Ed eccomi al film che ha suscitato scalpore e polemica al Festival del cinema di Venezia, dove per moltissimi avrebbe dovuto vincere il Leone d’oro al posto di quello di Jim Jarmusch; e qualcuno dice che anche all’interno della giuria ci sia stata molta conflittualità in proposito.
Per come la vedo io, i film si possono analizzare e valutare da due punti di vista: uno è quello più strettamente tecnico e cinematografico, l’altro è quello della forza narrativa e del significato. Secondo me, di solito accade che quando queste due cose sono entrambe riuscite e dialogano armonicamente tra di loro, siamo di fronte a un gran film, e – rare volte – a un capolavoro (parola ormai fortemente abusata).
Ci sono poi dei film che vengono realizzati in momenti storici particolari, nei quali il messaggio e la testimonianza del film assumono un significato prevalente, e in questi casi diventa difficile – soprattutto in questi tempi di polarizzazione spinta – esprimere un punto di vista più complessivo e che in parte prescinda dal significato del film. The voice of Hind Rajab si colloca esattamente in questa categoria.
Il film di Kaouther Ben Hania – che ha vinto comunque il Leone d’argento a Venezia – è un prodotto cinematografico che si colloca a metà strada tra un documentario e un film di finzione. Il film ricostruisce quanto avvenuto nella sala di controllo della Mezzaluna rossa (in pratica la Croce rossa palestinese) il 29 gennaio 2024, utilizzando le registrazioni originali degli audio. Prima arriva la telefonata di Liyan Hamada, una quindicenne di Gaza la quale è in macchina con la sua famiglia e la cugina di cinque anni Hind Rajab nel tentativo di spostarsi in un’altra zona della Striscia a seguito dell’ordine israeliano di evacuazione. L’auto subisce l’attacco di un carro armato israeliano che uccide Liyan dopo la prima telefonata; a quel punto è Hind Rajab a rimanere in contatto con gli operatori della Mezzaluna rossa per le successive tre ore, nel difficile tentativo – a causa dei vincoli e delle limitazioni imposti ai movimenti proprio da Israele e dalla conseguente, complessa burocrazia in cui si muovonp soggetti internazionali che operano nella zona - di far arrivare un’ambulanza in prossimità della macchina. Alla fine, sotto il fuoco dell’esercito israeliano non si salveranno né la bambina, né gli operatori dell’ambulanza nel frattempo arrivati sul luogo.
The voice of Hind Rajab, un po’ come il film No other land, è uno straziante documento storico, che rimane a testimonianza imperitura di quello che accade nella Striscia di Gaza, della disumanità e delle atrocità che vi avvengono quotidianamente da tempo, e non solo in questi ultimi mesi. È anche un film a suo modo equilibrato, che non cerca martiri ed eroi a tutti i costi, bensì è attento alla complessità dell’umano.
In questo senso, resta un film importante che tutti dovrebbero vedere, anche se – come già gli eventi hanno dimostrato – in un’epoca come la nostra, chi vuole interpretare questo film in maniera diversa e ricondurlo, in buona o in cattiva fede, alla propria visione del mondo, ci riesce in ogni caso.
Dall’altro punto di vista citato in principio di questa recensione, ossia quello strettamente cinematografico, non posso dire però che il film mi abbia colpito particolarmente. È un ottimo film, ben fatto e ben girato, che fa bene il suo lavoro, e che tiene molto ben in equilibrio documenti e finzione, ma in un modo che per me non è risultato del tutto sorprendente. Da questo punto di vista, avevo trovato No other land molto più dirompente, forse anche e proprio per la sua disomogeneità interna, per la varietà del ritmo e dell’approccio. Si tratta evidentemente di film completamente diversi, tra i quali non ha senso fare confronti. La mia è dunque in questo caso solo una preferenza cinematografica del tutto personale.
Voto: 3,5/5
sabato 4 ottobre 2025
mercoledì 1 ottobre 2025
Da Venezia a Roma. Parte 2: A house of dynamite; Father, mother, sister, brother; A pied d’oeuvre;
Per la prima parte delle recensioni vedi qui.
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A house of dynamite
Kathryn Bigelow mancava all’appuntamento con il cinema da diversi anni e, almeno per quanto mi riguarda, Detroit mi era passato praticamente inosservato, mentre avevo visto e apprezzato The hurt locker e Zero Dark Thirty.
Con A house of dynamite la regista statunitense torna alle atmosfere proprio di quei film, raccontando con grandissima perizia registica e appoggiandosi a una sceneggiatura di tutto rispetto, un inizio di giornata nel quale gli Stati Uniti si accorgono che un missile – forse nucleare – partito dal Pacifico sta sorvolando il territorio statunitense e la sua traiettoria punta su Chicago.
Il pochissimo tempo che passa tra i minuti prima di questa scoperta e la durata del volo del missile è raccontato più volte, in una struttura narrativa ciclica e ricorsiva, dal punto di vista di diversi protagonisti che ruotano intorno alla Casa Bianca e agli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.
Il ritmo è adrenalinico, sia nel tentativo di abbattere il missile mediante altri missili inviati da terra, sia nel processo decisionale che si muove intorno a questo evento e che coinvolge numerose persone, ma che alla fine converge su colui a cui spetta l’ultima parola, il Presidente, investito della scelta di contrattaccare senza avere la certezza che effettivamente l’evento sia un attacco né chi lo stia sferrando, o di attendere esponendosi all’opinione pubblica e alle conseguenze a livello globale dopo il disastro dell’impatto.
Non è la fine della storia che interessa alla Bigelow, ma – come le poche scritte all’inizio del film ci ricordano – la situazione di incertezza mondiale in cui il mondo intero è ricaduto quando la scelta di abbandonare i programmi atomici per un mondo più sicuro è stata messa da parte e il mondo è tornato a essere una “casa piena di dinamite”, pronta a esplodere in qualunque momento e non necessariamente per ragioni sensate.
Si esce col fiato corto dal film della Bigelow, con la testa piena di domande e il cuore pieno di paure, soprattutto perché sappiamo che in questo momento in molte parti del mondo molti dei leader che devono prendere le decisioni di fronte a situazioni di potenziale pericolo sono persone irresponsabili e prive di quella statura umana e morale che, tanto più in un momento delicato come questo, sarebbe necessaria.
Un film intrinsecamente e profondamente americano, che non piacerà a chi non ama questo stile, ma che dal mio punto di vista coglie nel segno, anche nella scelta del linguaggio.
Voto: 3,5/5
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Father, mother, sister, brother
Tre luoghi: il New Jersey, Dublino e Parigi. Tre famiglie: due figli (Adam Driver e Mayim Bialik) che vanno a trovare il padre (Tom Waits) il quale abita in una casa isolata che si affaccia su un laghetto tra i boschi; due figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps) che si ritrovano una volta all’anno per il te pomeridiano alla casa della madre (Charlotte Rampling); una sorella e un fratello gemelli (Indya Moore e Luka Sabbat) che, dopo la morte dei genitori, tornano insieme nella casa che avevano abitato insieme a loro e che nel frattempo è stata svuotata.
L’ultimo film di Jim Jarmusch, che ha vinto il Leone d’oro all’ultimo festival del cinema di Venezia, è strutturato dunque in tre episodi, in cui ci sono alcuni elementi che ricorrono (uno su tutti, la presenza di skaters che a un certo punto attraversano le strade percorse dai protagonisti, ma anche i brindisi con l’acqua, i colori degli abiti e altri dettagli), ma che sono narrativamente indipendenti l’uno dall’altro, sebbene con un tema di fondo comune: la famiglia, o – per essere più precisi – la negazione del luogo comune che i tuoi familiari sono quelli che ti conoscono meglio di tutti.
Perché la verità – sembra dirci Jarmusch, e io sono d’accordo con lui – è che in nessun contesto più che nella famiglia i rapporti tra le persone sono falsati dalle aspettative, dal pregiudizio, dall’immagine che ciascuno si è costruito dell’altro e che è difficile smontare senza mettere in discussione equilibri già fragili.
E tutto questo Jarmusch ce lo racconta con pennellate leggere, com’è nel suo stile, attraverso dialoghi il cui obiettivo non è quello di farci conoscere i dettagli, di spiegare, bensì solo di farci intuire, pensare, sorridere, sviluppare una forma di empatia.
Un film in sordina, dunque, che non so se è all’altezza del Leone d’oro, ma che merita di essere visto.
Voto: 3,5/5
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A pied d’oeuvre
Tratto dall’omonimo romanzo di Franck Courtès, il nuovo film di Valérie Donzelli, regista francese che ha già molti film all’attivo anche se personalmente non ne ho visti tanti, racconta la storia di Paul (il bravissimo Bastien Bouillon), ex fotografo di successo, con ex moglie e due figli, che ha deciso di abbandonare la professione di fotografo per fare lo scrittore e ha già pubblicato alcuni libri.
Pur ben accolti dalla critica, i libri però non gli garantiscono un introito sufficiente per una vita dignitosa; così Paul si iscrive su una piattaforma in cui domanda di lavoro e offerta si incontrano sul principio di chi offre di meno per svolgere il medesimo compito.
Paul si ritrova così a fare tanti lavoretti (smontare un soppalco, fare giardinaggio, svuotare una cantina, accompagnare in macchina qualcuno all’aeroporto), spesso faticosi fisicamente, ma che comunque non gli danno il sostentamento sufficiente e lo conducono sulla china della povertà, circondato da parenti e amici che non capiscono le sue scelte e non le condividono.
Nonostante tutto, e forse dopo aver toccato il fondo, riuscirà a scrivere un nuovo romanzo, A pied d’oeuvre appunto, che lo riporterà alla ribalta, ma nella consapevolezza ormai acquisita che nel mondo odierno non si vive di scrittura e forse non si vive nemmeno dei lavoretti che la società postcapitalista lascia cadere come briciole dalla sua tavola a vantaggio di un branco di cani affamati.
C’è una componente parzialmente consolatoria nella parte finale del film, che è quella che mi ha fatto scendere anche una lacrimuccia ma che forse ho anche trovato la parte meno appropriata.
Nondimeno il film di Valérie Donzelli (e il libro da cui è tratto) affronta con precisione e grazia il tema del lavoro nella società contemporanea, le storture di un sistema in cui – come dice il protagonista – il padrone non deve più preoccuparsi degli operai, perché ci sono molti altri meccanismi, ben più anonimi, che tengono questi ultimi in posizione di minorità e inferiorità. E così, il lavoro creativo torna a essere un lusso che, come in altre epoche storiche, solo pochissimi possono permettersi, a meno di non essere disponibili a un calvario come quello del protagonista di questo film.
Bravi i francesi che sanno ancora raccontare la nostra società in questo modo così brillante e chirurgico al contempo.
Voto: 3,5/5
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No other choice
Non sono una cultrice di Park Chan-Wook fin dalle origini, e ho perso alcuni dei suoi capolavori, quelli che hanno segnato un’epoca e l’inizio di un vero e proprio genere.
Da quando, dunque, lo seguo, mi sono trovata di fronte a versioni del suo cinema molto diverse le une dalle altre, da Mademoiselle a Decision to leave (quest’ultimo per me molto bello), e ora a questo No other choice, con cui si torna ai canoni del suo cinema più proprio.
Man-su (Byung-Hun Lee), il protagonista di questo racconto, ha una bella casa (la sua d’infanzia che ha riacquistato e ristrutturato), una moglie bella e fedele, un figliastro adolescente, una figlia più piccola con un talento per il violoncello, due labrador, e soprattutto un lavoro di caporeparto in un’azienda che produce carta, lavoro che ama molto e in cui ha raggiunto livelli di specializzazione elevati.
Tutto questo crolla in un sol colpo quando Man-su viene licenziato e la ricerca di un nuovo lavoro che possa valorizzare la sua specializzazione si rivela ben più difficile di quello che immagina.
Di fronte al rischio di vendere la casa e di perdere i suoi affetti, Man-su decide di giocarsi il tutto per tutto, eliminando a uno a uno i suoi più diretti concorrenti nella competizione per il nuovo lavoro.
No other choice è tratto dal libro The ax di Donald E. Westlake del 1997, quindi un romanzo che – soprattutto in riferimento al mondo del lavoro che è quello su cui si focalizza – si potrebbe considerare ormai datato e che però Park Chan-Wook riesce a mantenere in bilico tra temi universali e senza tempo e affondi nel presente della società sudcoreana e più in generale del mondo occidentale.
Ovviamente lo fa a suo modo, scegliendo il linguaggio del grottesco, del pulp, dell’ironia, del nonsense, dell’accumulazione, il che produce un film a tratti strabordante, che ci rimanda indietro un mondo che in parte ci appare un po’ estraneo, ma che per altri versi ci restituisce – sebbene esasperati – i tratti della nostra realtà e della nostra contemporaneità.
Non esattamente il mio genere di film, ma un film che non passa e non passerà inosservato.
Voto: 3,5/5
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Kathryn Bigelow mancava all’appuntamento con il cinema da diversi anni e, almeno per quanto mi riguarda, Detroit mi era passato praticamente inosservato, mentre avevo visto e apprezzato The hurt locker e Zero Dark Thirty.
Con A house of dynamite la regista statunitense torna alle atmosfere proprio di quei film, raccontando con grandissima perizia registica e appoggiandosi a una sceneggiatura di tutto rispetto, un inizio di giornata nel quale gli Stati Uniti si accorgono che un missile – forse nucleare – partito dal Pacifico sta sorvolando il territorio statunitense e la sua traiettoria punta su Chicago.
