giovedì 14 agosto 2025

Da Orléans a Tours in bicicletta

Due pescatori nella Loira vicino a Beaugency
Ed eccomi al viaggio in bicicletta n. 24 da quando ho iniziato questa fausta tradizione nell'ormai lontano 2002!

Dopo l’esperienza dello scorso anno con le biciclette a pedalata assistita, S. insiste perché quest’anno torniamo alle biciclette normali, e per questo cerchiamo un viaggio relativamente breve e soprattutto affrontabile con scarsa preparazione atletica. La scelta ricade su un paese che in bicicletta abbiamo girato in lungo e in largo, la Francia, e in particolare su uno dei più classici percorsi in bicicletta, ossia i castelli della Loira.

Delle numerose varianti di questo viaggio, scegliamo il percorso da Orléans a Tours, e uno degli elementi per me più motivanti è il fatto che ricordo ancora le briochette che avevo comprato e mangiato in un panificio nella zona della stazione di Tours al termine del viaggio in bicicletta in Poitou-Charentes nel 2019!

Orléans, Place du Mortroi
Qui il mio racconto per tappe.

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Orléans

Dopo il lungo viaggio in treno che ci porta a Orléans, cambiando a Milano e poi a Parigi (con un trasbordo inatteso a Macone, in mezzo alle Alpi francesi, che determinerà più di 40 minuti di ritardo), dedichiamo la prima giornata a scoprire la città, prima di iniziare le nostre tappe in bici.

Partendo dal nostro albergo poco fuori il centro della città, l’hotel Escale Oceania, andiamo alla scoperta di Place du Mortroi e da lì della Cathédrale Sainte-Croix dove è in corso una funzione con tantissima gente, che scopriamo dopo essere le cresime. 
Dentro la Cathédrale Sainte-Croix, Orléans
In chiesa ci fermiamo un bel po’ a osservare e a fare fotografie, e al termine della funzione facciamo un giro sia all'interno della chiesa che fuori. Continuiamo quindi il giro del centro storico, alla ricerca dei tanti segni che ricordano a cittadini e visitatori il debito e la gratitudine della città nei confronti di Giovanna D’Arco, la pulzella di Orléans.

Dopo un pranzo buono, ma non indimenticabile a L'escalier, facciamo una passeggiata lungo la Loira, il fiume che ci farà compagnia per buona parte del nostro viaggio.

Un’altra passeggiata nel centro storico la facciamo prima di andare a cena da Le Brin de Zinc, dove ci sediamo ai tavoli esterni con il sole che sta calando proprio di fronte a noi. Qui mangiamo molto bene, prendendo due menu, sebbene non si possa dire che si tratti di piatti estivi.

Beaugency al tramonto
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1° tappa: Orleans - Beaugency (30 km)

Colazione, valigie, sistemazione biciclette e siamo in partenza lungo la Loira per una tappa piuttosto breve che ci porterà a Beaugency. Lungo il percorso facciamo una sosta a Saint Hilaire Saint-Mesmin, in una boulangerie per comprare qualcosa da mangiare per pranzo (quiche e brioche). Poi andiamo spedite fino a Meung sur Loire dove vorremmo vedere il nostro primo castello ma il lunedì e il martedì è chiuso, quindi ci accontentiamo della visita alla vicina chiesa.

Ripartiamo alla volta di Beaugency dove arriviamo all'ora di pranzo. Qui troviamo l’albergo dove alloggiamo chiuso e pure il castello. A quanto sembra entrambi aprono dopo pranzo, cosicché facciamo una pausa pranzo e un piccolo riposino su una panchina lungo il fiume, in compagnia di un gatto.

Dentro la chiesetta di Saint Hilaire Saint-Mesmin
Quando torniamo al castello lo troviamo chiuso e non è chiaro se è chiuso il lunedì, o è sempre chiuso. Cominciamo dunque a pensare a un posto dove cenare e scopriamo che la gran parte dei ristoranti del paese è chiuso il lunedì. Visto che a Beaugency c’è una delle numerose leggende che hanno a che fare con il ponte del diavolo, cominciamo a pensare di essere vittime di una qualche maledizione!

Andiamo dunque verso l’albergo, finalmente aperto e molto carino, anche se essenziale, il Relais des templaires, e la signora alla reception, che è molto gentile, ci dà un elenco di ristoranti aperti il lunedì tra cui scegliamo la Rotisserie des moines, collegato all'Hotel de l'Abbaye. Carni alla griglia e contorni, tutto molto buono, oltre che una magnifica vista sulla Loira, anche se la gestione è un po’ naif. Facciamo infine una bella passeggiata in paese mentre tramonta il sole, prima di tornarcene in albergo.

Il castello di Chambord
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2° tappa: Beaugency - Blois (50 km)

Dopo un’ottima colazione al nostro alberghetto di Beaugency, partiamo per la seconda tappa che ci porterà in circa una cinquantina di chilometri a Blois. I primi 15 km passano molto tranquilli lungo la Loira e anche la temperatura è ottimale.

Ci fermiamo a Saint Dyé sur Loire per comprare qualcosa per pranzo in una boulangerie e poi andiamo verso Chambord, per visitare il nostro primo vero castello. Qui lasciamo le bici e compriamo il biglietto per la visita. All’inizio del percorso ci fermiamo a vedere il video in una delle prime salette del castello e devo dire che si rivela essenziale per comprenderne genesi e struttura, e interpretare quello che vedremo. Dopo aver girato in lungo e in largo il castello, torniamo alle bici e mangiamo qualcosa in area picnic (con a fianco degli spagnoli rumorosissimi).

Blois
Quando riprendiamo il percorso è il primo pomeriggio e mancano ancora circa 16 km alla destinazione finale, mentre invece io pensavo che non fossero più di 10. C’è un caldo micidiale e il percorso è quasi completamente in pieno sole. Soffro dunque parecchio questo ultimo tratto e, quando arriviamo a Blois, vorremmo un po’ di riposo e refrigerio.

Peccato che, oltre a far fatica a trovarlo, l’albergo nel quale siamo, Anne de Bretagne, si rivela un’esperienza non esattamente positiva: siamo in piccionaia, in un’ala dell’albergo al terzo piano senza ascensore, la stanza è espostissima al sole, non c’è l’aria condizionata e l’unico ventilatore presente è rumorosissimo.

Lungo il percorso in bicicletta
A cena andiamo in un posto non lontano dall’albergo, l’Oratoire, un ristorante piuttosto chic che occupa l’antica orangerie del castello di Blois e si trova proprio di fronte a quest’ultimo. Dopo cena facciamo un lungo giro per la città seguendo le indicazioni di percorso che abbiamo sulla nostra app di viaggio. Tocchiamo cattedrale, altre chiese importanti, giardini, la zona medievale, i fossati del castello.

