passeggiata sulla spiaggia.
Valle dei templi di Agrigento
In serata ci sistemiamo al nostro b&b che sta nella parte antica di Agrigento, molto affascinante, forse perché ancora non invasa dai turisti, e andiamo a cena da Osteria Ex Panificio, di cui abbiamo letto bene e da cui c’è uno splendido panorama sulla valle dei templi e sul mare. Si capisce subito che non sono molto organizzati. Alla fine mangiamo discretamente, 3 antipasti (menzione speciale per la bruschetta con robiola e pancetta), un primo piatto a mezzi e una caponata, più dessert. Tutto discreto senza picchi.
Il giorno seguente, la mattina andiamo al giardino della Kolymbethra dove abbiamo appuntamento con una signora del Fai che ci fa entrare al giardino separatamente dall'ingresso alla valle dei templi, cosa di solito non possibile. Facciamo il giro del giardino che sta dentro una cava che funzionava da cisterna dell'acqua.
Lido Rosello
Poi andiamo in macchina verso Lido Rossello che sta a nord di Agrigento, subito dopo la Scala dei turchi. Spiaggia stupenda e deserta con venticello piacevole. Bagno e poi lunga passeggiata fin quasi ai piedi della Scala dei turchi con conseguente ulteriore bagno.
Torniamo ad Agrigento dove prima di rientrare a casa mangiamo due cassatine e un latte di mandorla da Infurna su via Atenea. Ottimi. Nel tardo pomeriggio abbiamo la visita guidata alla valle dei templi (che in realtà, come ci dice la guida, è propriamente la collina sacra dei templi). Sarà Calogero dell’Associazione Vie di Sicilia ad accompagnarci per l'intero giro dal tempio di Giunone fino al tempio dei Dioscuri. Torniamo indietro per la stessa strada godendo la luce del tramonto.
La cena la facciamo da Cusà, posticino di street food di pesce in centro, dove mangiamo delle polpettine fritte di pesce bianco e due panini col pesce: polpo e gambero rosso. Tutto buonissimo.
Il giorno dopo è purtroppo già ora di tornare.
Passeggiando per la Valle dei templi
************************* Considerazioni finali
La Sicilia è uno strano posto. Ha luoghi di una bellezza incredibile sia dal punto di vista artistico e architettonico, sia dal punto di vista naturalistico; è una terra ricchissima di storia e di umanità; è una miniera infinita di scoperte e di sorprese. E, però, è anche una terra di brutture, incompiutezze, devastazioni paesaggistiche, in cui si respira chiaramente la presenza di forze che operano in maniera sotterranea con conseguenze non banali sul contesto sociale e sulle relazioni umane.
C’è qualcosa di atavico e non scardinabile nei rapporti di forza che governano questa terra, al contempo c’è tutto il bello e il buono del Sud nella sua forma più pura e distillata che attira e conquista.
Personalmente la Sicilia non smette mai di sorprendermi.
********************* Per una selezione più ampia di foto del viaggio in Sicilia si veda qui sul mio profilo Behance.
Approfitto di un weekend in compagnia per recuperare alcune mostre in programmazione in questa primavera-estate romana, già caldissima all’inizio di giugno.
La prima – prenotata già diversi mesi fa – è quella dedicata a Caravaggio, in corso a Palazzo Barberini che attinge in prima battuta alle collezioni permanenti del museo e le arricchisce con prestiti provenienti da molte altre istituzioni museali italiane e straniere.
La mostra, curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, fa parte delle iniziative inserite nel programma giubilare. In un periodo – che ormai dura da diversi anni – in cui le mostre sono in tono sempre minore, con poche opere davvero rilevanti, a causa dei proibitivi costi di assicurazione per lo spostamento dei lavori di artisti così rilevanti, Caravaggio 2025 è un’eccezione, confermata anche dalla risposta del pubblico, che ha esaurito i biglietti disponibili fino alla sua conclusione molte settimane prima.
Effettivamente, una mostra davvero monografica come questa era un pezzo che non la si vedeva: a Palazzo Barberini nel percorso espositivo di quattro sale, corrispondenti ad altrettante sezioni della mostra, si ha la possibilità di seguire tutta la carriera artistica di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, in parallelo con le sue vicende di vita, a partire dalle opere degli inizi, tra cui il Narciso e i Bari, fino ad arrivare all’ultima realizzata poco prima della morte, il Martirio di sant’Orsola, prestato da Intesa Sanpaolo.
Nel mentre opere importanti come i ritratti di Maffeo Barberini, l’Ecce Homo, Santa Caterina, Marta e Maddalena, Giuditta e Oloferne, San Francesco in estasi, e molti altri lavori che permettono di osservare da vicino l’eccezionalità delle doti pittoriche di Caravaggio.