Il pochissimo tempo che passa tra i minuti prima di questa scoperta e la durata del volo del missile è raccontato più volte, in una struttura narrativa ciclica e ricorsiva, dal punto di vista di diversi protagonisti che ruotano intorno alla Casa Bianca e agli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.
Il ritmo è adrenalinico, sia nel tentativo di abbattere il missile mediante altri missili inviati da terra, sia nel processo decisionale che si muove intorno a questo evento e che coinvolge numerose persone, ma che alla fine converge su colui a cui spetta l’ultima parola, il Presidente, investito della scelta di contrattaccare senza avere la certezza che effettivamente l’evento sia un attacco né chi lo stia sferrando, o di attendere esponendosi all’opinione pubblica e alle conseguenze a livello globale dopo il disastro dell’impatto.
Non è la fine della storia che interessa alla Bigelow, ma – come le poche scritte all’inizio del film ci ricordano – la situazione di incertezza mondiale in cui il mondo intero è ricaduto quando la scelta di abbandonare i programmi atomici per un mondo più sicuro è stata messa da parte e il mondo è tornato a essere una “casa piena di dinamite”, pronta a esplodere in qualunque momento e non necessariamente per ragioni sensate.
Si esce col fiato corto dal film della Bigelow, con la testa piena di domande e il cuore pieno di paure, soprattutto perché sappiamo che in questo momento in molte parti del mondo molti dei leader che devono prendere le decisioni di fronte a situazioni di potenziale pericolo sono persone irresponsabili e prive di quella statura umana e morale che, tanto più in un momento delicato come questo, sarebbe necessaria.
Un film intrinsecamente e profondamente americano, che non piacerà a chi non ama questo stile, ma che dal mio punto di vista coglie nel segno, anche nella scelta del linguaggio.
Voto: 3,5/5
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Tre luoghi: il New Jersey, Dublino e Parigi. Tre famiglie: due figli (Adam Driver e Mayim Bialik) che vanno a trovare il padre (Tom Waits) il quale abita in una casa isolata che si affaccia su un laghetto tra i boschi; due figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps) che si ritrovano una volta all’anno per il te pomeridiano alla casa della madre (Charlotte Rampling); una sorella e un fratello gemelli (Indya Moore e Luka Sabbat) che, dopo la morte dei genitori, tornano insieme nella casa che avevano abitato insieme a loro e che nel frattempo è stata svuotata.
L’ultimo film di Jim Jarmusch, che ha vinto il Leone d’oro all’ultimo festival del cinema di Venezia, è strutturato dunque in tre episodi, in cui ci sono alcuni elementi che ricorrono (uno su tutti, la presenza di skaters che a un certo punto attraversano le strade percorse dai protagonisti, ma anche i brindisi con l’acqua, i colori degli abiti e altri dettagli), ma che sono narrativamente indipendenti l’uno dall’altro, sebbene con un tema di fondo comune: la famiglia, o – per essere più precisi – la negazione del luogo comune che i tuoi familiari sono quelli che ti conoscono meglio di tutti.
Perché la verità – sembra dirci Jarmusch, e io sono d’accordo con lui – è che in nessun contesto più che nella famiglia i rapporti tra le persone sono falsati dalle aspettative, dal pregiudizio, dall’immagine che ciascuno si è costruito dell’altro e che è difficile smontare senza mettere in discussione equilibri già fragili.
E tutto questo Jarmusch ce lo racconta con pennellate leggere, com’è nel suo stile, attraverso dialoghi il cui obiettivo non è quello di farci conoscere i dettagli, di spiegare, bensì solo di farci intuire, pensare, sorridere, sviluppare una forma di empatia.
Un film in sordina, dunque, che non so se è all’altezza del Leone d’oro, ma che merita di essere visto.
Voto: 3,5/5
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Tratto dall’omonimo romanzo di Franck Courtès, il nuovo film di Valérie Donzelli, regista francese che ha già molti film all’attivo anche se personalmente non ne ho visti tanti, racconta la storia di Paul (il bravissimo Bastien Bouillon), ex fotografo di successo, con ex moglie e due figli, che ha deciso di abbandonare la professione di fotografo per fare lo scrittore e ha già pubblicato alcuni libri.
Pur ben accolti dalla critica, i libri però non gli garantiscono un introito sufficiente per una vita dignitosa; così Paul si iscrive su una piattaforma in cui domanda di lavoro e offerta si incontrano sul principio di chi offre di meno per svolgere il medesimo compito.
Paul si ritrova così a fare tanti lavoretti (smontare un soppalco, fare giardinaggio, svuotare una cantina, accompagnare in macchina qualcuno all’aeroporto), spesso faticosi fisicamente, ma che comunque non gli danno il sostentamento sufficiente e lo conducono sulla china della povertà, circondato da parenti e amici che non capiscono le sue scelte e non le condividono.
Nonostante tutto, e forse dopo aver toccato il fondo, riuscirà a scrivere un nuovo romanzo, A pied d’oeuvre appunto, che lo riporterà alla ribalta, ma nella consapevolezza ormai acquisita che nel mondo odierno non si vive di scrittura e forse non si vive nemmeno dei lavoretti che la società postcapitalista lascia cadere come briciole dalla sua tavola a vantaggio di un branco di cani affamati.
C’è una componente parzialmente consolatoria nella parte finale del film, che è quella che mi ha fatto scendere anche una lacrimuccia ma che forse ho anche trovato la parte meno appropriata.
Nondimeno il film di Valérie Donzelli (e il libro da cui è tratto) affronta con precisione e grazia il tema del lavoro nella società contemporanea, le storture di un sistema in cui – come dice il protagonista – il padrone non deve più preoccuparsi degli operai, perché ci sono molti altri meccanismi, ben più anonimi, che tengono questi ultimi in posizione di minorità e inferiorità. E così, il lavoro creativo torna a essere un lusso che, come in altre epoche storiche, solo pochissimi possono permettersi, a meno di non essere disponibili a un calvario come quello del protagonista di questo film.
Bravi i francesi che sanno ancora raccontare la nostra società in questo modo così brillante e chirurgico al contempo.
Voto: 3,5/5
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Non sono una cultrice di Park Chan-Wook fin dalle origini, e ho perso alcuni dei suoi capolavori, quelli che hanno segnato un’epoca e l’inizio di un vero e proprio genere.
Da quando, dunque, lo seguo, mi sono trovata di fronte a versioni del suo cinema molto diverse le une dalle altre, da Mademoiselle a Decision to leave (quest’ultimo per me molto bello), e ora a questo No other choice, con cui si torna ai canoni del suo cinema più proprio.
Man-su (Byung-Hun Lee), il protagonista di questo racconto, ha una bella casa (la sua d’infanzia che ha riacquistato e ristrutturato), una moglie bella e fedele, un figliastro adolescente, una figlia più piccola con un talento per il violoncello, due labrador, e soprattutto un lavoro di caporeparto in un’azienda che produce carta, lavoro che ama molto e in cui ha raggiunto livelli di specializzazione elevati.
Tutto questo crolla in un sol colpo quando Man-su viene licenziato e la ricerca di un nuovo lavoro che possa valorizzare la sua specializzazione si rivela ben più difficile di quello che immagina.
Di fronte al rischio di vendere la casa e di perdere i suoi affetti, Man-su decide di giocarsi il tutto per tutto, eliminando a uno a uno i suoi più diretti concorrenti nella competizione per il nuovo lavoro.
No other choice è tratto dal libro The ax di Donald E. Westlake del 1997, quindi un romanzo che – soprattutto in riferimento al mondo del lavoro che è quello su cui si focalizza – si potrebbe considerare ormai datato e che però Park Chan-Wook riesce a mantenere in bilico tra temi universali e senza tempo e affondi nel presente della società sudcoreana e più in generale del mondo occidentale.
Ovviamente lo fa a suo modo, scegliendo il linguaggio del grottesco, del pulp, dell’ironia, del nonsense, dell’accumulazione, il che produce un film a tratti strabordante, che ci rimanda indietro un mondo che in parte ci appare un po’ estraneo, ma che per altri versi ci restituisce – sebbene esasperati – i tratti della nostra realtà e della nostra contemporaneità.
Non esattamente il mio genere di film, ma un film che non passa e non passerà inosservato.
Voto: 3,5/5
domenica 28 settembre 2025
Da Venezia a Roma. Parte 1: A sad and beautiful world; Memory; Toni, mio padre; Human resource
Ed eccomi all’ormai classico appuntamento delle anteprime dei film del Festival di Venezia a Roma, atteso ogni anno con grande trepidazione. Anche quest’anno faccio una bella abbuffata di film, da cui esco molto contenta per aver visto opere importanti e meno importanti, che però quasi tutte mi hanno lasciato qualcosa dentro. Guerre e mondo del lavoro mi sono sembrati i temi trasversali alla rassegna, almeno per quanto riguarda i film che ho visto io; il cinema si conferma ancora mezzo immerso nella realtà e capace di raccontare con complessità i nostri tempi difficili.
(La seconda parte delle recensioni è qui)
(La seconda parte delle recensioni è qui)
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A sad and beautiful world
Il regista libanese Cyril Aris, classe 1987, ci propone una storia d’amore dall’impianto piuttosto classico: Nino (Hassan Akil) e Yasmina (Mounia Akl) nascono lo stesso giorno a pochi minuti di distanza l'uno dall'altro, in una Beirut che è attraversata dalla guerra civile e che già vive sotto i bombardamenti. Il loro è un destino segnato: frequentano la scuola insieme, diventano amici e “fidanzati”, si fanno delle promesse, ma a seguito della separazione dei suoi genitori, Yasmina è costretta a seguire la madre e ad allontanarsi dal padre e da Nino. Si rincontrano da adulti a causa di un incidente. Nel frattempo Nino ha aperto un ristorante in cui rivisita la cucina libanese in un’ottica internazionale, Yasmina è una donna in carriera. Torneranno insieme, faranno una figlia, ma la loro vita oscillerà sempre tra momenti di felicità e leggerezza – anche grazie al carattere giocoso di Nino – e momenti di difficoltà e paura per il futuro.
Il film di Aris si presenta formalmente ineccepibile (molto bella la fotografia e i due attori bravi e magnetici), ma piuttosto convenzionale nello sviluppo narrativo e anche sostanzialmente prevedibile. È evidente però che Nino e Yasmina sono per il regista soltanto l’occasione di parlare del Libano e nello specifico di Beirut, che è il vero oggetto d’amore di questa storia.
Avevo da poco letto il graphic novel Un’educazione orientale, anch’esso incentrato sulla città di Beirut, e in A sad and beautiful world ho ritrovato lo stesso afflato, un rapporto viscerale con la città, che spesso è anche la causa dei conflitti familiari – come nel caso di Nino e Yasmina - tra chi manifesta un attaccamento che va al di là dei conflitti, della situazione economica, delle distruzioni, e chi invece non ce la fa più e vorrebbe andare via, pur con la morte nel cuore.
Non un film memorabile, ma che in qualche modo ci aiuta a entrare nel vissuto e nei sentimenti contraddittori dei libanesi che anelano semplicemente a una vita normale.
Voto: 3/5
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Memory
Presentato a Venezia nell’ambito delle Giornate degli autori, il film Memory della regista ucraina Vladena Sandu attinge alla propria autobiografia e ai propri ricordi per raccontare la storia di una bambina la cui esistenza è divisa tra la terra di nascita, la Crimea, allora facente parte dell’URSS, e quella dove ha vissuto parte della propria infanzia e adolescenza, ossia la Cecenia.
La scelta della regista è quella di mescolare un approccio propriamente documentaristico, che utilizza materiale fotografico e audiovisivo proveniente dal suo archivio personale e da quello della sua famiglia, con un girato di finzione che ha come protagonista un’attrice bambina. La narrazione è realizzata, oltre che dalle immagini che scorrono sullo schermo, dal voice over della stessa regista che racconta e, in un certo senso, spiega le immagini che vediamo passare sullo schermo.
Ne viene fuori un interessante pastiche di generi, che a tratti sconfina in vera e propria installazione multimediale, in alcuni casi sorprendente, in altri casi spiazzante. Attraverso questa scelta piuttosto originale, attraversiamo la storia di territori che, dopo essere stati per lunghissimo tempo parte dell’URSS, a seguito dello sfaldamento di quest’ultima dichiararono la propria indipendenza, nel caso specifico l’Ucraina e la Cecenia. Se quest’ultima, dopo la guerra di indipendenza (1994-1996), fu subito oggetto di riconquista russa attraverso una lunga e sanguinosa guerra durata dal 1999 al 2009, la vicenda ucraina è sotto gli occhi di tutti, ma la Crimea nello specifico è un territorio conteso che nel 2014 la Russia ha riannesso.
Il racconto di Vladena Sandu registra la grande storia, ma non è quella l’oggetto della narrazione, bensì il punto di vista di una bambina che cerca di interpretare una realtà che non comprende, che si trova trascinata in dispute e conflitti, che a poco a poco scopre verità, e soprattutto riconosce una spirale di violenza, una ricorsività della sopraffazione che non colpisce solo i popoli, ma mette gli individui gli uni contro gli altri e lascia i segni sulle vite individuali.
Una visione quella di Memory faticosa, soprattutto a causa del voice over piuttosto monotonale, che a tratti culla come una ninna nanna, ma che apre squarci di verità e “bellezza” su mondi di cui ci arriva l’eco ma che facciamo fatica a comprendere fino in fondo.
Voto: 3/5
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Toni, mio padre
La mia due giorni al Cinema Farnese per le Giornate degli autori si conclude con il documentario Toni, mio padre che Anna Negri ha realizzato negli anni prima della morte di suo padre, Toni Negri (scomparso nel 2023) e presentato a Venezia quest’anno.