Sarà perché siamo stanchissime ma non riusciamo a entrare pienamente in sintonia con la città, e tra l’altro quando torniamo in albergo la nostra camera ha una temperatura folle che ci costringe ad aprire finestra e porta della camera contemporaneamente per provare a creare un po’ di corrente. Peccato che dopo un po’ passano i vicini della stanza accanto proprio mentre ci stiamo cambiando.

Il castello di Amboise
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3° tappa: Blois-Amboise (47 km)

Dopo una notte difficile a causa del caldo, ci alziamo presto e, fatta la colazione, cerchiamo di partire il prima possibile per sfruttare le ore più fresche. I primi 30 km scorrono via veloci lungo la Loira e in men che non si dica siamo a Chaumont, dove ovviamente c’è un castello. La nostra guida dice di fermarsi a visitarlo e di approfittare anche del Festival dei giardini in corso, ma pur arrivando fino all’ingresso, dopo una rapida valutazione dei tempi, decidiamo di non fermarci per non ritrovarci nella situazione del giorno precedente.

Arriviamo dunque al piccolo paese di Mosnes intorno all’ora di pranzo e qui c'è una piccola bottega che vende cose da mangiare e bere con dei tavolini all'ombra. Decidiamo dunque di fermarci per mangiare e riposarci un po’. Tra l’altro di lì a poco la bottega chiude per la pausa post-prandiale.

La Loira ad Amboise
Non sappiamo che ripartendo da Mosnes ci attende una lunga salita – che io mi faccio in buona parte a piedi spingendo la bicicletta – e questo ci fa capire che anche oggi gli ultimi 15 km saranno faticosi.

E infatti attraversiamo campagne, vigneti e paesini andando su e giù per le piccole colline che caratterizzano questo paesaggio, con la temperatura che va aumentando, e che ci impedisce di apprezzare completamente quello che abbiamo intorno. Comunque, teniamo duro e, nonostante il caldo, arriviamo infine ad Amboise dalla parte alta della città.

Il nostro alberghetto, Le blason, è un edificio storico a pochi passi dal centro, ma dentro c'è un bel fresco e le stanze sono ben ristrutturate! Evviva!

Amboise
Il pomeriggio lo dedichiamo alla visita del castello, davvero bello, esterni ed interni. Vorremo anche andare al Clos Lucé, la residenza francese di Da Vinci, ma arriviamo che sta chiudendo (sono le 18!). Devo dire che in un paese in cui l'estate il sole tramonta quasi alle 23, gli orari di apertura dei monumenti risultano davvero ridicoli e poco comprensibili.

Dopo un giro in centro, un aperitivo (finalmente il mio pastis!) e una passeggiata lungo la Loira – funestati da un caldo micidiale - scegliamo il posto dove andare a cena, ossia la Maison Restaurant Voltaire, dove mangiamo un tataki di tonno e un confit de canard con patatine fritte più 25 cl di un ottimo rosato locale. Consigliato.

Il castello di Chenonceaux
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4° tappa: Amboise - Tours (55 km)

Stamattina ci alziamo di buon’ora perché abbiamo deciso di fare il giro lungo, quello con la deviazione a Chenonceaux che tutti ci dicono essere il castello più bello della zona. Quando ci alziamo ci rendiamo conto che durante la notte ha piovuto e l'aria si è rinfrescata, anche se questo ha prodotto una grande umidità nell’aria! Mentre facciamo colazione comincia di nuovo a piovere e dunque aspettiamo un attimo prima di partire.

Appena smette andiamo a prendere le bici e, dopo una piccola disavventura con dei vecchietti che hanno fatto bloccare il cancello del garage, finalmente partiamo.

Dentro il castello di Chenonceaux
Il percorso inizia subito con una bella salita a metà della quale scendo. Sono già demoralizzata, ma in realtà a poco a poco prendo il ritmo dei saliscendi che in circa 15 chilometri ci portano a Chenonceaux. È piuttosto presto e al castello c'è ancora poca gente, così iniziamo la visita in santa pace. Peccato che man mano che procediamo il numero delle persone si fa sempre più alto e la visita sempre più stressante.

Il castello però è bellissimo, e il fatto che la sua struttura si sviluppi a cavallo del fiume Cher con le sale fatte costruire da Caterina de’ Medici direttamente sul ponte lo rende molto affascinante. L’area occupata è molto ampia e, oltre agli interni del castello vero e proprio, meritano una visita e suscitano emozioni anche i giardini, il gabinetto delle scienze, la cancelleria e la farmacia.

Verso Tours
Ripartendo da Chenonceaux dopo pranzo, ci attendono 36 km fino a Tours che ci spaventano non poco. In realtà dobbiamo ammettere che sono tra i chilometri più belli di questa vacanza in bici, tra vigneti, fiumi, castelli e dimore. Lungo la strada ci sarebbe la deviazione per il castello di Nitray ma non vogliamo allungare ulteriormente. Ci affacciamo invece al parco del castello della Bourdaisière e, dopo qualche foto, riprendiamo il percorso. Abbandonato lo Cher, siamo ora di nuovo sulla Loira e non manca tanto a Tours.

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Tours

Come per Orléans, dedichiamo alla città di Tour una intera giornata, dopo la conclusione del viaggio in bicicletta, per poter esplorare al meglio questa città.

Per le strade di Tours
A Tours dormiamo all’hotel Mirabeau subito fuori dal centro e non lontano dalla stazione.

Per il giro della città ci affidiamo all’app di viaggio che stiamo utilizzando.

Partiamo dalla zona più antica, l'insediamento che risale al periodo gallo-romano, poi andiamo verso la cattedrale di Saint Gatien, dove visitiamo anche il chiostro interno.

Da qui procediamo verso Rue Colbert, la strada dei ristoranti, quindi sbuchiamo su Rue National, dopo aver visto numerose case a graticcio e chiese, quindi ci affacciamo sulla Loira dove è stata allestita la guinguette estiva.

Nel chiostro della cattedrale di Tours
Da qui andiamo verso il centro storico vero e proprio facendo diverse stradine che ci permettono di vedere case antiche molto belle, la sede dell'Università, i resti romani, e la famosa piazza Plumereau piena di sedie dei ristoranti e cuore del centro storico. Da qui risaliamo verso le halles, quindi torniamo a place du Marché dove c'è la scultura del mostro-gorilla e ci fermiamo a un panificio per il pranzo con quiche. Dopo la pausa riprendiamo il percorso verso la zona della tour Charlemagne e della basilica di San Martino (patrono di Tours) e facciamo la bella via Scelleries con tutti i suoi negozietti.