Io sono rimasta particolarmente colpita dalla Cattura di Cristo, l’unico quadro in mostra non fotografabile, che offre a chi guarda una composizione che ho trovato di una modernità davvero sconcertante.
Nonostante i tanti visitatori all’orario in cui ci sono andata io (ossia alle 19,40 di un venerdì sera – ma mi dicono che la situazione non cambia in altri orari e giornate), è possibile godersi il percorso e le opere, magari anche tornando indietro nelle sale lì dove se ne senta il bisogno.
Il pomeriggio successivo (sabato) è stato invece dedicato alle mostre in corso al Palazzo delle Esposizioni, luogo espositivo a mio parere molto sottoutilizzato, e dove infatti mancavo da tempo.
Noi abbiamo visitato le tre mostre fotografiche, dedicate rispettivamente ad Albert Watson, in particolare al suo lavoro dedicato alla città di Roma, dal titolo Roma Codex, a Mario Giacomelli (Il fotografo e l’artista) e ai premiati del World Press Photo.
La mostra delle grandi foto di Albert Watson è ospitata al piano terra del museo, nelle sale a sinistra: si tratta di grandi stampe di foto che raccontano lo sguardo del fotografo scozzese sulla città di Roma e le persone che la rappresentano, tra cui molti attori, registi, artisti, uomini politici ecc. Uno sguardo che può apparire a tratti convenzionale e folckloristico, ma che riesce anche a offrire punti di vista originali su una città che è tra le più fotografate al mondo.
Ma il vero obiettivo della nostra gita al Palazzo delle Esposizioni è la mostra dedicata a Mario Giacomelli, il fotografo di Senigallia che molti conoscono per la serie di fotografie dei pretini sulla neve dal titolo Io non ho mani che mi accarezzino il volto, che furono scattate nel cortile del seminario arcivescovile di Senigallia. Anche queste foto sono presenti in questa mostra e lo sono a fianco dei provini su cui Giacomelli aveva scritto i suoi appunti relativi agli interventi da fare in camera oscura, il che dice tantissimo del modo di lavorare del fotografo marchigiano, un modo che confina più con una ricerca artistica che con una vera rappresentazione del reale. Giacomelli cerca forme e grafismi, trasfigurando la realtà, a volte rendendola quasi irriconoscibile, e per questo una parte importante del suo lavoro – oltre allo scatto – è l’attività in camera oscura. Per questo la mostra, che consente di vedere oltre 300 stampe originali del fotografo, prova a raccontarne la poetica non solo attraverso le sue foto, ma anche attraverso la relazione con le opere di artisti contemporanei come Afro (Afro Basaldella), Roger Ballen, Alberto Burri, Enzo Cucchi, Jannis Kounellis. Viene così magnificamente fuori che le foto di Giacomelli vanno molto al di là di quanto rappresentano, e sono dei paesaggi interiori ed emotivi, costruiti a partire da luoghi, persone, ambienti come fossero tele appena abbozzate da cui il fotografo fa emergere l’essenza.
Non esattamente un tipo di fotografia di facile fruizione (non a caso la serie dei pretini è la parte più conosciuta della sua produzione, in quanto forse la più largamente fruibile), ma un viaggio spaesante, a tratti disturbante, nella mente di una persona dalla creatività decisamente strabordante e in parte naif.
La nostra visita al palazzo delle esposizioni si concluda con la visita alla sezione dedicata alle foto vincitrici del World Press Photo, il famosissimo contest di fotogiornalismo che ogni anno premia foto singole, storie e reportage di fotografi professionisti provenienti da ogni parte del mondo, e che di questo mondo raccontano attraverso le immagini realtà, persone e situazioni più o meno note.
Alcune delle foto in mostra hanno avuto già una larga esposizione mediatica, tra cui ad esempio la foto vincitrice della fotografa palestinese, Samar Abu Elouf, scattata per il New York Times, che ritrae un ragazzo rimasto mutilato negli attacchi su Gaza. Si tratta di foto che sono l’esatto contrario di quelle di Giacomelli: tanto quelle provavano a trasfigurare o ad allontanarsi dalla realtà, quanto queste affondano le radici nel mondo reale e nella vita delle persone.
Il Palazzo delle Esposizioni offre dunque al visitatore l’occasione di fare un viaggio attraverso tempi e modi diversi di fare fotografia, consentendogli dunque di apprezzare la complessità e le molteplici sfaccettature di quella che non a caso è ormai considerata a tutti gli effetti l’ottava arte.
Bibliotecaria di professione, mescolo la passione per le biblioteche con mille altri interessi (cinema, musica, teatro, fotografia, letteratura, viaggi), cui cerco di dare spazio e sfogo in questo blog.
Per il nome di questo blog devo ringraziare le suggestioni del grande maestro Zygmunt Bauman e, in particolare, il suo libro "Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi", sebbene a me lo sciame inquieto suggerisce anche qualcos'altro di più personale.