Il documentario racconta la storia di Toni Negri, giovane e brillante professore di filosofia all’Università di Padova, che fu tra i teorici della sinistra extraparlamentare italiana tra gli anni Sessanta e Settanta e nel 1979 venne arrestato come teorico delle Brigate rosse, accusa dalla quale venne infine prosciolto, ma che lo costrinse a una lunga carcerazione e successivamente all’esilio in Francia.
Ma nel film della figlia Anna, in sala per il Q&A, pur essendo presente la vicenda umana e politica del padre, inscindibile del resto dalla sua persona, c’è soprattutto la dialettica tra un padre e una figlia, tra una generazione e un’altra, tra un approccio alla vita e un altro, dialettica che spesso si trasforma in conflitto, in tentativo – non sempre riuscito – di comprendersi, in riconoscimento degli errori e delle contraddizioni umane e politiche.
Il documentario di Anna Negri, la cui ossatura di fondo è fatta delle interviste e dei dialoghi della regista con suo padre negli ultimi anni della sua vita a Venezia, si arricchisce di altro girato realizzato dalla stessa Anna ragazzina e poi giovane donna, nonché di foto, documenti, che vengono sia dagli archivi personali della famiglia che dagli archivi collettivi.
La bellezza di questo racconto sta nella sua capacità di non nascondere fragilità e contraddizioni, cosicché la figura di Toni Negri, pur emergendo in tutta la sua statura intellettuale e nella forza delle sue convinzioni, non diventa in nessun modo un santino, bensì l’elemento destabilizzante della vita di Anna, e non solo.
L’acqua, che fa da fil rouge di tutta la narrazione – non solo quella veneziana, ma anche quella protagonista di altre sequenze filmate di diversa provenienza –, è il liquido amniotico nel quale una figlia cerca indefessamente di trovare uno spazio nell’universo non di una madre (pur presentissima nel film, Paola), ma di un padre, il cui universo è dichiaratamente comunitario, per quanto non immune da forme di individualismo.
Non so se Anna sia riuscita con questo film a fare pace con questa figura così ingombrante; quel che è certo che questa ricerca così personale si è fatta opera cinematografica di grandissimo livello.
Voto: 4/5
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Human resource
La mia kermesse veneziana a Roma prosegue con il film del regista thailandese dal cognome impronunciabile, Nawapol Thamrongrattanarit, che racconta la storia di Fren (Prapamonton Eiamchan), una giovane donna che scopre di essere incinta di un mese. Questa notizia, che – scopriremo più avanti – non dovrebbe essere particolarmente sconvolgente perché lei e suo marito stanno cercando di avere un figlio da due anni – produce in Fren un profondo subbuglio interiore. Complice lo scombussolamento ormonale che la gravidanza porta con sé, Fren comincia a diventare particolarmente sensibile sia alle notizie negative che i media riversano ogni giorno su di lei, dalla situazione dell’economia thailandese al cambiamento climatico, dai rischi dell’inquinamento sulla salute umana a un mondo del lavoro sempre più individualista e competitivo, sia a quello che accade nella sua vita di tutti i giorni.
In un silenzio quasi inquietante, Fren osserva il mondo intorno a sé con occhi diversi: la sua azienda, nella quale fa parte del team delle risorse umane che sta cercando una nuova unità di personale che sia disposta ad accettare una prospettiva lavorativa molto stressante e di grande impatto sulla vita personale; il proprio compagno che mentre giudica i comportamenti altrui non si fa scrupoli a fare affari con personaggi poco trasparenti, in quanto ossessionato dal mantenimento di uno stile di vita elevato; in generale il mondo intorno che sembra non curarsi della china lungo la quale sta scendendo e che nel farlo non si fa problemi a lasciare qualcuno sul campo.
Il film di Thamrongrattanarit mi ha inevitabilmente fatto pensare ai film di Bong Joon-ho, nel rappresentare una società fatta di profonde disuguaglianze e di altissima competitività, dove la lotta per l’affermazione di sé e la ricerca della propria ricchezza personale è sempre più violenta e senza scrupoli. Nella poetica del regista thailandese, però, a differenza che in quella del sudcoreano, tutto avviene nella testa della protagonista, in un crescendo di tensione che fa temere il peggio man mano che la narrazione va avanti, ma che non giunge mai a un punto di rottura, non deflagra, rimane soffocato dentro il personaggio di Fren, come nelle sequenze altamente evocative in cui lei è chiusa nella sua auto mentre attraversa l’autolavaggio, circondata da schiuma, acqua e rumore, ma protetta dall’abitacolo.
Bellissimo lavoro, di grande impatto emotivo.
Voto: 3,5/5

Il regista libanese Cyril Aris, classe 1987, ci propone una storia d’amore dall’impianto piuttosto classico: Nino (Hassan Akil) e Yasmina (Mounia Akl) nascono lo stesso giorno a pochi minuti di distanza l'uno dall'altro, in una Beirut che è attraversata dalla guerra civile e che già vive sotto i bombardamenti. Il loro è un destino segnato: frequentano la scuola insieme, diventano amici e “fidanzati”, si fanno delle promesse, ma a seguito della separazione dei suoi genitori, Yasmina è costretta a seguire la madre e ad allontanarsi dal padre e da Nino. Si rincontrano da adulti a causa di un incidente. Nel frattempo Nino ha aperto un ristorante in cui rivisita la cucina libanese in un’ottica internazionale, Yasmina è una donna in carriera. Torneranno insieme, faranno una figlia, ma la loro vita oscillerà sempre tra momenti di felicità e leggerezza – anche grazie al carattere giocoso di Nino – e momenti di difficoltà e paura per il futuro.
Il film di Aris si presenta formalmente ineccepibile (molto bella la fotografia e i due attori bravi e magnetici), ma piuttosto convenzionale nello sviluppo narrativo e anche sostanzialmente prevedibile. È evidente però che Nino e Yasmina sono per il regista soltanto l’occasione di parlare del Libano e nello specifico di Beirut, che è il vero oggetto d’amore di questa storia.
Avevo da poco letto il graphic novel Un’educazione orientale, anch’esso incentrato sulla città di Beirut, e in A sad and beautiful world ho ritrovato lo stesso afflato, un rapporto viscerale con la città, che spesso è anche la causa dei conflitti familiari – come nel caso di Nino e Yasmina - tra chi manifesta un attaccamento che va al di là dei conflitti, della situazione economica, delle distruzioni, e chi invece non ce la fa più e vorrebbe andare via, pur con la morte nel cuore.
Non un film memorabile, ma che in qualche modo ci aiuta a entrare nel vissuto e nei sentimenti contraddittori dei libanesi che anelano semplicemente a una vita normale.
Voto: 3/5
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Presentato a Venezia nell’ambito delle Giornate degli autori, il film Memory della regista ucraina Vladena Sandu attinge alla propria autobiografia e ai propri ricordi per raccontare la storia di una bambina la cui esistenza è divisa tra la terra di nascita, la Crimea, allora facente parte dell’URSS, e quella dove ha vissuto parte della propria infanzia e adolescenza, ossia la Cecenia.
La scelta della regista è quella di mescolare un approccio propriamente documentaristico, che utilizza materiale fotografico e audiovisivo proveniente dal suo archivio personale e da quello della sua famiglia, con un girato di finzione che ha come protagonista un’attrice bambina. La narrazione è realizzata, oltre che dalle immagini che scorrono sullo schermo, dal voice over della stessa regista che racconta e, in un certo senso, spiega le immagini che vediamo passare sullo schermo.
Ne viene fuori un interessante pastiche di generi, che a tratti sconfina in vera e propria installazione multimediale, in alcuni casi sorprendente, in altri casi spiazzante. Attraverso questa scelta piuttosto originale, attraversiamo la storia di territori che, dopo essere stati per lunghissimo tempo parte dell’URSS, a seguito dello sfaldamento di quest’ultima dichiararono la propria indipendenza, nel caso specifico l’Ucraina e la Cecenia. Se quest’ultima, dopo la guerra di indipendenza (1994-1996), fu subito oggetto di riconquista russa attraverso una lunga e sanguinosa guerra durata dal 1999 al 2009, la vicenda ucraina è sotto gli occhi di tutti, ma la Crimea nello specifico è un territorio conteso che nel 2014 la Russia ha riannesso.
Il racconto di Vladena Sandu registra la grande storia, ma non è quella l’oggetto della narrazione, bensì il punto di vista di una bambina che cerca di interpretare una realtà che non comprende, che si trova trascinata in dispute e conflitti, che a poco a poco scopre verità, e soprattutto riconosce una spirale di violenza, una ricorsività della sopraffazione che non colpisce solo i popoli, ma mette gli individui gli uni contro gli altri e lascia i segni sulle vite individuali.
Una visione quella di Memory faticosa, soprattutto a causa del voice over piuttosto monotonale, che a tratti culla come una ninna nanna, ma che apre squarci di verità e “bellezza” su mondi di cui ci arriva l’eco ma che facciamo fatica a comprendere fino in fondo.
Voto: 3/5
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La mia due giorni al Cinema Farnese per le Giornate degli autori si conclude con il documentario Toni, mio padre che Anna Negri ha realizzato negli anni prima della morte di suo padre, Toni Negri (scomparso nel 2023) e presentato a Venezia quest’anno.
Il documentario racconta la storia di Toni Negri, giovane e brillante professore di filosofia all’Università di Padova, che fu tra i teorici della sinistra extraparlamentare italiana tra gli anni Sessanta e Settanta e nel 1979 venne arrestato come teorico delle Brigate rosse, accusa dalla quale venne infine prosciolto, ma che lo costrinse a una lunga carcerazione e successivamente all’esilio in Francia.
Ma nel film della figlia Anna, in sala per il Q&A, pur essendo presente la vicenda umana e politica del padre, inscindibile del resto dalla sua persona, c’è soprattutto la dialettica tra un padre e una figlia, tra una generazione e un’altra, tra un approccio alla vita e un altro, dialettica che spesso si trasforma in conflitto, in tentativo – non sempre riuscito – di comprendersi, in riconoscimento degli errori e delle contraddizioni umane e politiche.
Il documentario di Anna Negri, la cui ossatura di fondo è fatta delle interviste e dei dialoghi della regista con suo padre negli ultimi anni della sua vita a Venezia, si arricchisce di altro girato realizzato dalla stessa Anna ragazzina e poi giovane donna, nonché di foto, documenti, che vengono sia dagli archivi personali della famiglia che dagli archivi collettivi.
La bellezza di questo racconto sta nella sua capacità di non nascondere fragilità e contraddizioni, cosicché la figura di Toni Negri, pur emergendo in tutta la sua statura intellettuale e nella forza delle sue convinzioni, non diventa in nessun modo un santino, bensì l’elemento destabilizzante della vita di Anna, e non solo.
L’acqua, che fa da fil rouge di tutta la narrazione – non solo quella veneziana, ma anche quella protagonista di altre sequenze filmate di diversa provenienza –, è il liquido amniotico nel quale una figlia cerca indefessamente di trovare uno spazio nell’universo non di una madre (pur presentissima nel film, Paola), ma di un padre, il cui universo è dichiaratamente comunitario, per quanto non immune da forme di individualismo.
Non so se Anna sia riuscita con questo film a fare pace con questa figura così ingombrante; quel che è certo che questa ricerca così personale si è fatta opera cinematografica di grandissimo livello.
Voto: 4/5
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La mia kermesse veneziana a Roma prosegue con il film del regista thailandese dal cognome impronunciabile, Nawapol Thamrongrattanarit, che racconta la storia di Fren (Prapamonton Eiamchan), una giovane donna che scopre di essere incinta di un mese. Questa notizia, che – scopriremo più avanti – non dovrebbe essere particolarmente sconvolgente perché lei e suo marito stanno cercando di avere un figlio da due anni – produce in Fren un profondo subbuglio interiore. Complice lo scombussolamento ormonale che la gravidanza porta con sé, Fren comincia a diventare particolarmente sensibile sia alle notizie negative che i media riversano ogni giorno su di lei, dalla situazione dell’economia thailandese al cambiamento climatico, dai rischi dell’inquinamento sulla salute umana a un mondo del lavoro sempre più individualista e competitivo, sia a quello che accade nella sua vita di tutti i giorni.
In un silenzio quasi inquietante, Fren osserva il mondo intorno a sé con occhi diversi: la sua azienda, nella quale fa parte del team delle risorse umane che sta cercando una nuova unità di personale che sia disposta ad accettare una prospettiva lavorativa molto stressante e di grande impatto sulla vita personale; il proprio compagno che mentre giudica i comportamenti altrui non si fa scrupoli a fare affari con personaggi poco trasparenti, in quanto ossessionato dal mantenimento di uno stile di vita elevato; in generale il mondo intorno che sembra non curarsi della china lungo la quale sta scendendo e che nel farlo non si fa problemi a lasciare qualcuno sul campo.
Il film di Thamrongrattanarit mi ha inevitabilmente fatto pensare ai film di Bong Joon-ho, nel rappresentare una società fatta di profonde disuguaglianze e di altissima competitività, dove la lotta per l’affermazione di sé e la ricerca della propria ricchezza personale è sempre più violenta e senza scrupoli. Nella poetica del regista thailandese, però, a differenza che in quella del sudcoreano, tutto avviene nella testa della protagonista, in un crescendo di tensione che fa temere il peggio man mano che la narrazione va avanti, ma che non giunge mai a un punto di rottura, non deflagra, rimane soffocato dentro il personaggio di Fren, come nelle sequenze altamente evocative in cui lei è chiusa nella sua auto mentre attraversa l’autolavaggio, circondata da schiuma, acqua e rumore, ma protetta dall’abitacolo.