Arriviamo dunque alla zona delle librerie antiquarie e poi al teatro dell'opera e infine al Musée des beaux arts dove visitiamo solo i giardini e salutiamo l'elefante impagliato Fritz che ha una storia molto triste alle spalle.

Rue Colbert, Tours
A Tours ceniamo la prima sera da Le chien jaune dove mangiamo un polpo con chimichurri e un pollo intero farcito con pane all'aglio. Ottimo! La sera successiva siamo a Les canailles in Rue Colbert, dove abbiamo avuto una disavventura con la prenotazione: prenoto con The Fork, salvo poi accorgermi che si tratta di un ristorante omonimo in un’altra città!. Alla fine riusciamo comunque a prenotare telefonicamente e per cena mangiamo polpo alla griglia con piselli, orata e costolette di agnello, poi brioche pain perdu con caramello. Tutto di grande soddisfazione!!

Ovviamente non possiamo (e nessuno può) perdere a Tours la Briocherie Lelong dove compro tutte le briochette che ragionevolmente posso portare in Italia, oltre a quelle da mangiare al momento.

Rue National, Tours
Sarà anche per la Briocherie Lelong ma la città di Tours mi è piaciuta molto: una città della giusta dimensione, accogliente, equilibrata tra l'essere tranquilla e attiva, esteticamente molto gradevole e con tanti angoli molto belli, nonché con un numero di turisti giusto per le sue dimensioni. Una di quelle città dove credo si viva bene. Davvero una scoperta!

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Per una selezione più ampia di foto del viaggio si veda qui sul mio profilo Behance.

martedì 12 agosto 2025

Aragoste a Manhattan = La Cocina

In una serata di fine luglio in cui mi sento emotivamente stremata non so se faccio bene a scegliere di andare a vedere questo film di Alonso Ruizpalacios, La Cocina nel suo titolo originale (in Italia divenuto Aragoste a Manhattan), da cui certamente non si esce con l’animo leggero.

Il film di Ruizpalacios è tratto dalla pièce teatrale del 1957 di Arnold Wesker, e tradisce questa origine nella sostanziale unità di tempo e di luogo (la cucina di un ristorante – The Grill - nel centro di New York) e anche nella sceneggiatura, che in alcuni passaggi appare molto più teatrale che cinematografica.

La cucina nella quale è ambientata questa storia è popolata da moltissime persone, i cuochi, i loro aiutanti, e le cameriere, tutti gestiti da un capo-cuoco, a sua volta sotto il controllo di manager che prendono ordini dal proprietario. Gli elementi scatenanti della narrazione sono l’arrivo di due nuove unità di personale, tra cui una cuoca messicana che conosce dall’infanzia uno dei cuochi già operativi e con la testa “più calda”, Pedro (Raúl Briones), e l’apparente sparizione dalla cassa di 800 dollari di incasso, per i quali il proprietario dà incarico al manager di individuare il colpevole tra i dipendenti.

Questi elementi narrativi servono però solo a portare alla luce le dinamiche di un microcosmo in cui si riproduce e si amplifica la lotta di classe che caratterizza la nostra società, nella quale il capitalista – che, non credo a caso, qui si chiama Rashid – sfrutta tutti in funzione del proprio arricchimento personale, non disdegnando forme più o meno becere di populismo, i manager suoi sottoposti si limitano a eseguire gli ordini senza porsi alcun interrogativo etico – e spesso sono immigrati di seconda generazione -, e i lavoratori provengono o da quartieri e classi sociali povere ed emarginate o sono immigrati senza documenti. Tutta la dinamica interna è costruita per scaricare proprio sui lavoratori tutte le tensioni e i conflitti, la cui origine e causa sta certamente altrove, creando anche al loro interno forme di classismo e innescando una guerra tra poveri che danneggia solo loro e non tocca minimamente chi sta sopra di loro.

In questo contesto l’attenzione si concentra in particolare su Pedro, immigrato messicano senza documenti, che ha una storia con Julia (Rooney Mara), una giovane americana con un passato difficile (come scopriremo più avanti). Julia è incinta e dovrà decidere – anche attraverso il confronto con Pedro – cosa fare, nella consapevolezza che gente come loro non ha mai davvero scelta.

Dentro un’azione a tratti convulsa e forsennata, raccontata in uno splendido bianco e nero, si aprono di tanto in tanto squarci di poesia e malinconia, che talvolta si tingono di colore, esasperando, se vogliamo, il senso di alienazione che pervade i protagonisti sullo schermo e anche gli spettatori.

Che il sogno americano sia morto da tempo lo sappiamo ormai per certo. Ma che questo sogno si sia trasformato nell’incubo di questa cucina nel pieno centro della città più iconica degli Stati Uniti forse tendiamo a non volerlo vedere o a far finta di non vederlo, fino a quando le tensioni di quella cucina non invadono anche le sale (e dunque il mondo) dove persone rilassate e felici vivono ignorando volutamente il prezzo della loro serenità oppure, lì dove ne sono consapevoli, con un senso di impotenza.

Insomma, una bella botta.

Voto: 3,5/5


domenica 10 agosto 2025

Membrana / Chi Ta-Wei

Membrana
/ Chi Ta-Wei; trad. dal cinese di Alessandra Pezza. Torino: add editore, 2022.

Di questo libro avevo sentito parlare qualche tempo fa nei consigli con cui di solito si chiudono le puntate del podcast del Post Globo, in particolare nella puntata dedicata a Taiwan in cui Eugenio Cau parla con Lorenzo Lamperti.

Il modo in cui Lamperti aveva suggerito questo libro mi aveva incuriosito e quindi era finito rapidamente nella mia lista degli acquisti. Poi in un paio di spostamenti in treno sono riuscita a finirlo, anche perché Membrana per le sue dimensioni forse è più imparentato con un racconto che con un romanzo vero e proprio.

Mentre lo leggo scopro che, pur essendo stato pubblicato nel mercato italiano nel 2022 da add editore, il romanzo è stato scritto dallo scrittore taiwanese gay Chi Ta-Wei negli anni Novanta e la prima edizione taiwanese risale al 1996, il che lo rende ancora più interessante e sorprendente.

Siamo nel 2100. L'umanità - a causa delle guerre e del cambiamento climatico - ha dovuto abbandonare le terre emerse e ricostruire la propria vita in metropoli realizzate sui fondali oceanici. Sulla terraferma sono rimaste le grandi industrie in cui la forza lavoro è formata solo da robot e le prigioni, dal momento che non c'è peggiore pena per un criminale che quella di essere lasciato in un mondo ormai inospitale e non adatto alla vita umana.

Nella città sommersa di T. vive Momo che fa l'estetista in un mondo in cui la cura della pelle e del corpo ha un'importanza centrale. Attraverso continui flashback che ci portano avanti e indietro nella vita di Momo, alla leggenda sulla sua nascita, alla sua infanzia, al periodo della degenza in ospedale, all'amicizia con Andy, al rapporto con la madre, scopriremo a poco a poco la verità sulla sua vita.

Attraverso una lingua essenziale e diretta, Chi Ta-Wei ci presenta un mondo sommerso nel quale la tecnologia rende il confine tra reale e proiezione del reale, nonché tra naturale e artificiale, sempre più labile e difficile da riconoscere, un mondo - tra l'altro quasi esclusivamente declinato al femminile - nel quale alcuni dei fenomeni antropologici e sociali che già conosciamo si sono spinti fino alle estreme conseguenze, in un senso che non può essere interpretato come univocamente negativo.

Dentro questo mondo ci sono tante cose che conosciamo (e che sicuramente nel 1996 erano molto meno riconoscibili di oggi), e che nel profondo degli oceani sono diventate comuni e normali, ma che talvolta risultano non pienamente intellegibili, in quanto la narrazione di Chi Ta-Wei mantiene intorno ad esse un alone di ambiguità e mistero.

Attraverso Membrana - che pure riflette uno specifico punto di vista culturale - ci troviamo a fare i conti con temi trasversali alle culture e certamente attuali, quali il rapporto tra uomo e natura, il ruolo degli androidi nella società umana e le possibili commistioni con gli esseri umani, la possibilità diffusa del transgenderismo e la libertà nelle relazioni affettive e sessuali, ma anche il senso di solitudine, le paure e l'isolamento, le difficoltà delle relazioni (con altri esseri umani, con i propri familiari, con gli androidi, con gli animali).

Scopro solo a posteriori che Membrana è considerato un classico della letteratura distopica e queer, e capisco bene perché. Lettura davvero suggestiva se ci si lascia trasportare senza pregiudizi nel suo mondo sommerso.

Voto: 3,5/5

domenica 3 agosto 2025

West side story / regia di Damiano Michieletto. Terme di Caracalla, 17 luglio 2025

Erano passati ormai diversi anni dall'ultima volta a Caracalla per uno spettacolo estivo e dunque quest'anno vedendo in cartellone West side story con la regia di Damiano Michieletto ho pensato fosse arrivato il momento di tornarci.

West side story è un musical che non ha bisogno di presentazioni: liberamente ispirato alla tragedia di Shakespeare Romeo e Giulietta, è stato scritto da Stephen Sondheim e musicato dal grande Leonard Bernstein, mentre il libretto è di Arthur Laurents e l'idea e la prima messinscena di Jerome Robbins.

La storia è ambientata negli anni Cinquanta nell'Upper West Side e vede protagoniste due bande di adolescenti che si contendono il controllo delle strade. In questo scontro si consuma la tragica storia d'amore tra Tony, che fa parte della banda dei bianchi, e Maria, che invece è la ragazza di uno dei componenti della banda portoricana.

Nel musical però trovano posto anche molte altre tematiche che vanno dal sogno americano al razzismo, all'immigrazione e alle problematiche di accettazione e assimilazione.

Non a caso Michieletto gioca sul palco con delle grandi lettere illuminate (tipo quelle di Broadway) che a seconda dei momenti del racconto vanno a formare le parole America, Miracle e Maria, che in un certo senso sono i temi intorno a cui gira il racconto.

Il regista sceglie di ambientare la vicenda sul fondo di una piscina su cui domina una grande piattaforma per i tuffi e nella quale, oltre al cast, si collocano gli elementi mobili della scenografia, oltre alle lettere, una specie di colonna con la fiaccola rovesciata e caduta (secondo un simbolismo direi piuttosto intuitivo).

Il testo è quello originale in inglese e spagnolo (con sottotitoli nelle lingue originali e in italiano al lato del palco), cosa che talvolta distoglie l'attenzione da quello che sta succedendo.

Grazie all'esecuzione dal vivo dell'immortale colonna sonora di Bernstein, di cui alcuni brani fanno ormai parte della cultura pop mondiale, e al corpo di ballo del teatro dell'opera su coreografie di Sasha Riva e Simone Repele, nonché ai bellissimi costumi di Carla Teti, assistiamo a uno spettacolo visivamente davvero bello e a tratti anche entusiasmante. Peccato per l'eccesso di andirivieni sulle tribune, ai due vecchi che non stanno zitti un attimo accanto a me, all'orario tardo che si somma alla mia stanchezza. E però, nonostante tutto questo, Michieletto e West side story riescono a conquistarmi e a convincermi, grazie al mix di una storia senza tempo e in fondo attualissima e la costruzione di un universo pop sbrilluccicante che aggiunge ulteriori livelli di lettura e fruizione.

Il resto lo fa la straordinaria scenografia delle Terme di Caracalla che - nonostante i rumori e le musiche della movida estiva romana - resta un'ambientazione straordinaria.

Voto: 4/5

giovedì 31 luglio 2025

King Hannah (+ Panta). Monk, 15 luglio 2025

La mia scoperta dei King Hannah, il nome d’arte della band formata primariamente da Craig Whittle e Hannah Merrick, con l’aggiunta di un tastierista/bassista e un batterista, è piuttosto recente e risale all’autunno dello scorso anno, quando in vista del concerto, tenutosi sempre al Monk, avevo iniziato ad ascoltare la loro musica, e soprattutto l’album Big Swimmer.

Dopo essere stata conquistata dall’esibizione di dicembre scorso, non mi lascio sfuggire la possibilità di riascoltarli dal vivo nel loro tour estivo, che di nuovo tocca il Monk di Roma.

Arrivo al concerto un po’ all’ultimo minuto direttamente dal lavoro, e per non perdere il mio posto in prima fila, non mi fermo al banchetto del merchandising dove c’è una bellissima maglietta che avrei comprato volentieri, e che invece a fine concerto è esaurita!

Comunque, almeno la prima fila (un po’ laterale) la conquisto e sono pronta con la mia macchina fotografica anche per questo concerto.

Alle 21 in punto salgono sul palco i Panta, una band indie rock di ragazzi romani che – ho ricostruito solo dopo – avevo già ascoltato dal vivo, sebbene in una formazione leggermente diversa, nel 2019 a Villa Ada nell’opening del concerto di Calexico + Iron&Wine. Rileggendo quanto avevo scritto allora, confermo la sensazione che già avevo avuto, ossia di una musica che inevitabilmente alle mie orecchie risulta troppo giovanilistica e che non mi conquista, per quanto sia gradevole da ascoltare e loro bravi ad eseguirla.