Bellissimo lavoro, di grande impatto emotivo.
Voto: 3,5/5
giovedì 25 settembre 2025
Sotto le nuvole
E niente, non posso che confermare che Gianfranco Rosi fa film che mi piacciono assai, e, dal mio punto di vista, qualunque sia l’aspetto del reale o il contesto su cui si posa il suo sguardo, il regista riesce sempre a conferirgli una poesia che non passa soltanto attraverso una scelta estetica ineccepibile, ma anche attraverso un’attenzione delicata alla componente umana.
Dopo Sacro GRA (con al centro la periferia romana), Notturno (ambientato nei territori di guerra tra Siria, Iraq, Iran, Kurdistan e Libano) e Fuocoammare (incentrato su Lampedusa), Gianfranco Rosi sposta il suo sguardo sul golfo di Napoli, stretto tra l’instabilità della caldera dei Campi Flegrei e la presenza potenzialmente poco rassicurante del Vesuvio, che – come dice la bellissima citazione di apertura di Cocteau – “fabbrica tutte le nuvole del mondo”.
Del resto, nella Napoli di Rosi il sole non c’è mai, che di per sé costituisce una primigenia e programmatica dichiarazione da parte del regista di voler andare in direzione ostinata e contraria a qualunque forma di stereotipo o di cliché sulla città.
Come sempre nei suoi film, Rosi procede per giustapposizione di immagini e di storie, che spesso si srotolano sullo schermo in parallelo, talvolta si intersecano, e che sta all’occhio attento dello spettatore - sulla base degli indizi visivi forniti - far dialogare e inserire in un orizzonte di senso.
Nel caso di Sotto le nuvole seguiamo il lavoro della funzionaria del MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli), innamorata delle sue statue, sia quelle che raggiungono la ribalta delle sale, sia quelle che riempiono i magazzini del museo; l’attività degli archeologi dell’Università di Tokyo che da più di vent’anni studiano e portano alla luce la Villa Augustea di Somma Vesuviana; le azioni delle forze dell’ordine e della giustizia per contrastare i furti dei tombaroli che si appropriano delle tracce del passato per lucro, sottraendole alla collettività; il compito delicato della centrale dei vigili del fuoco che deve far fronte alle paure dei cittadini di fronte alle scosse e ad altre emergenze, ma anche a molte altre situazioni della loro quotidianità non sempre facile; la vita dei marinai siriani che lavorano sulle grandi navi che trasportano tonnellate di grano provenienti da Odessa in Ucraina e si fermano per lo scarico a Torre Annunziata; le processioni dei fedeli e le loro manifestazioni di devozione estrema al Santuario della Madonna dell’Arco, piena di ex voto; la pazienza e la gentilezza di Titti, il maestro di strada che nella sua bottega di antiquario fa il doposcuola a bambini e ragazzini; il significato profondamente antropologico della Circumvesuviana, il trenino che attraversa quotidianamente il territorio dell’area metropolitana; le carrozzelle trainate dai cavalli che corrono sulla battigia; i vecchi film in bianco e nero su Pompei e di Ercolano proiettati in una sala cinematografica vuota e cadente.
Senza volersi soffermare sull’aspetto estetico delle immagini, che sono un capolavoro per composizione, cura del bianco e nero, sonoro (quest’ultimo supportato dalle invenzioni di Daniel Blumberg), il film di Rosi è un ricorsivo viaggio nel tempo, avanti e indietro nella storia di questo territorio, senza retorica, senza luoghi comuni, senza pietismi, con profondità, ma anche leggerezza, con gravitas, ma anche umorismo.
Dal film di Rosi ci si lascia cullare, facendoci conquistare minuto dopo minuto, innamorandosi di quello che stiamo guardando e sapendo che, di fronte alla potenza della natura e della storia, nulla può l’essere umano, se non assumersi la responsabilità della custodia del passato e del presente, traghettandolo al futuro. Che poi è quello che Rosi fa con i suoi film, e con questo in particolare.
Meritatissimo Premio speciale della giuria a Venezia.
Voto: 4/5
Dopo Sacro GRA (con al centro la periferia romana), Notturno (ambientato nei territori di guerra tra Siria, Iraq, Iran, Kurdistan e Libano) e Fuocoammare (incentrato su Lampedusa), Gianfranco Rosi sposta il suo sguardo sul golfo di Napoli, stretto tra l’instabilità della caldera dei Campi Flegrei e la presenza potenzialmente poco rassicurante del Vesuvio, che – come dice la bellissima citazione di apertura di Cocteau – “fabbrica tutte le nuvole del mondo”.
Del resto, nella Napoli di Rosi il sole non c’è mai, che di per sé costituisce una primigenia e programmatica dichiarazione da parte del regista di voler andare in direzione ostinata e contraria a qualunque forma di stereotipo o di cliché sulla città.
Come sempre nei suoi film, Rosi procede per giustapposizione di immagini e di storie, che spesso si srotolano sullo schermo in parallelo, talvolta si intersecano, e che sta all’occhio attento dello spettatore - sulla base degli indizi visivi forniti - far dialogare e inserire in un orizzonte di senso.
Nel caso di Sotto le nuvole seguiamo il lavoro della funzionaria del MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli), innamorata delle sue statue, sia quelle che raggiungono la ribalta delle sale, sia quelle che riempiono i magazzini del museo; l’attività degli archeologi dell’Università di Tokyo che da più di vent’anni studiano e portano alla luce la Villa Augustea di Somma Vesuviana; le azioni delle forze dell’ordine e della giustizia per contrastare i furti dei tombaroli che si appropriano delle tracce del passato per lucro, sottraendole alla collettività; il compito delicato della centrale dei vigili del fuoco che deve far fronte alle paure dei cittadini di fronte alle scosse e ad altre emergenze, ma anche a molte altre situazioni della loro quotidianità non sempre facile; la vita dei marinai siriani che lavorano sulle grandi navi che trasportano tonnellate di grano provenienti da Odessa in Ucraina e si fermano per lo scarico a Torre Annunziata; le processioni dei fedeli e le loro manifestazioni di devozione estrema al Santuario della Madonna dell’Arco, piena di ex voto; la pazienza e la gentilezza di Titti, il maestro di strada che nella sua bottega di antiquario fa il doposcuola a bambini e ragazzini; il significato profondamente antropologico della Circumvesuviana, il trenino che attraversa quotidianamente il territorio dell’area metropolitana; le carrozzelle trainate dai cavalli che corrono sulla battigia; i vecchi film in bianco e nero su Pompei e di Ercolano proiettati in una sala cinematografica vuota e cadente.
Senza volersi soffermare sull’aspetto estetico delle immagini, che sono un capolavoro per composizione, cura del bianco e nero, sonoro (quest’ultimo supportato dalle invenzioni di Daniel Blumberg), il film di Rosi è un ricorsivo viaggio nel tempo, avanti e indietro nella storia di questo territorio, senza retorica, senza luoghi comuni, senza pietismi, con profondità, ma anche leggerezza, con gravitas, ma anche umorismo.
Dal film di Rosi ci si lascia cullare, facendoci conquistare minuto dopo minuto, innamorandosi di quello che stiamo guardando e sapendo che, di fronte alla potenza della natura e della storia, nulla può l’essere umano, se non assumersi la responsabilità della custodia del passato e del presente, traghettandolo al futuro. Che poi è quello che Rosi fa con i suoi film, e con questo in particolare.
Meritatissimo Premio speciale della giuria a Venezia.
Voto: 4/5
lunedì 22 settembre 2025
L'ultima cosa bella sulla faccia della terra / Michael Bible
L'ultima cosa bella sulla faccia della terra / Michael Bible; trad. di Martina Testa. Milano: Adelphi, 2023.
Ho portato a termine la lettura di questo romanzo solo per una mia ineliminabile curiosità e perché si tratta di un libro di dimensioni piuttosto piccole. Infatti, pur avendone affrontato la lettura con grandi entusiasmi, il mio interesse è andato scemando via via, e si è trasformato a poco a poco in quasi fastidio.
Mi rendo conto di essere in controtendenza: leggo meraviglie di questo romanzo e critici che parlano di Michael Bible come del futuro della letteratura americana, e quindi probabilmente il problema è mio.
Certamente non ha aiutato il fatto che il romanzo si struttura quasi come un insieme di racconti (e io non amo la forma del racconto): i quattro capitoli del romanzo sono infatti parzialmente indipendenti, sebbene tenuti insieme da alcuni fili conduttori, in particolare il legame con la cittadina di Harmony, nel sud degli Stati Uniti, e la vicenda che ne ha segnato la storia, ossia il rogo della chiesa locale in cui sono morte 25 persone, causato da Iggy, un giovane del luogo che in realtà voleva dare fuoco a sé stesso ma ne è uscito illeso.
Nel primo capitolo protagonista è proprio la cittadina di Harmony e la sua varia umanità che, a distanza di anni, ancora si interroga su quanto è successo e perché; nel secondo la parola passa allo stesso Iggy che nel frattempo si trova nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione; nel terzo si passa a Farber, e si getta luce anche sulla figura di Cleo, la ragazza amata da Iggy in gioventù e che formava con lui e Paul un trio di inseparabili; nell’ultimo capitolo il narratore è Joe, detto la nuvola, uno dei sopravvissuti del rogo che all’epoca aveva tre anni.
Tutti questi personaggi – intorno ai quali ruota la varia umanità di Harmony e non solo – sono attraversati dal medesimo male di vivere, alimentato dalla noia di un contesto bigotto e privo di stimoli. Tra droghe, percorsi laterali, centri di disintossicazione e strade senza uscita, tutti loro – pur covando il fuoco della gioventù e della vita – sono destinati alla sconfitta.
Ecco, a me tutto questo – la provincia americana che condanna le persone al fallimento, il degrado e la violenza fisica e psicologica, la religione come strumento di limitazione della libertà individuale – ha un po’ stancato. Oltre a trovare la lettura faticosa e la coralità un po’ forzata, devo dire che il libro non mi ha comunicato un’idea nuova, né mi ha suscitato alcun guizzo.
Non è che abbia idiosincrasie verso i romanzi pieni di tragedie e senza speranza, ma per me tra un romanzo di Tiffany McDaniel e questo c’è un vero abisso.
Voto: 2,5/5
Ho portato a termine la lettura di questo romanzo solo per una mia ineliminabile curiosità e perché si tratta di un libro di dimensioni piuttosto piccole. Infatti, pur avendone affrontato la lettura con grandi entusiasmi, il mio interesse è andato scemando via via, e si è trasformato a poco a poco in quasi fastidio.
Mi rendo conto di essere in controtendenza: leggo meraviglie di questo romanzo e critici che parlano di Michael Bible come del futuro della letteratura americana, e quindi probabilmente il problema è mio.
Certamente non ha aiutato il fatto che il romanzo si struttura quasi come un insieme di racconti (e io non amo la forma del racconto): i quattro capitoli del romanzo sono infatti parzialmente indipendenti, sebbene tenuti insieme da alcuni fili conduttori, in particolare il legame con la cittadina di Harmony, nel sud degli Stati Uniti, e la vicenda che ne ha segnato la storia, ossia il rogo della chiesa locale in cui sono morte 25 persone, causato da Iggy, un giovane del luogo che in realtà voleva dare fuoco a sé stesso ma ne è uscito illeso.
Nel primo capitolo protagonista è proprio la cittadina di Harmony e la sua varia umanità che, a distanza di anni, ancora si interroga su quanto è successo e perché; nel secondo la parola passa allo stesso Iggy che nel frattempo si trova nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione; nel terzo si passa a Farber, e si getta luce anche sulla figura di Cleo, la ragazza amata da Iggy in gioventù e che formava con lui e Paul un trio di inseparabili; nell’ultimo capitolo il narratore è Joe, detto la nuvola, uno dei sopravvissuti del rogo che all’epoca aveva tre anni.
Tutti questi personaggi – intorno ai quali ruota la varia umanità di Harmony e non solo – sono attraversati dal medesimo male di vivere, alimentato dalla noia di un contesto bigotto e privo di stimoli. Tra droghe, percorsi laterali, centri di disintossicazione e strade senza uscita, tutti loro – pur covando il fuoco della gioventù e della vita – sono destinati alla sconfitta.
Ecco, a me tutto questo – la provincia americana che condanna le persone al fallimento, il degrado e la violenza fisica e psicologica, la religione come strumento di limitazione della libertà individuale – ha un po’ stancato. Oltre a trovare la lettura faticosa e la coralità un po’ forzata, devo dire che il libro non mi ha comunicato un’idea nuova, né mi ha suscitato alcun guizzo.
Non è che abbia idiosincrasie verso i romanzi pieni di tragedie e senza speranza, ma per me tra un romanzo di Tiffany McDaniel e questo c’è un vero abisso.
Voto: 2,5/5
sabato 20 settembre 2025
Troppo facile amarti in vacanza / Giacomo Keison Bevilacqua
Troppo facile amarti in vacanza / Giacomo Keison Bevilacqua. Milano: Bao Publishing, 2021.
Di Giacomo Keison Bevilacqua avevo già letto un altro racconto lungo a fumetti, Il suono del mondo a memoria, apprezzandolo dal punto di vista stilistico e anche per l’originalità narrativa, mentre ammetto di non aver mai letto le strisce di A panda piace per il quale l’autore è diventato famoso.