Dopo circa una mezz’ora di cambio palco, poco dopo le 22 salgono sul palco i King Hannah, e mi trovo in pieno effetto deja-vu visto che la formazione e la disposizione sul palco è la stessa di dicembre, Hannah è vestita esattamente nello stesso modo (vestito rosso a balze e scarpe adidas verdi) e anche la scaletta del concerto non è molto dissimile.

Ovviamente, rispetto all’effetto sorpresa di dicembre che mi aveva conquistata, a questo giro so già cosa mi aspetta, il che non vuol dire che il concerto mi sia piaciuto di meno.

In questo caso, poiché conoscevo già il tipo di presenza scenica di Hannah, il suo modo di cantare e di stare sul palco, mi sono concentrata di più sul pubblico, la cui età media era decisamente più alta di quella dei musicisti, e all’interno del quale c’erano molte persone in adorazione di Hannah, in particolare una donna in prima fila che ha ballato entusiasta e ascoltato rapita tutto il concerto, ricevendo vari messaggi muti dalla cantante e la consegna finale della scaletta.

Del resto, un po’ come a dicembre, dopo l’esecuzione dei primi brani, la cantante si è sciolta un po’ con il pubblico e ha raccontato che lei e Craig la sera prima erano stati ad Ostia a sentire Bill Callahan (che bella questa cosa di musicisti che vanno a sentire altri musicisti!) e durante il giorno hanno fatto i turisti per Roma per visitare i suoi monumenti e mangiare pizza e gelato.

I King Hannah si confermano musicisti di razza e lo spettacolo dal vivo è di alta qualità musicale e performativa, sebbene io confermi di essere particolarmente conquistata più che dalla loro componente rock da quella notturna e malinconica, che poi è in generale il tipo di musica che ascolto maggiormente.

Però bravi, e decisamente da tenere d’occhio anche per il futuro.

Voto: 3,5/5

martedì 29 luglio 2025

Il senso del passato: Edipo re e Ifigenia. Teatro romano di Ostia antica, luglio 2025

Ed è arrivata anche la mia prima volta ad una rappresentazione al teatro romano di Ostia antica, in uno scenario che direi non ha niente da invidiare al teatro greco di Siracusa (che però è più grande e dove non sono mai stata a vedere uno spettacolo).

Quest’anno il Teatro di Roma ha organizzato una mini-stagione estiva, dal titolo Il senso del passato, che ruota intorno alla figura di Antigone, di cui gli spettacoli raccontano le premesse e le numerose sfaccettature.

Grazie alla determinazione di M. prendiamo i biglietti per ben due spettacoli. Il primo è l’Edipo re di Sofocle, adattato e diretto da Luca De Fusco.

Ci vado senza grandi aspettative, con il pregiudizio che riuscire a rendere interessante oggi a una tragedia greca sia un’operazione difficile se non impossibile. E invece la scelta del regista De Fusco di trasformare Edipo re in un thriller psicanalitico, trasportando i protagonisti in un contesto primo novecentesco e facendoli interagire con un grande schermo da cui parlano alcuni dei protagonisti (ad esempio Tiresia) o su cui vengono proiettate immagini in chiave surrealista e magrittiana a commento del testo, si rivela vincente.

Edipo re, lo sfortunato protagonista di questa storia che è giunto a Tebe e ne è diventato re, dopo aver abbandonato la casa dei suoi genitori per sfuggire a un’infausta predizione (ossia che ucciderà suo padre e sposerà sua madre), è interpretato dal bravo Luca Lazzareschi, che in un gioco di rispecchiamenti interpreta anche Tiresia, il veggente cieco, il servo di Laio e il nunzio.

A ruotargli intorno Manuela Mandracchia nella parte di Giocasta e Paolo Serra in quella di Creonte, ma soprattutto i tre corifei, amplificati meravigliosamente dalle immagini sullo schermo, Francesco Biscione, Paolo Cresta e Alessandro Balletta.

Nonostante il ritardo con cui lo spettacolo è cominciato, un caldo-umido insopportabile, le zanzare, una seduta non comodissima e decisamente troppo a stretto contatto con gli altri spettatori, i tempi lunghissimi di ingresso e uscita, e anche di arrivo e ritorno a casa, la visione dello spettacolo è stata soddisfacente e l’esperienza decisamente positiva.

Affronto dunque la prospettiva del secondo spettacolo a fine luglio con l’animo molto più leggero.

Questo secondo spettacolo, intitolato Ifigenia, è il frutto di una collaborazione internazionale tra il Teatro di Roma e il Festival di Mérida, in Spagna, e infatti l’adattamento è di Silvia Zarco e la regia è di Eva Romero. Il cast è interamente spagnolo, cosicché lo spettacolo richiede sovratitoli in italiano per poter essere seguito appieno.

L’allestimento è piuttosto classico: delle colonne illuminate e dei grossi massi sulla scena che fanno da sedute, podii e nascondimenti per i personaggi. Sull’adattamento non sono in grado di esprimermi, perché non conosco così bene l’originale di Euripide, ma ho la sensazione che nella narrazione ci finiscano elementi narrativi e personaggi provenienti da altre tragedie. Costumi e musiche strizzano l’occhio a un immaginario punk rock che a tratti crea un effetto piuttosto straniante.

La lettura del testo è in chiave chiaramente femminista e antipatriarcale, cosa che per quanto molto sensata in questo momento storico e tutto sommato coerente con alcuni elementi della tragedia, mi risulta un po’ semplicistico e alla fine anche didascalico.

In generale, l’intero spettacolo mi pare che punti molto alla leggibilità e alla semplicità del testo, del messaggio e della recitazione, il che può certamente rappresentare un elemento positivo, ma che personalmente non riesco a ad apprezzare.

Al termine della rappresentazione ho intorno a me gente entusiasta, ma anche persone molto deluse. Io appartengo decisamente al secondo gruppo, ma come sempre stiamo parlando di gusti personali e di aspettative.

In ogni caso l’esperienza al teatro di Ostia è stata nel complesso molto bella e sarà da tenere presente anche per il futuro.

Voto: Edipo re 3,5/5; Ifigenia: 2,5/5

giovedì 24 luglio 2025

Da Cannes a Roma: Le città di pianura; Sirat; Partir, un jour; Enzo; Jeunes mères

E anche quest’anno non mi faccio mancare la mia maratona cinematografica per la classica rassegna Da Cannes a Roma, ospitata dal cinema Quattro fontane. Film molto diversi, alcuni dei quali parecchio originali, altri decisamente meno dirompenti.

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Le città di pianura

Il film con cui si apre la mia maratona è un film italiano, diretto da Francesco Sossai, che è stato presentato con un ottimo riscontro nell’ambito della sezione Un certain regard di Cannes. La proiezione romana è molto affollata, anche perché a presentare il film, oltre al critico Alberto Crespi, ci sono il regista e due dei protagonisti, Sergio Romano (che nel film è carlobianchi, detto proprio così, tutto attaccato, o anche Charlie White come affettuosamente lo chiama l’amico di una vita Doriano) e Filippo Scotti (già visto in È stata la mano di Dio, che qui interpreta il timido e studioso Giulio).

Le città di pianura si sviluppa nell’arco di circa un giorno e mezzo ed è fondamentalmente un on the road della provincia veneta nella quale i due amici carlobianchi e Doriano (Pierpaolo Capovilla) vagano alla ricerca di un ultimo bicchiere di alcol da scolarsi, comprato o scroccato. Li seguiamo dunque in questo loro vagare, a un certo punto apparentemente finalizzato ad andare a prendere in aeroporto il loro amico Genio (Andrea Pennacchi) che torna dal Sudamerica dove ha vissuto molti anni (scopriremo poi perché). Durante questo giorno e mezzo molte sono le avventure e le disavventure che li attendono, gli incontri più o meno assurdi, e tra questi incontri c’è quello con Giulio, studente napoletano che studia architettura a Venezia, timido e imbranato, che i due volponi decidono di trascinare con loro, anche suo malgrado.

Il film è una commedia dall’impianto se vogliamo piuttosto classico, ma che si inserisce più propriamente in tutto un filone di elaborazione culturale di provenienza veneta, che ha precisi tratti estetici e antropologici.

Non a caso il film di Sossai mi ha riportato quasi immediatamente all’estetica e ai contenuti dei fumetti di Miguel Vila, autore che con i suoi graphic novel ha raccontato benissimo la provincia veneta, con i suoi tipi umani e i suoi paesaggi urbani e rurali. Per lo stesso motivo non mi ha sorpreso trovare come autore di parte della colonna sonora (e anche in un piccolo cameo) Krano (Marco Spigariol) che quasi per caso avevo conosciuto nell’opening di un concerto di Micah P. Hinson e che ha un progetto musicale a matrice profondamente veneta anche nella lingua.

Ne viene fuori una specie di elegia veneta dal sapore fortemente agrodolce, intrisa in egual misura di malinconia e leggerezza. Esperimento davvero interessante.

Voto: 3,5/5



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Sirat

Ho scoperto solo al termine della visione del film che il regista di questo film, Oliver Laxe, è anche il regista di O que arde, che avevo visto qualche anno fa nell’ambito di un festival del cinema spagnolo. Quel film mi era risultato difficile da digerire nelle sue caratteristiche narrative, e probabilmente se avessi saputo questa cosa avrei deciso di non andare a vedere Sirat. E avrei fatto molto male.

Sirat è un film decisamente originale. Siamo in Marocco, nel deserto, ed è in corso un grande rave: enormi altoparlanti che trasmettono musica techno e centinaia di persone che si lasciano trasportare dal ritmo della musica. Un padre, Luis (Sergi Lopez), insieme al figlio Esteban è alla ricerca della figlia scomparsa cinque mesi prima. Ma mentre è in corso il rave, arriva l’esercito che annuncia l’inizio di una guerra e costringe tutti a seguirli verso non si sa dove. Due camioncini con a bordo cinque persone riescono a scappare via e Luis e il figlio li seguono. Inizia così un on the road che metterà questo gruppo di persone decisamente originali e curiosamente assortite di fronte a una serie di eventi più o meno tragici e incredibili che li costringeranno a fare i conti con i propri limiti e le proprie paure.

Quello di Laxe è un mondo preapocalittico, in parte atemporale, che sul piano visivo attinge tanto all’estetica di Mad Max, ma anche all’immaginario steampunk, per raccontare un viaggio esistenziale, che nella sua essenza è il viaggio di ogni essere umano di fronte al lutto e alla morte. Per farlo Laxe mescola diversi ingredienti: un insieme di personaggi con caratteristiche freak (ci sono un uomo senza una gamba, uno senza un braccio) di cui però – salvo qualche piccolo dettaglio – non sappiamo praticamente nulla della storia passata, così come niente sappiamo davvero di Luis ed Esteban; un paesaggio con una forza visiva straordinaria, che ispira grandezza, bellezza ma anche terrore della piccolezza umana di fronte alla natura; e infine una musica che unisce e alterna techno ed elettronica, quasi alla ricerca del suono primigenio del mondo, dell’essenza della vita e della morte, la stessa che i protagonisti sperimenteranno. Del resto Sirat nella cultura islamica è il ponte che unisce la vita alla morte, come la scritta in sovrimpressione all’inizio del film ci ricorda.

Un film strano, grandioso e weird al contempo, difficile da classificare, che merita però di essere visto. E non a caso ha vinto il premio della giuria a Cannes.

Voto: 3,5/5



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Partir, un jour

Cécile (Juliette Armanet) vive a Parigi e fa la chef. Dopo aver vinto un programma tipo Masterchef, insieme al suo compagno sta per aprire un ristorante che punta a un posto tra i ristoranti stellati. Quando scopre che suo padre è finito in ospedale ma, contro il parere dei medici, è uscito per riaprire la piccola trattoria per camionisti che gestisce insieme alla moglie, decide di ritornare a casa, tra l’altro avendo appena scoperto di essere incinta e sapendo di non voler tenere il bambino. Il ritorno a casa la metterà di fronte ai suoi conti in sospeso, alle cose che sono sempre uguali e che dunque aprono la porta dei ricordi di adolescenza e a quelle che sono ormai cambiate irrimediabilmente, nonché al rapporto con i suoi genitori che pure è rimasto in qualche modo bloccato nelle dinamiche del passato.

La nostalgia delle radici e di quello che avrebbe potuto essere – anche a fronte dei grandi cambiamenti che sembrano attendere Cécile – manda quasi in frantumi la vita da adulta che si è costruita, ma senza questa crisi profonda la donna non potrebbe tornare a quello che è diventata con maggiore consapevolezza, dopo aver in qualche modo fatto pace con il suo passato.

Il film di Amélie Bonnin è una tipica commedia francese, dalla trama e dagli sviluppi piuttosto prevedibili, che però è impreziosita dal fatto di essere in parte una commedia musicale in cui si attinge a un repertorio musicale francese per esprimere con ironia e leggerezza i sentimenti dei protagonisti nei momenti clou del film.

Nessuna grande pretesa per un film gradevole.