Probabilmente è proprio grazie all’esistenza di A panda piace che Bevilacqua, nel momento in cui si sposta sul graphic novel, può permettersi di lavorare a progetti ambiziosi con grande libertà.
A questa categoria appartiene questo ultimo lavoro, Troppo facile amarti in vacanza, in cui Bevilacqua propone, attraverso i personaggi di due giovani, Linda B. e Aman, due punti di vista diversi su un mondo in decadenza fisica e morale.
Linda B. è una giovane che decide di abbandonare, insieme al suo cane Follia, il luogo dove ha sempre vissuto alla ricerca di qualcosa per cui valga ancora la pena vivere. In questo futuro distopico, ma non tanto lontano dal nostro tempo, in cui Linda B. vive, il mondo che conosciamo mostra i segni del sopravvento che acqua e natura stanno prendendo su case e monumenti, e soprattutto la gente che lo abita manifesta comportamenti sempre più assurdi e incomprensibili (dal paese dove le donne devono vivere recluse in casa sottomesse ai loro mariti al ristorante stellato dove lo chef tiene per sé gli ingredienti migliori e prepara piatti insapore per la sua lunga fila di clienti in cerca solo dell’esperienza, fino ad arrivare al multimilionario che ha comprato Firenze e ha deciso di dipingere di nero tutti i palazzi). Nel suo percorso, Linda B. incontrerà anche una giovane donna che vive su uno yacht impegnata solo a mangiare, bere e pensare, un gruppo di uomini che l’assaltano sessualmente in uno stabilimento termale e un uomo politico che spara al cane di Linda perché i due hanno violato la sua proprietà privata.
A questa specie di inferno che è il mondo nel quale Linda si muove fanno da contraltare – inframmezzando la conversazione, pur essendo temporalmente successive - le conversazioni di Linda con Aman, un immigrato che lavora per una ONG e che, con la tranquillità che è insita nel significato del suo nome, cerca di mostrare a Linda altri punti di vista e di far balenare qualche elemento di speranza.
È Aman la vacanza di Linda, ma – come suggerisce il titolo dell’albo – non è detto che questa parentesi di amore e speranza sia sufficiente a spegnere la rabbia della ragazza e a trasformare frustrazione e indignazione in qualcosa di realmente prospettico e costruttivo.
Nella sua sempre affascinante perfezione estetica e formale, arricchita in questo caso da una struttura a capitoli per ciascuno dei quali l’autore suggerisce una canzone come colonna sonora, l’albo di Bevilacqua trasuda pessimismo e disillusione, solo in parte temperata dalla presenza di Aman.
Sicuramente si tratta di un albo molto sentito e personale per l’autore, che non si sottrae alla condizione di mettere a nudo i propri sentimenti più profondi. Questa angoscia per il futuro si trasmette inevitabilmente al lettore e, nonostante le semplificazioni che caratterizzano le microstorie raccontate e la stereotipia dei personaggi, il fatto che in essi siano riconoscibili realtà e persone che fanno parte del nostro universo presente non può sfuggire a nessuno né farci chiudere quest’albo con l’animo sereno.
Voto: 3/5
Di Giacomo Keison Bevilacqua avevo già letto un altro racconto lungo a fumetti, Il suono del mondo a memoria, apprezzandolo dal punto di vista stilistico e anche per l’originalità narrativa, mentre ammetto di non aver mai letto le strisce di A panda piace per il quale l’autore è diventato famoso.
Probabilmente è proprio grazie all’esistenza di A panda piace che Bevilacqua, nel momento in cui si sposta sul graphic novel, può permettersi di lavorare a progetti ambiziosi con grande libertà.
A questa categoria appartiene questo ultimo lavoro, Troppo facile amarti in vacanza, in cui Bevilacqua propone, attraverso i personaggi di due giovani, Linda B. e Aman, due punti di vista diversi su un mondo in decadenza fisica e morale.
Linda B. è una giovane che decide di abbandonare, insieme al suo cane Follia, il luogo dove ha sempre vissuto alla ricerca di qualcosa per cui valga ancora la pena vivere. In questo futuro distopico, ma non tanto lontano dal nostro tempo, in cui Linda B. vive, il mondo che conosciamo mostra i segni del sopravvento che acqua e natura stanno prendendo su case e monumenti, e soprattutto la gente che lo abita manifesta comportamenti sempre più assurdi e incomprensibili (dal paese dove le donne devono vivere recluse in casa sottomesse ai loro mariti al ristorante stellato dove lo chef tiene per sé gli ingredienti migliori e prepara piatti insapore per la sua lunga fila di clienti in cerca solo dell’esperienza, fino ad arrivare al multimilionario che ha comprato Firenze e ha deciso di dipingere di nero tutti i palazzi). Nel suo percorso, Linda B. incontrerà anche una giovane donna che vive su uno yacht impegnata solo a mangiare, bere e pensare, un gruppo di uomini che l’assaltano sessualmente in uno stabilimento termale e un uomo politico che spara al cane di Linda perché i due hanno violato la sua proprietà privata.
A questa specie di inferno che è il mondo nel quale Linda si muove fanno da contraltare – inframmezzando la conversazione, pur essendo temporalmente successive - le conversazioni di Linda con Aman, un immigrato che lavora per una ONG e che, con la tranquillità che è insita nel significato del suo nome, cerca di mostrare a Linda altri punti di vista e di far balenare qualche elemento di speranza.
È Aman la vacanza di Linda, ma – come suggerisce il titolo dell’albo – non è detto che questa parentesi di amore e speranza sia sufficiente a spegnere la rabbia della ragazza e a trasformare frustrazione e indignazione in qualcosa di realmente prospettico e costruttivo.
Nella sua sempre affascinante perfezione estetica e formale, arricchita in questo caso da una struttura a capitoli per ciascuno dei quali l’autore suggerisce una canzone come colonna sonora, l’albo di Bevilacqua trasuda pessimismo e disillusione, solo in parte temperata dalla presenza di Aman.
Sicuramente si tratta di un albo molto sentito e personale per l’autore, che non si sottrae alla condizione di mettere a nudo i propri sentimenti più profondi. Questa angoscia per il futuro si trasmette inevitabilmente al lettore e, nonostante le semplificazioni che caratterizzano le microstorie raccontate e la stereotipia dei personaggi, il fatto che in essi siano riconoscibili realtà e persone che fanno parte del nostro universo presente non può sfuggire a nessuno né farci chiudere quest’albo con l’animo sereno.
Voto: 3/5
mercoledì 17 settembre 2025
L’attesa / Matsumoto Seichō
L’attesa / Matsumoto Seichō; trad. di Gala Maria Follaco. Milano: Adelphi, 2024.
Grazie ad Adelphi i lettori italiani appassionati di Matsumoto Seichō stanno avendo la possibilità di ripercorrere a poco a poco tutta la sua produzione narrativa, scoprendo dunque le molteplici pieghe della sua scrittura e della sua poetica.
Io ho già letto diversi suoi romanzi e devo dire che ne apprezzo la coerenza e al contempo la varietà della produzione, sebbene ci siano narrazioni che mi appassionano di più e altre di meno.
Quest’ultimo romanzo offerto da Adelphi al pubblico italiano, la cui versione originale risale al 1971, non mi ha conquistata particolarmente.
La storia è quella di Isako, una giovane donna sposata con il signor Sawada, che ha trent’anni più di lei. Per la donna quello con Sawada è un matrimonio di convenienza, al punto che Isako – la quale nel frattempo intrattiene diverse relazioni extraconiugali – sta già programmando il suo futuro dopo la morte del marito, futuro nel quale intende aprire un ristorante con i soldi del testamento del marito, da cui intende far escludere le sue figlie.
Il piano di Isako sembra essere messo in discussione dall’incarcerazione del giovane Ishii - uno degli uomini con cui ha una relazione - a causa della morte della fidanzata con la quale viveva e del cui omicidio è accusato. Isako metterà in campo tutte le sue armi di seduzione e di cinismo per raggiungere il suo obiettivo.
L’attesa condivide con gli altri romanzi di Seichō il punto di vista critico dello scrittore nei confronti della società giapponese, una società spesso fatta di apparenze e di individui che perseguono il proprio tornaconto pur rispettando le regole sociali, e il tono della narrazione resta quello ovattato e in sordina che è tipico di una scrittura in cui sembra non accadere niente, ma che invece prepara a svolte e colpi di scena.
In questo caso devo però dire che – complice un’antipatia fortissima nei confronti dei personaggi, ovviamente Isako, ma anche Sawada e diversi altri – ho fatto molta fatica ad appassionarmi alla storia, che mi sembrava si avvolgesse a spirale su sé stessa in attesa dello scioglimento finale.
Non a caso mi sono trascinata la lettura molto più a lungo del necessario a causa della mia resistenza ad abbandonare i libri che leggo, ma anche al termine della lettura e nonostante le rivelazioni finali che danno un twist importante al racconto non sono uscita soddisfatta da questa lettura.
Peccato. Aspetto a questo punto il prossimo titolo di Matsumoto Seichō che Adelphi deciderà di pubblicare per riconciliarmi con questo autore.
Voto: 2,5/5
Grazie ad Adelphi i lettori italiani appassionati di Matsumoto Seichō stanno avendo la possibilità di ripercorrere a poco a poco tutta la sua produzione narrativa, scoprendo dunque le molteplici pieghe della sua scrittura e della sua poetica.
Io ho già letto diversi suoi romanzi e devo dire che ne apprezzo la coerenza e al contempo la varietà della produzione, sebbene ci siano narrazioni che mi appassionano di più e altre di meno.
Quest’ultimo romanzo offerto da Adelphi al pubblico italiano, la cui versione originale risale al 1971, non mi ha conquistata particolarmente.
La storia è quella di Isako, una giovane donna sposata con il signor Sawada, che ha trent’anni più di lei. Per la donna quello con Sawada è un matrimonio di convenienza, al punto che Isako – la quale nel frattempo intrattiene diverse relazioni extraconiugali – sta già programmando il suo futuro dopo la morte del marito, futuro nel quale intende aprire un ristorante con i soldi del testamento del marito, da cui intende far escludere le sue figlie.
Il piano di Isako sembra essere messo in discussione dall’incarcerazione del giovane Ishii - uno degli uomini con cui ha una relazione - a causa della morte della fidanzata con la quale viveva e del cui omicidio è accusato. Isako metterà in campo tutte le sue armi di seduzione e di cinismo per raggiungere il suo obiettivo.
L’attesa condivide con gli altri romanzi di Seichō il punto di vista critico dello scrittore nei confronti della società giapponese, una società spesso fatta di apparenze e di individui che perseguono il proprio tornaconto pur rispettando le regole sociali, e il tono della narrazione resta quello ovattato e in sordina che è tipico di una scrittura in cui sembra non accadere niente, ma che invece prepara a svolte e colpi di scena.
In questo caso devo però dire che – complice un’antipatia fortissima nei confronti dei personaggi, ovviamente Isako, ma anche Sawada e diversi altri – ho fatto molta fatica ad appassionarmi alla storia, che mi sembrava si avvolgesse a spirale su sé stessa in attesa dello scioglimento finale.
Non a caso mi sono trascinata la lettura molto più a lungo del necessario a causa della mia resistenza ad abbandonare i libri che leggo, ma anche al termine della lettura e nonostante le rivelazioni finali che danno un twist importante al racconto non sono uscita soddisfatta da questa lettura.
Peccato. Aspetto a questo punto il prossimo titolo di Matsumoto Seichō che Adelphi deciderà di pubblicare per riconciliarmi con questo autore.
Voto: 2,5/5
lunedì 15 settembre 2025
L’ultimo turno = Heldin
Avevo puntato questo film già da qualche settimana e finalmente, grazie a una proiezione post-lavoro in lingua originale al Quattro fontane, riesco finalmente a vederlo.
Siamo in Svizzera, nel reparto di un ospedale che è al gran completo e dove sono ricoverate persone con malattie gravi e/o terminali, altri con situazioni di emergenza, altri ancora con problemi più lievi. Durante il film, che si svolge in una quasi perfetta unità di tempo e di luogo, seguiamo l’infermiera Floria (Leonie Benesch, già vista e apprezzata ne La sala professori) per tutta la durata di un suo turno, un ultimo turno della giornata, in cui la gestione del reparto è affidata soltanto a lei e a un’altra infermiera, con l’aiuto di una tirocinante.
Floria è appassionata del suo lavoro e lo svolge con cura e attenzione, ma il carico di lavoro, i ritmi frenetici, le continue urgenze e i comportamenti non sempre comprensivi dei pazienti e dei loro familiari mettono a dura prova la sua tenuta professionale, umana ed emotiva.
Il film della regista svizzera Petra Biondina Volpe mantiene alta la tensione per tutta la durata del film e consente allo spettatore di cambiare il punto di vista: spesso il cinema (e la letteratura) ci fanno entrare nella mente dei malati e dei pazienti, a volte in quella dei medici, ma raramente ci fanno vestire i panni di queste figure determinanti rispetto non solo al funzionamento di un ospedale, ma anche rispetto al benessere di chi vi è ricoverato, come sa chiunque sia stato in ospedale o abbia avuto un parente o un amico ricoverato.
Quello della Volpe è certamente un film a tesi, una specie di dichiarazione d’amore verso la professione infermieristica e un grido d’allarme rispetto a un futuro, invero molto vicino, in cui gli ospedali non avranno più infermieri, essendo al momento già fortemente sottodimensionati nel numero rispetto alle esigenze (e questi dati vengono resi espliciti prima dei titoli di coda). In questo senso, si tratta di un film relativamente semplice, ma non per questo banale né scontato, che a tratti mi ha ricordato – per il ritmo e in parte anche per il significato - il film con Laure Calamy Full time.
Ottime la regia e l’interpretazione di Leonie Benesch che conferisce grande umanità e spessore al suo personaggio. Forse – ma è solo la mia sensibilità – avrei evitato la scena finale (che preferisco non spoilerare), che secondo me non era necessaria e che aggiunge un elemento consolatorio che non rafforza, bensì indebolisce la carica del film (sebbene abbia molto apprezzato la canzone scelta, Hope there's someone, di Antony and the Johnsons, di cui invito a leggere il testo).
Il film centra l’obiettivo di far riflettere e, personalmente, ho continuato a dirmi, per tutta la sua durata, che io non reggerei nemmeno un giorno in quelle condizioni, e che – non c’è niente da fare – viviamo in una società non equa, perché non tiene conto delle differenze macroscopiche che ci sono nel carico di lavoro fisico ed emotivo tra i vari lavori. Inoltre, il film della Volpe aiuta anche a ridimensionare le proprie paturnie lavorative e a relativizzare le nostre lamentele rispetto alla quotidianità lavorativa. E direi che non è poco.
Voto: 3,5/5
Siamo in Svizzera, nel reparto di un ospedale che è al gran completo e dove sono ricoverate persone con malattie gravi e/o terminali, altri con situazioni di emergenza, altri ancora con problemi più lievi. Durante il film, che si svolge in una quasi perfetta unità di tempo e di luogo, seguiamo l’infermiera Floria (Leonie Benesch, già vista e apprezzata ne La sala professori) per tutta la durata di un suo turno, un ultimo turno della giornata, in cui la gestione del reparto è affidata soltanto a lei e a un’altra infermiera, con l’aiuto di una tirocinante.
Floria è appassionata del suo lavoro e lo svolge con cura e attenzione, ma il carico di lavoro, i ritmi frenetici, le continue urgenze e i comportamenti non sempre comprensivi dei pazienti e dei loro familiari mettono a dura prova la sua tenuta professionale, umana ed emotiva.
Il film della regista svizzera Petra Biondina Volpe mantiene alta la tensione per tutta la durata del film e consente allo spettatore di cambiare il punto di vista: spesso il cinema (e la letteratura) ci fanno entrare nella mente dei malati e dei pazienti, a volte in quella dei medici, ma raramente ci fanno vestire i panni di queste figure determinanti rispetto non solo al funzionamento di un ospedale, ma anche rispetto al benessere di chi vi è ricoverato, come sa chiunque sia stato in ospedale o abbia avuto un parente o un amico ricoverato.
Quello della Volpe è certamente un film a tesi, una specie di dichiarazione d’amore verso la professione infermieristica e un grido d’allarme rispetto a un futuro, invero molto vicino, in cui gli ospedali non avranno più infermieri, essendo al momento già fortemente sottodimensionati nel numero rispetto alle esigenze (e questi dati vengono resi espliciti prima dei titoli di coda). In questo senso, si tratta di un film relativamente semplice, ma non per questo banale né scontato, che a tratti mi ha ricordato – per il ritmo e in parte anche per il significato - il film con Laure Calamy Full time.
Ottime la regia e l’interpretazione di Leonie Benesch che conferisce grande umanità e spessore al suo personaggio. Forse – ma è solo la mia sensibilità – avrei evitato la scena finale (che preferisco non spoilerare), che secondo me non era necessaria e che aggiunge un elemento consolatorio che non rafforza, bensì indebolisce la carica del film (sebbene abbia molto apprezzato la canzone scelta, Hope there's someone, di Antony and the Johnsons, di cui invito a leggere il testo).
Il film centra l’obiettivo di far riflettere e, personalmente, ho continuato a dirmi, per tutta la sua durata, che io non reggerei nemmeno un giorno in quelle condizioni, e che – non c’è niente da fare – viviamo in una società non equa, perché non tiene conto delle differenze macroscopiche che ci sono nel carico di lavoro fisico ed emotivo tra i vari lavori. Inoltre, il film della Volpe aiuta anche a ridimensionare le proprie paturnie lavorative e a relativizzare le nostre lamentele rispetto alla quotidianità lavorativa. E direi che non è poco.
Voto: 3,5/5
venerdì 12 settembre 2025
Fumana / Paolo Malaguti
Fumana / Paolo Malaguti. Torino: Einaudi, 2024.
Dopo Se l’acqua ride, che tanto mi era piaciuto, ricevo in regalo l’ultimo romanzo di Paolo Malaguti con la dedica dell’autore e ne affronto la lettura con grande fiducia, che lo scrittore di Monselice non tradisce.
Fumana racconta, ancora una volta, storie di un passato non troppo lontano, in una terra, quella dei paesi e delle vie d’acqua del delta del Po, che ha un’identità molto forte e porta con sé tradizioni arcaiche solo in parte superate dal progresso.
Dopo aver fatto la conoscenza con il personaggio di Ganbeto, protagonista di Se l’acqua ride, qui abbiamo a che fare con la storia di una donna, nata nell’Ottocento e sopravvissuta alla madre morta a causa del parto e all’alluvione che aveva colpito la zona. In assenza della madre e anche del padre, vivo ma sparito dopo la sua nascita, la bambina viene cresciuta da Petrolio, un vecchio misantropo, di pochissime parole, che vive della pesca nelle acque del delta di cui conosce ogni ansa. Poiché la bimba è nata con la camicia, Petrolio chiede a Lena, una guaritrice locale, di insegnarle la sua arte e di portarla con sé. È così che Lena “passa le parole” a Fumana e, dopo la morte di Petrolio, la prende con sé. Fumana diventa così una “strigossa”, ossia una donna che la gente dei dintorni considera dotata di poteri particolari per curare molte malattie.
Seguiremo la vicenda di Fumana attraverso le due guerre mondiali e poi anche nel secondo dopoguerra, prima nei suoi disperati tentativi di ritrovare Bisatta, la piccola muta rimasta senza madre che ha preso con sé prima della guerra, poi negli ultimi anni di vita vissuti nel completo isolamento fino alla morte durante l’alluvione del Polesine.
Questo nuovo romanzo conferma la straordinaria capacità di Malaguti di descrivere e trasmettere atmosfere, e mentre si legge la storia di Fumana non abbiamo difficoltà a immaginare dettagliatamente luoghi, paesaggi e personaggi. Affascinante anche l’immersione in un mondo arcaico di cui riconosciamo alcune cose, mentre ce ne sfuggono completamente altre che ci portano in un mondo che, a distanza di poco più di 100 anni, è irriconoscibile. Rispetto a Se l’acqua ride, è inoltre ancora più importante in Fumana il rapporto tra la piccola storia – quella degli individui e dei luoghi piccoli e dimenticati – e la grande storia (quella delle guerre, delle alluvioni, del fascismo) che conosciamo nei suoi aspetti macroscopici ma che qui vediamo nelle sue conseguenze sulle persone e sui luoghi.
Non posso dire che Fumana mi abbia emozionato tanto quanto Se l’acqua ride, ma è chiaro che in quel caso l’effetto sorpresa aveva avuto un ruolo che qui non ha potuto giocare. Però a questa seconda esperienza posso confermare che i romanzi di Malaguti, oltre che attenti e documentati sul piano storico, sono caratterizzati da una delicatezza di sentimenti e da un affetto per i personaggi che non è comune trovare nella letteratura contemporanea e il cui sapore antico fa bene al cuore.
Voto: 3,5/5
Dopo Se l’acqua ride, che tanto mi era piaciuto, ricevo in regalo l’ultimo romanzo di Paolo Malaguti con la dedica dell’autore e ne affronto la lettura con grande fiducia, che lo scrittore di Monselice non tradisce.
Fumana racconta, ancora una volta, storie di un passato non troppo lontano, in una terra, quella dei paesi e delle vie d’acqua del delta del Po, che ha un’identità molto forte e porta con sé tradizioni arcaiche solo in parte superate dal progresso.
Dopo aver fatto la conoscenza con il personaggio di Ganbeto, protagonista di Se l’acqua ride, qui abbiamo a che fare con la storia di una donna, nata nell’Ottocento e sopravvissuta alla madre morta a causa del parto e all’alluvione che aveva colpito la zona. In assenza della madre e anche del padre, vivo ma sparito dopo la sua nascita, la bambina viene cresciuta da Petrolio, un vecchio misantropo, di pochissime parole, che vive della pesca nelle acque del delta di cui conosce ogni ansa. Poiché la bimba è nata con la camicia, Petrolio chiede a Lena, una guaritrice locale, di insegnarle la sua arte e di portarla con sé. È così che Lena “passa le parole” a Fumana e, dopo la morte di Petrolio, la prende con sé. Fumana diventa così una “strigossa”, ossia una donna che la gente dei dintorni considera dotata di poteri particolari per curare molte malattie.
Seguiremo la vicenda di Fumana attraverso le due guerre mondiali e poi anche nel secondo dopoguerra, prima nei suoi disperati tentativi di ritrovare Bisatta, la piccola muta rimasta senza madre che ha preso con sé prima della guerra, poi negli ultimi anni di vita vissuti nel completo isolamento fino alla morte durante l’alluvione del Polesine.
Questo nuovo romanzo conferma la straordinaria capacità di Malaguti di descrivere e trasmettere atmosfere, e mentre si legge la storia di Fumana non abbiamo difficoltà a immaginare dettagliatamente luoghi, paesaggi e personaggi. Affascinante anche l’immersione in un mondo arcaico di cui riconosciamo alcune cose, mentre ce ne sfuggono completamente altre che ci portano in un mondo che, a distanza di poco più di 100 anni, è irriconoscibile. Rispetto a Se l’acqua ride, è inoltre ancora più importante in Fumana il rapporto tra la piccola storia – quella degli individui e dei luoghi piccoli e dimenticati – e la grande storia (quella delle guerre, delle alluvioni, del fascismo) che conosciamo nei suoi aspetti macroscopici ma che qui vediamo nelle sue conseguenze sulle persone e sui luoghi.
Non posso dire che Fumana mi abbia emozionato tanto quanto Se l’acqua ride, ma è chiaro che in quel caso l’effetto sorpresa aveva avuto un ruolo che qui non ha potuto giocare. Però a questa seconda esperienza posso confermare che i romanzi di Malaguti, oltre che attenti e documentati sul piano storico, sono caratterizzati da una delicatezza di sentimenti e da un affetto per i personaggi che non è comune trovare nella letteratura contemporanea e il cui sapore antico fa bene al cuore.
Voto: 3,5/5
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Paolo Malaguti
mercoledì 10 settembre 2025
Elisa
Ed eccomi alla ripartenza della stagione cinematografica dopo la pausa estiva. Ammetto che avevo qualche perplessità nell’andare a vedere questo film, ma l’esperienza positiva con i film precedenti di Leonardo Di Costanzo, L’intervallo prima e Ariaferma poi, mi convincono a provarci.
Alla fine Elisa non mi è piaciuto, e aggiungo purtroppo, perché mi dispiace sempre quando autori e registri che apprezzo fanno, secondo me, dei passi falsi.
Andiamo per ordine. Il film, ispirato a una storia vera, racconta la vicenda di Elisa Zanetti (Barbara Ronchi) che, dopo aver ucciso sua sorella, è detenuta in un carcere svizzero molto moderno, in cui le detenute si possono muovere liberamente nell’ampia area di pertinenza del carcere, vivono in piccole abitazioni e non in cella, lavorano nei servizi offerti dal carcere e condividono degli spazi comuni.
La vicenda prende le mosse dal momento in cui in questa struttura arriva un professore di criminologia (Roschdy Zem) che, nell’università interna al carcere, tiene una lezione sulla necessità di capire il meccanismo che muove i colpevoli e annuncia la possibilità per chi è detenuto di partecipare a una sua ricerca andando a degli incontri con lui.
Elisa, che sembra essere vittima di un’amnesia su quello che ha commesso, decide di partecipare a questi incontri, e a poco a poco, nel confronto con il professore, tutta la verità della sua storia viene a galla, mettendo la donna di fronte all’orrore che si porta dentro.
Il film di Di Costanzo, anche grazie al confronto con alcuni personaggi secondari, ma importanti, come quello interpretato da Valeria Golino, vuole indagare sul tema della colpa, concentrandosi sul punto di vista dei carnefici, ma anche sollevando la questione delle vittime, che in quanto tali non hanno voce, se non indirettamente. In un certo senso, il regista rimane sui temi a lui cari, ma ampliando il punto di vista e affrontando aspetti di ulteriore e maggiore complessità.
Sicuramente il film è ambizioso sul piano dei contenuti e della fattura – con quest’ambientazione svizzera, forse necessaria a fini di produzione, che fa sì che il film sia recitato in parte in francese (e in alcuni punti mi pare ridoppiato in italiano) – ma secondo me finisce per risultare un po' pretenzioso e non riesce davvero a stimolare riflessioni nuove sui temi che affronta. Personalmente ho trovato poco convincenti anche gli attori, eppure Barbara Ronchi e Roschdy Zem sono attori che ho apprezzato in diversi altri film.
Per me un vero peccato, anche se guardando altre recensioni mi rendo conto di essere decisamente in minoranza.
Voto: 2,5/5
Alla fine Elisa non mi è piaciuto, e aggiungo purtroppo, perché mi dispiace sempre quando autori e registri che apprezzo fanno, secondo me, dei passi falsi.