Voto: 3/5



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Enzo

Enzo è il film che Laurent Cantet aveva scritto prima della sua prematura scomparsa e che lo stesso regista francese ha affidato per la regia a Robin Campillo (quello di 120 battiti al minuto). Nonostante questo passaggio di testimone, personalmente ho vissuto Enzo interamente come un film di Cantet, non soltanto nei temi, ma anche nella modalità narrativa e nei ritmi. Che poi sono proprio le caratteristiche che a volte mi hanno fatto apprezzare i suoi film e altre volte me li hanno resi indigeribili.

Come è chiaro dal titolo, il protagonista di questo film è Enzo (Eloy Pohu), un ragazzo di 16 anni, secondo figlio di una famiglia molto benestante, che ha una villa con piscina, e il cui fratello maggiore si sta preparando per entrare all’università a Parigi. Enzo però è diverso, o quanto meno si sente diverso.

Ha deciso di non continuare a studiare e lavora come muratore in un cantiere; ha una ragazza, ma in realtà è attratto da Vlad, un operaio ucraino che lavora con lui. Nella sua casa e nella sua famiglia Enzo si sente un pesce fuor d’acqua e questa condizione evidentemente non è solo il portato dei suoi 16 anni e della tendenza oppositiva che caratterizza gli adolescenti. In lui c’è anche il rifiuto di un modo borghese di intendere la vita e soprattutto dell’indifferenza che lo stile di vita borghese comporta rispetto al resto del mondo, quello con cui i suoi genitori e suo fratello non vengono e non verranno mai in contatto.

Il malessere di Enzo aumenta giorno dopo giorno, portandolo allo scontro in particolare con il padre (Pierfrancesco Favino) e ad azioni più o meno estreme. Ma come in ogni coming of age che si rispetti, anche in questo film di Cantet il passaggio alla vita adulta comporterà per Enzo la scelta di un compromesso, sebbene – com’è tipico del linguaggio ellittico del regista francese - non sapremo mai come il protagonista riuscirà a bilanciare i suoi desideri e attitudini con il mondo dal quale proviene.

Voto: 3/5




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Jeunes mères

Concludo la mia maratona Da Cannes a Roma con l’ultimo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, Jeunes méres, che racconta la storia di quattro giovanissime donne, Jessica, Perla, Julie e Arianne, accomunate dal fatto di essere ospitate da una “maison maternelle”, quella che in Italia sarebbe una casa-famiglia per ragazze madri.

Ognuna si porta dietro la sua particolare vicenda: Jessica, che sta per partorire una bambina, è ossessionata dall’idea di incontrare sua madre e di chiederle perché l’ha data in affidamento quando è nata; Perla ha chiesto dei soldi in prestito a sua sorella per poter costruire una famiglia insieme a suo figlio Noé e al padre del bimbo, appena uscito di prigione; Julie ha un passato di dipendenza alle spalle e ora che ha un figlio sta cercando di uscirne e di sposarsi con il suo compagno, anche lui ex tossico; Arianne non ha abortito su pressione della madre, ma vorrebbe dare in affidamento la piccola per continuare a studiare e costruirsi un futuro.

I Dardenne hanno scritto la sceneggiatura di questo film dopo aver fatto una vera e propria indagine e una serie di interviste in una vera “maison maternelle” e, fedeli al loro approccio quasi documentaristico, si sono ispirati proprio alle storie che hanno ascoltato per scrivere questo film (che ha vinto il Premio per la miglior sceneggiatura a Cannes).

In questo racconto corale, in cui il punto di vista cambia continuamente spostandosi tra una storia e l’altra e tra una ragazza e l’altra, i Dardenne mantengono fede al loro approccio pulito ed essenziale, che vuole mostrare e comprendere, senza giudicare e senza premere sul pedale del melodramma. Qua e là però introducono elementi che staccano rispetto all’impianto “neorealistico”, come la recitazione di una poesia o una piccola esecuzione musicale.

E come ho pensato e detto subito dopo la fine del film, mi è parso che rispetto al passato questo lavoro – nonostante la tragicità dei temi trattati – sia uno dei film più pieni di speranza dei Dardenne!

Voto: 3,5/5


martedì 22 luglio 2025

La suite / Giovana Madalosso

La suite / Giovana Madalosso; trad. dal portoghese di Sara Cavarero. Roma: edizioni e/o, 2024.

Il romanzo della scrittrice brasiliana Giovana Madalosso mi è stato prima consigliato dalla mia amica A. e poi ne ho sentito parlare in un podcast dell’Internazionale e mi sono definitivamente convinta a comprarlo e a leggerlo.

Siamo a San Paolo. Fernanda e Cacà hanno una bambina di nome Cora. Fernanda è una donna in carriera e per poter fare un salto lavorativo offre a Maju, la bambinaia, un impegno lavorativo più lungo e una sistemazione nella suite di casa, che fa rinnovare appositamente.

Una mattina come qualunque altra, in cui Maju deve accompagnare Cora in piscina, la bambinaia decide di rapire la piccola portandola con sé nel piccolo paese al di là del confine dal quale proviene e crescerla come fosse sua figlia.

Quando scatta l’allarme, Fernanda è con la sua amante, una videomaker che ha conosciuto per lavoro e che ha risvegliato in lei la passione e la voglia di avventure che si erano completamente offuscate nel rapporto con suo marito.

Da qui in poi seguiamo, capitolo dopo capitolo, da un lato la linea narrativa che vede come protagonista Maju nel suo tentativo di fuggire via con Cora, dall’altro quella che segue i pensieri e le azioni di Fernanda, guardando il tempo non solo scorrere in avanti, ma anche risalendo agli eventi che hanno fatto precipitare la situazione nella vita di Fernanda e che hanno spinto Maju al gesto sconsiderato.

A confronto due donne che non solo appartengono a due classi sociali diverse, ma che sono agli antipodi da ogni punto di vista: Maju perfetta rappresentante di un mondo arcaico e contadino che crede nei valori tradizionali, nella religione, nelle relazioni e vive con profonda frustrazione il fatto di non essere madre, riversando sulla piccola Cora tutto il suo istinto materno; Fernanda è ambiziosa, libertina, ossessionata dal lavoro, insofferente della routine e delle regole sociali, completamente autoreferenziale e vive la sua maternità con fatica e senza entusiasmo, sebbene anche con qualche senso di colpa.

La scomparsa di Cora è l’inizio di un processo di deflagrazione nelle vite di entrambe: per Maju è un salto verso l’ignoto, una decisione rischiosa e avventata che ben presto si rivelerà in tutte le sue difficoltà e assurdità; per Fernanda è una specie di brusco risveglio alla realtà, l’occasione per fare i conti con quello che si nasconde dietro la passione per Yara, con il fallimento del suo matrimonio, con la necessità di dire la verità, ma è anche la condizione forse più dolorosa per rendersi conto del legame profondo con Cora, della sua quasi inevitabile maternità, che è una condizione che le appartiene nonostante tutto.