Andiamo per ordine. Il film, ispirato a una storia vera, racconta la vicenda di Elisa Zanetti (Barbara Ronchi) che, dopo aver ucciso sua sorella, è detenuta in un carcere svizzero molto moderno, in cui le detenute si possono muovere liberamente nell’ampia area di pertinenza del carcere, vivono in piccole abitazioni e non in cella, lavorano nei servizi offerti dal carcere e condividono degli spazi comuni.
La vicenda prende le mosse dal momento in cui in questa struttura arriva un professore di criminologia (Roschdy Zem) che, nell’università interna al carcere, tiene una lezione sulla necessità di capire il meccanismo che muove i colpevoli e annuncia la possibilità per chi è detenuto di partecipare a una sua ricerca andando a degli incontri con lui.
Elisa, che sembra essere vittima di un’amnesia su quello che ha commesso, decide di partecipare a questi incontri, e a poco a poco, nel confronto con il professore, tutta la verità della sua storia viene a galla, mettendo la donna di fronte all’orrore che si porta dentro.
Il film di Di Costanzo, anche grazie al confronto con alcuni personaggi secondari, ma importanti, come quello interpretato da Valeria Golino, vuole indagare sul tema della colpa, concentrandosi sul punto di vista dei carnefici, ma anche sollevando la questione delle vittime, che in quanto tali non hanno voce, se non indirettamente. In un certo senso, il regista rimane sui temi a lui cari, ma ampliando il punto di vista e affrontando aspetti di ulteriore e maggiore complessità.
Sicuramente il film è ambizioso sul piano dei contenuti e della fattura – con quest’ambientazione svizzera, forse necessaria a fini di produzione, che fa sì che il film sia recitato in parte in francese (e in alcuni punti mi pare ridoppiato in italiano) – ma secondo me finisce per risultare un po' pretenzioso e non riesce davvero a stimolare riflessioni nuove sui temi che affronta. Personalmente ho trovato poco convincenti anche gli attori, eppure Barbara Ronchi e Roschdy Zem sono attori che ho apprezzato in diversi altri film.
Per me un vero peccato, anche se guardando altre recensioni mi rendo conto di essere decisamente in minoranza.
Voto: 2,5/5
lunedì 8 settembre 2025
Un'educazione orientale / Charles Berberian
Un'educazione orientale / Charles Berberian. Milano: Bao Publishing, 2024.
Charles Berberian è un fumettista francese nato a Baghdad da un padre armeno e una madre greca, ma che ha vissuto fino a sei anni insieme alla sua famiglia in Libano, a Beirut, che è il posto in cui colloca le proprie radici e a cui è fortemente legato, anche perché lì, in un palazzo sul porto, palazzo Tarazi, abitava la sua amata nonna.
L’albo di Berberian nasce, per sua stessa ammissione, durante il periodo del lockdown imposto dalla pandemia, periodo che ha risvegliato nell’autore le memorie del passato.
In questo lavoro, dunque, attraverso una forte mescolanza di stili e generi (disegni caricaturali si alternano ad altri più realistici, ma anche a fotografie e altri tipi di documenti), Berberian ripercorre la sua storia, in particolare gli anni della vita libanese, e quella della sua famiglia, e così facendo racconta anche la storia del Libano, agganciando la narrazione a due momenti cruciali che rappresentano due ferite mai pienamente rimarginate: l’inizio della guerra nel 1975 che costrinse la sua famiglia a cercare una condizione più sicura in Francia, e la tremenda esplosione nel porto di Beirut del 2020 che distrusse una parte importante della città, compreso palazzo Tarazi, tanto caro alla memoria individuale del fumettista.
Quella di Berberian è una specie di lettera di amore verso una città martoriata, su cui leader occidentali e mediorientali hanno fatto i loro giochi politici disinteressandosi della storia e delle condizioni locali, cosicché il racconto diventa anche una lettera d’accusa, senza alcuna scusante, nei confronti di chi ha reso questa terra invivibile e ha costretto molti dei suoi abitanti ad abbandonarla.
È evidente che l’albo di Berberian viene da sentimenti complessi e segue il flusso di pensieri, ricordi e rimandi tutti personali, cosicché la narrazione appare a volte un po’ confusa o quantomeno poco lineare, però gli stati d’animo emergono in maniera chiara e permettono al lettore quel salto dalla dimensione individuale della storia a quella collettiva che in questo caso è quella di un popolo, di una nazione e di un’intera area del mondo che non trova pace.
Voto: 3,5/5
Charles Berberian è un fumettista francese nato a Baghdad da un padre armeno e una madre greca, ma che ha vissuto fino a sei anni insieme alla sua famiglia in Libano, a Beirut, che è il posto in cui colloca le proprie radici e a cui è fortemente legato, anche perché lì, in un palazzo sul porto, palazzo Tarazi, abitava la sua amata nonna.
L’albo di Berberian nasce, per sua stessa ammissione, durante il periodo del lockdown imposto dalla pandemia, periodo che ha risvegliato nell’autore le memorie del passato.
In questo lavoro, dunque, attraverso una forte mescolanza di stili e generi (disegni caricaturali si alternano ad altri più realistici, ma anche a fotografie e altri tipi di documenti), Berberian ripercorre la sua storia, in particolare gli anni della vita libanese, e quella della sua famiglia, e così facendo racconta anche la storia del Libano, agganciando la narrazione a due momenti cruciali che rappresentano due ferite mai pienamente rimarginate: l’inizio della guerra nel 1975 che costrinse la sua famiglia a cercare una condizione più sicura in Francia, e la tremenda esplosione nel porto di Beirut del 2020 che distrusse una parte importante della città, compreso palazzo Tarazi, tanto caro alla memoria individuale del fumettista.
Quella di Berberian è una specie di lettera di amore verso una città martoriata, su cui leader occidentali e mediorientali hanno fatto i loro giochi politici disinteressandosi della storia e delle condizioni locali, cosicché il racconto diventa anche una lettera d’accusa, senza alcuna scusante, nei confronti di chi ha reso questa terra invivibile e ha costretto molti dei suoi abitanti ad abbandonarla.
È evidente che l’albo di Berberian viene da sentimenti complessi e segue il flusso di pensieri, ricordi e rimandi tutti personali, cosicché la narrazione appare a volte un po’ confusa o quantomeno poco lineare, però gli stati d’animo emergono in maniera chiara e permettono al lettore quel salto dalla dimensione individuale della storia a quella collettiva che in questo caso è quella di un popolo, di una nazione e di un’intera area del mondo che non trova pace.
Voto: 3,5/5
venerdì 5 settembre 2025
28 domande per innamorarsi / Indyana Schneider
28 domande per innamorarsi / Indyana Schneider; trad. di Veronica La Peccerella. Roma: Edizioni di Atlantide, 2022.
Ho iniziato a leggere questo libro con un po’ di apprensione. Ho ormai un’età tale che le storie rivolte primariamente al pubblico giovanile mi lasciano un po’ perplessa in quanto tendo a trovarle superficiali o comunque troppo legate a un momento della vita che per me è inevitabilmente passato.
Dunque, di fronte alla storia di Amalia, aspirante cantante lirica australiana che si trasferisce a Oxford per studiare e di cui seguiamo l’evoluzione individuale e sentimentale nel corso di circa quattro anni, ho avuto all’inizio un atteggiamento piuttosto scettico.
In realtà, man mano che andavo avanti nella lettura, Amalia mi ha progressivamente conquistata, grazie alla stratificazione del suo personaggio e alla sincerità dei sentimenti che esprime. Al centro del racconto di Indyana Schneider – che è effettivamente una cantante lirica – ci sono due grandi passioni, con tutti gli alti e bassi cui inevitabilmente tutte le passioni vanno incontro nel corso della vita: quella per la musica, di cui l’esistenza di Amalia è innervata, e quella per Alex, un’altra studentessa di Oxford, di qualche anno più grande, di cui Amalia diventa prima grande amica e poi si innamora, ricambiata.
Intorno a queste due grandi passioni si muovono molti altri elementi che compongono l’esistenza ancora in divenire, ma già complessa, di questa giovane donna: la famiglia lontana, ma centrale; le amiche, quelle storiche e quelle nuove; le difficoltà con lo studio e poi con il lavoro.
A differenza di altre scrittrici che percepisco molto generazionali e con cui non riesco a entrare in sintonia perché sento forte la distanza sia sul piano della scrittura che dei contenuti narrativi, del romanzo della Schneider ho invece apprezzato la sua capacità di parlare a tutti, anche al di là della sua generazione. Non v’è dubbio che la protagonista appartenga a una generazione con caratteristiche differenti dalla mia (e se ne trovano diversi segnali qua e là nella narrazione), ma i sentimenti, le emozioni, e i dubbi che esprime Amalia li ho sentiti vicini e universali, anche quando i riferimenti di contesto non mi appartenevano completamente.
Insomma, mi sono emozionata e ho seguito con interesse e apprensione questa storia d’amore, che pur essendo una storia tardoadolescenziale e avendo come protagoniste due ragazze, mi pare possa parlare a chiunque nella vita si interroghi sul senso dell’amore.
Mi sarebbe piaciuto poter ascoltare la musica contenuta nei frammenti di spartito di cui è disseminato il romanzo, ma non ho trovato alcuna app gratuita che leggesse per me la musica e la riproducesse (qualcuno ha conoscenze in questo senso?), visto che io a riguardo sono completamente negata! Ma pazienza.
Voto: 3,5/5
Ho iniziato a leggere questo libro con un po’ di apprensione. Ho ormai un’età tale che le storie rivolte primariamente al pubblico giovanile mi lasciano un po’ perplessa in quanto tendo a trovarle superficiali o comunque troppo legate a un momento della vita che per me è inevitabilmente passato.
Dunque, di fronte alla storia di Amalia, aspirante cantante lirica australiana che si trasferisce a Oxford per studiare e di cui seguiamo l’evoluzione individuale e sentimentale nel corso di circa quattro anni, ho avuto all’inizio un atteggiamento piuttosto scettico.
In realtà, man mano che andavo avanti nella lettura, Amalia mi ha progressivamente conquistata, grazie alla stratificazione del suo personaggio e alla sincerità dei sentimenti che esprime. Al centro del racconto di Indyana Schneider – che è effettivamente una cantante lirica – ci sono due grandi passioni, con tutti gli alti e bassi cui inevitabilmente tutte le passioni vanno incontro nel corso della vita: quella per la musica, di cui l’esistenza di Amalia è innervata, e quella per Alex, un’altra studentessa di Oxford, di qualche anno più grande, di cui Amalia diventa prima grande amica e poi si innamora, ricambiata.
Intorno a queste due grandi passioni si muovono molti altri elementi che compongono l’esistenza ancora in divenire, ma già complessa, di questa giovane donna: la famiglia lontana, ma centrale; le amiche, quelle storiche e quelle nuove; le difficoltà con lo studio e poi con il lavoro.
A differenza di altre scrittrici che percepisco molto generazionali e con cui non riesco a entrare in sintonia perché sento forte la distanza sia sul piano della scrittura che dei contenuti narrativi, del romanzo della Schneider ho invece apprezzato la sua capacità di parlare a tutti, anche al di là della sua generazione. Non v’è dubbio che la protagonista appartenga a una generazione con caratteristiche differenti dalla mia (e se ne trovano diversi segnali qua e là nella narrazione), ma i sentimenti, le emozioni, e i dubbi che esprime Amalia li ho sentiti vicini e universali, anche quando i riferimenti di contesto non mi appartenevano completamente.
Insomma, mi sono emozionata e ho seguito con interesse e apprensione questa storia d’amore, che pur essendo una storia tardoadolescenziale e avendo come protagoniste due ragazze, mi pare possa parlare a chiunque nella vita si interroghi sul senso dell’amore.
Mi sarebbe piaciuto poter ascoltare la musica contenuta nei frammenti di spartito di cui è disseminato il romanzo, ma non ho trovato alcuna app gratuita che leggesse per me la musica e la riproducesse (qualcuno ha conoscenze in questo senso?), visto che io a riguardo sono completamente negata! Ma pazienza.
Voto: 3,5/5
mercoledì 3 settembre 2025
Mostre a Roma a Ferragosto: Tina Modotti e George Hoyningen-Huene
Approfitto di un raro - per me - ferragosto romano per andare a visitare due mostre di fotografia in corso a Roma, ossia Tina Modotti. Donna, fotografa, militante. Una vita fra due mondi, al Museo di Roma in Trastevere, e George Hoyningen-Huene. Art. Fashion. Cinema, a Palazzo Braschi.
La prima mostra, gratuita con la Mic card, occupa un’ala del secondo piano del Museo di Roma in Trastevere, dove sono in corso altre due mostre non fotografiche. Si tratta di una mostra piuttosto piccola – una sessantina di foto – provenienti dalla collezione della Fototeca dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) della Città di Pachuca Hidalgo, la più grande Fototeca Iberoamericana.
La mostra racconta da un lato il percorso fotografico della Modotti, dalle prime foto di still life – nate dalla frequentazione del grande fotografo Edward Weston - passando per il reportage sulle donne di Tehuantepec fino ad arrivare alle foto realizzate a Berlino e a Madrid negli ultimi anni della sua breve vita, dall’altro il percorso umano e politico di questa donna che è stata al centro del complesso momento storico che l’Europa e il mondo hanno vissuto nella prima metà del Novecento, abbracciando l’ideologia comunista ma dimostrando soprattutto una mente eclettica, poliedrica e aperta sul fronte sia artistico che umano.
Della mostra mi sono piaciute soprattutto le integrazioni di tipo documentario, ossia le lettere, le poesie, le testimonianze lasciate dalla Modotti, che per quanto mi riguarda mi hanno consentito di interpretare, spero più correttamente, il suo rapporto con la fotografia e con la vita.