Il romanzo di Giovana Madalosso è un’avventura emotiva densa e stratificata, fatta di tanti registri diversi che si muovono con grazia e leggerezza tra una dimensione più ironica e una più drammatica, in cui la tensione cresce progressivamente fino allo scioglimento finale.

Per me una bellissima scoperta e uno di quei libri che periodicamente mi riconciliano con la lettura.

Voto: 3,5/5

domenica 20 luglio 2025

La guerra di Catherine / Julia Billet e Claire Fauvel

La guerra di Catherine / Julia Billet e Claire Fauvel; trad. di Elena Orlandi. Milano: Mondadori, 2017.

Torno a questo graphic novel a distanza di molto tempo da quando l’avevo comprato.

Allora l’acquisto era stato fatto sulla base del suggerimento di S. ma alla fine il volume era rimasto sullo scaffale. Il mio rinnovato entusiasmo per la fotografia di questi ultimi mesi mi ha attirato verso la copertina di questo albo che rappresenta una giovane donna con una rolleiflex in mano.

Siamo negli anni della Francia occupata dai nazisti: Rachel è una giovane ebrea che frequenta la Maison d'enfants di Sèvres, una scuola molto particolare – esistita veramente - dove venivano adottati metodi didattici innovativi e dove si accoglievano ragazzi di ogni provenienza religiosa e sociale.

Qui Rachel collabora con il laboratorio fotografico, non solo scattando fotografie bensì anche sviluppandole nella camera oscura.

Purtroppo l’inasprirsi delle persecuzioni nei confronti degli ebrei costringe i responsabili della scuola ad adottare una serie di strategie per proteggere i loro studenti: molti di loro devono cambiare nome e prendere documenti falsi per sfuggire ai rastrellamenti, ma quando questa soluzione non è più sufficiente molti devono abbandonare la scuola e spostarsi presso famiglie o persone che si offrono di ospitarli e proteggerli.

Accade così che Rachel diventa Catherine e comincia a girare per la Francia, senza mai però separarsi dalla sua macchina fotografica e continuando non solo a scattare ma anche a cercare laboratori dove sviluppare le sue foto. Questo le permetterà di mantenere il suo sguardo vivo e attento sul mondo, di intessere relazioni e dunque di sopravvivere ai momenti peggiori fino alla liberazione della Francia.

L’albo di Julia Billet e Claire Fauvel, ispirato a una storia vera, ha vinto il premio Andersen nel 2018, e certamente, sia dal punto di vista grafico che dei contenuti, sembra destinato primariamente a un pubblico di ragazzi.

Devo dire però che si tratta di una lettura intensa, senza essere melodrammatica e patetica, e dunque adatta anche a un pubblico adulto. A me è piaciuto.

Voto: 3,5/5

mercoledì 16 luglio 2025

Daniel Norgren. Monk, 19 giugno 2025

Senza il successo del film Le otto montagne (che tra l’altro io continuo a non aver visto), probabilmente Daniel Norgren sarebbe rimasto praticamente sconosciuto per il pubblico italiano, salvo probabilmente una piccola nicchia di appassionati.

E invece la scelta dei registi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch di utilizzare alcune sue canzoni, tra cui la ormai famosissima As Long As We Last presente nell’album Alabursky, per raccontare l’amicizia dei protagonisti del film (e ovviamente del libro di Cognetti) ha fatto conoscere più diffusamente il cantautore svedese, in particolare al pubblico italiano, che infatti sta riempiendo i club del suo tour estivo.

Io lo vado ad ascoltare insieme a F. al mio amato Monk, anche se la sala teatro che d’inverno è un nido caldo e accogliente d’estate diventa una specie di girone infernale a causa del caldo.

Dopo aver mangiato qualcosa in giardino e aver incrociato Norgren che faceva delle foto con dei fans, entriamo in sala subito all’apertura della stessa in modo da posizionarci come al solito sotto il palco. In questo caso non c’è nemmeno il corridoio dei fotografi, quindi siamo praticamente addosso al palco, ingombro di strumenti musicali: un vecchio pianoforte verticale sulla sinistra, delle chitarre appoggiate dallo stesso lato, la batteria al centro in fondo, un contrabbasso e un basso, e a destra un angolo tastiere e sintetizzatori, oltre ovviamente a casse e pedaliere.

Intorno alle dieci salgono sul palco Norgren e i componenti della sua band, Erik Berntsson alla batteria, Anders Grahn al contrabbasso e al basso, Anders Rane alle tastiere, sintetizzatori e flauti.

Per l’esecuzione delle prime canzoni Norgren – che è un omone di oltre due metri – si posiziona al pianoforte, cosicché noi lo vediamo solo di spalle; poi nel corso della serata si alterneranno canzoni che accompagna con il pianoforte e altre con le due chitarre elettriche, così come gli altri musicisti si muoveranno tra i vari strumenti che hanno in gestione. Mi colpisce in particolare il musicista alle tastiere e sintetizzatori, che è vestito con una salopette arancione e ha degli zoccoli svedesi tradizionali ai piedi e dimostra una straordinaria versatilità nonché bravura agli strumenti che suona.

In generale il concerto, che attraversa la produzione di Norgren tra canzoni a noi più note e altre meno note, è fatto soprattutto di arrangiamenti e di atmosfere che rivelano le qualità musicali di questo gruppo e ovviamente di Norgren, nonché la multiformità della sua musica che sarebbe riduttivo definire “alternative folk”.

Durante tutta la durata del concerto Norgren e i suoi ci trascinano attraverso ritmi e sonorità diversi che oscillano tra folk, blues, rock e sonorità ispirate a tradizioni musicali molto differenti (un tempo si diceva world music). Ne viene fuori un concerto non solo coerente, ma affascinante e quasi ipnotico, mentre Norgren ci parla di natura, di amori, di relazioni, di alberi e di boschi.

All’uscita dal palco il pubblico, entusiasta, vorrebbe ancora qualcosa. E così dopo un forsennato battimani Norgren e i suoi rientrano per quella che è una vera e propria ninna nanna con cui tutti andiamo a casa felici.

Un concerto di alto livello, di quelli che ti fanno amare la musica dal vivo e rendono l’esperienza di ascolto qualcosa di completamente diverso dall’ascolto della musica registrata. Una specie di partecipazione con tutti i sensi che ci si porta dietro a lungo.

Voto: 4/5