La seconda mostra che sono andata a visitare è quella dedicata a un’altra figura di grande rilievo nella storia della fotografia, sebbene meno conosciuta per il grande pubblico, George Hoyningen-Huene.
La mostra, curata da Susanna Brown, espone oltre 100 fotografie organizzate in 10 sezioni, che raccontano il percorso umano e artistico di questo grande fotografo, nato a San Pietroburgo nel 1900 da una famiglia altolocata, e morto a Los Angeles nel 1968. Hoyningen-Huene fu soprattutto fotografo di moda, lavorando per molti anni per la rivista Vogue e successivamente per Harper’s Bazaar, e nell’ambito della moda fu un maestro indiscusso nella gestione della luce e nella composizione fotografica, traendo ispirazione dai balletti russi, dall’antichità classica, dal surrealismo, dalle atmosfere dei ruggenti anni Venti. Mi ha colpito sapere che la sua foto forse più iconica, Divers, che ritrae Lee Miller e Horst P. Horst, compagno del fotografo, di spalle con costumi da bagno, e fa pensare a un’ambientazione marina, è stata in realtà realizzata sul terrazzo della sua casa.
Hoyningen-Huene fu infatti uno sperimentatore e un precursore su molti fronti, ad esempio nel ritrarre i nudi maschili come statue antiche, o ancora nella scelta e nell’uso del colore dopo l’avvento della Kodachrome, o ancora nel lavoro di direttore dei costumi e dei colori negli anni di massimo splendore del cinema hollywoodiano.
Il fotografo in tutta la sua carriera fu al centro della vita culturale e intrattenne direttamente rapporti con moltissime figure rappresentative di diversi contesti, da Salvador Dalì a Jean Cocteau, da Coco Chanel alla già citata Lee Miller, da Joséphine Baker a Sophia Loren, e visse una vita personale e professionale libera e sfaccettata, che appare moderna persino a noi.
Voto: 3/5 (Modotti); 4/5 (Hoyningen-Huene)
La prima mostra, gratuita con la Mic card, occupa un’ala del secondo piano del Museo di Roma in Trastevere, dove sono in corso altre due mostre non fotografiche. Si tratta di una mostra piuttosto piccola – una sessantina di foto – provenienti dalla collezione della Fototeca dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) della Città di Pachuca Hidalgo, la più grande Fototeca Iberoamericana.
La mostra racconta da un lato il percorso fotografico della Modotti, dalle prime foto di still life – nate dalla frequentazione del grande fotografo Edward Weston - passando per il reportage sulle donne di Tehuantepec fino ad arrivare alle foto realizzate a Berlino e a Madrid negli ultimi anni della sua breve vita, dall’altro il percorso umano e politico di questa donna che è stata al centro del complesso momento storico che l’Europa e il mondo hanno vissuto nella prima metà del Novecento, abbracciando l’ideologia comunista ma dimostrando soprattutto una mente eclettica, poliedrica e aperta sul fronte sia artistico che umano.
Della mostra mi sono piaciute soprattutto le integrazioni di tipo documentario, ossia le lettere, le poesie, le testimonianze lasciate dalla Modotti, che per quanto mi riguarda mi hanno consentito di interpretare, spero più correttamente, il suo rapporto con la fotografia e con la vita.
La seconda mostra che sono andata a visitare è quella dedicata a un’altra figura di grande rilievo nella storia della fotografia, sebbene meno conosciuta per il grande pubblico, George Hoyningen-Huene.
La mostra, curata da Susanna Brown, espone oltre 100 fotografie organizzate in 10 sezioni, che raccontano il percorso umano e artistico di questo grande fotografo, nato a San Pietroburgo nel 1900 da una famiglia altolocata, e morto a Los Angeles nel 1968. Hoyningen-Huene fu soprattutto fotografo di moda, lavorando per molti anni per la rivista Vogue e successivamente per Harper’s Bazaar, e nell’ambito della moda fu un maestro indiscusso nella gestione della luce e nella composizione fotografica, traendo ispirazione dai balletti russi, dall’antichità classica, dal surrealismo, dalle atmosfere dei ruggenti anni Venti. Mi ha colpito sapere che la sua foto forse più iconica, Divers, che ritrae Lee Miller e Horst P. Horst, compagno del fotografo, di spalle con costumi da bagno, e fa pensare a un’ambientazione marina, è stata in realtà realizzata sul terrazzo della sua casa.
Hoyningen-Huene fu infatti uno sperimentatore e un precursore su molti fronti, ad esempio nel ritrarre i nudi maschili come statue antiche, o ancora nella scelta e nell’uso del colore dopo l’avvento della Kodachrome, o ancora nel lavoro di direttore dei costumi e dei colori negli anni di massimo splendore del cinema hollywoodiano.
Il fotografo in tutta la sua carriera fu al centro della vita culturale e intrattenne direttamente rapporti con moltissime figure rappresentative di diversi contesti, da Salvador Dalì a Jean Cocteau, da Coco Chanel alla già citata Lee Miller, da Joséphine Baker a Sophia Loren, e visse una vita personale e professionale libera e sfaccettata, che appare moderna persino a noi.
Voto: 3/5 (Modotti); 4/5 (Hoyningen-Huene)
lunedì 1 settembre 2025
Triste tigre / Neige Sinno
Triste tigre / Neige Sinno; trad. dal francese di Luciana Cisbani. Vicenza: Neri Pozza, 2024.
Il libro di Neige Sinno, che ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è uno strano oggetto letterario. Non è certamente un romanzo, possiamo definirlo un'autobiografia, ma anche all'interno di questo genere mantiene una sua originalità, o anomalia che dir si voglia. Assomiglia di più a un flusso di coscienza, ma anche questa definizione non lo rappresenta pienamente.
Triste tigre è il punto di vista dell'autrice in merito agli abusi subiti dal patrigno nel lungo periodo tra i suoi 7-8 anni e i suoi 15-16 anni.
Si tratta di una vicenda che risale ormai a un passato piuttosto lontano e per il quale il patrigno è stato condannato e ha scontato i suoi anni di carcere (dopo i quali si è fatto una nuova famiglia).
La molla che spinge la Sinno a raccontare la sua storia e i suoi sentimenti è il fatto di ritrovarsi a sua volta ad aver costruito una famiglia e ad avere una figlia con il suo compagno.
Per la Sinno non è questione di accertare la verità o di far venire alla luce dettagli ancora non emersi, bensì di fare i conti con i sentimenti contraddittori che una vicenda come questa innescano, nelle vittime per certi aspetti, e negli altri - il pubblico, le persone non coinvolte - per altri aspetti.
Il libro della Sinno non punta sulla complicità, sulla compassione, sull'empatia in senso stretto. Piuttosto appare, nell'approccio dell'autrice, una sfida o forse una necessità, in fondo tutta personale.
La Sinno non cerca l'approvazione o la condiscenza del lettore, e nemmeno la simpatia, bensì vuole raccontare una verità scomoda ma incontrovertibile di chi si porterà dietro per sempre le cicatrici di questa esperienza, e indagare dentro sé stessa alla ricerca di eventuali segni di mostruosità.
Non una lettura riconciliante, non sono nemmeno sicura di poter dire che mi sia piaciuto. Certamente però mi ha colpito.
Voto: 3,5/5
Il libro di Neige Sinno, che ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è uno strano oggetto letterario. Non è certamente un romanzo, possiamo definirlo un'autobiografia, ma anche all'interno di questo genere mantiene una sua originalità, o anomalia che dir si voglia. Assomiglia di più a un flusso di coscienza, ma anche questa definizione non lo rappresenta pienamente.
Triste tigre è il punto di vista dell'autrice in merito agli abusi subiti dal patrigno nel lungo periodo tra i suoi 7-8 anni e i suoi 15-16 anni.
Si tratta di una vicenda che risale ormai a un passato piuttosto lontano e per il quale il patrigno è stato condannato e ha scontato i suoi anni di carcere (dopo i quali si è fatto una nuova famiglia).
La molla che spinge la Sinno a raccontare la sua storia e i suoi sentimenti è il fatto di ritrovarsi a sua volta ad aver costruito una famiglia e ad avere una figlia con il suo compagno.
Per la Sinno non è questione di accertare la verità o di far venire alla luce dettagli ancora non emersi, bensì di fare i conti con i sentimenti contraddittori che una vicenda come questa innescano, nelle vittime per certi aspetti, e negli altri - il pubblico, le persone non coinvolte - per altri aspetti.
Il libro della Sinno non punta sulla complicità, sulla compassione, sull'empatia in senso stretto. Piuttosto appare, nell'approccio dell'autrice, una sfida o forse una necessità, in fondo tutta personale.
La Sinno non cerca l'approvazione o la condiscenza del lettore, e nemmeno la simpatia, bensì vuole raccontare una verità scomoda ma incontrovertibile di chi si porterà dietro per sempre le cicatrici di questa esperienza, e indagare dentro sé stessa alla ricerca di eventuali segni di mostruosità.
Non una lettura riconciliante, non sono nemmeno sicura di poter dire che mi sia piaciuto. Certamente però mi ha colpito.
Voto: 3,5/5
giovedì 14 agosto 2025
Da Orléans a Tours in bicicletta
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Due pescatori nella Loira vicino a Beaugency |
Dopo l’esperienza dello scorso anno con le biciclette a pedalata assistita, S. insiste perché quest’anno torniamo alle biciclette normali, e per questo cerchiamo un viaggio relativamente breve e soprattutto affrontabile con scarsa preparazione atletica. La scelta ricade su un paese che in bicicletta abbiamo girato in lungo e in largo, la Francia, e in particolare su uno dei più classici percorsi in bicicletta, ossia i castelli della Loira.
Delle numerose varianti di questo viaggio, scegliamo il percorso da Orléans a Tours, e uno degli elementi per me più motivanti è il fatto che ricordo ancora le briochette che avevo comprato e mangiato in un panificio nella zona della stazione di Tours al termine del viaggio in bicicletta in Poitou-Charentes nel 2019!
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Orléans, Place du Mortroi |
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Orléans
Dopo il lungo viaggio in treno che ci porta a Orléans, cambiando a Milano e poi a Parigi (con un trasbordo inatteso a Macone, in mezzo alle Alpi francesi, che determinerà più di 40 minuti di ritardo), dedichiamo la prima giornata a scoprire la città, prima di iniziare le nostre tappe in bici.
Partendo dal nostro albergo poco fuori il centro della città, l’hotel Escale Oceania, andiamo alla scoperta di Place du Mortroi e da lì della Cathédrale Sainte-Croix dove è in corso una funzione con tantissima gente, che scopriamo dopo essere le cresime.
Orléans
Dopo il lungo viaggio in treno che ci porta a Orléans, cambiando a Milano e poi a Parigi (con un trasbordo inatteso a Macone, in mezzo alle Alpi francesi, che determinerà più di 40 minuti di ritardo), dedichiamo la prima giornata a scoprire la città, prima di iniziare le nostre tappe in bici.
Partendo dal nostro albergo poco fuori il centro della città, l’hotel Escale Oceania, andiamo alla scoperta di Place du Mortroi e da lì della Cathédrale Sainte-Croix dove è in corso una funzione con tantissima gente, che scopriamo dopo essere le cresime.
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Dentro la Cathédrale Sainte-Croix, Orléans |
Dopo un pranzo buono, ma non indimenticabile a L'escalier, facciamo una passeggiata lungo la Loira, il fiume che ci farà compagnia per buona parte del nostro viaggio.
Un’altra passeggiata nel centro storico la facciamo prima di andare a cena da Le Brin de Zinc, dove ci sediamo ai tavoli esterni con il sole che sta calando proprio di fronte a noi. Qui mangiamo molto bene, prendendo due menu, sebbene non si possa dire che si tratti di piatti estivi.
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Beaugency al tramonto |
1° tappa: Orleans - Beaugency (30 km)
Colazione, valigie, sistemazione biciclette e siamo in partenza lungo la Loira per una tappa piuttosto breve che ci porterà a Beaugency. Lungo il percorso facciamo una sosta a Saint Hilaire Saint-Mesmin, in una boulangerie per comprare qualcosa da mangiare per pranzo (quiche e brioche). Poi andiamo spedite fino a Meung sur Loire dove vorremmo vedere il nostro primo castello ma il lunedì e il martedì è chiuso, quindi ci accontentiamo della visita alla vicina chiesa.
Ripartiamo alla volta di Beaugency dove arriviamo all'ora di pranzo. Qui troviamo l’albergo dove alloggiamo chiuso e pure il castello. A quanto sembra entrambi aprono dopo pranzo, cosicché facciamo una pausa pranzo e un piccolo riposino su una panchina lungo il fiume, in compagnia di un gatto.
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Dentro la chiesetta di Saint Hilaire Saint-Mesmin |
Andiamo dunque verso l’albergo, finalmente aperto e molto carino, anche se essenziale, il Relais des templaires, e la signora alla reception, che è molto gentile, ci dà un elenco di ristoranti aperti il lunedì tra cui scegliamo la Rotisserie des moines, collegato all'Hotel de l'Abbaye. Carni alla griglia e contorni, tutto molto buono, oltre che una magnifica vista sulla Loira, anche se la gestione è un po’ naif. Facciamo infine una bella passeggiata in paese mentre tramonta il sole, prima di tornarcene in albergo.
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Il castello di Chambord |
2° tappa: Beaugency - Blois (50 km)
Dopo un’ottima colazione al nostro alberghetto di Beaugency, partiamo per la seconda tappa che ci porterà in circa una cinquantina di chilometri a Blois. I primi 15 km passano molto tranquilli lungo la Loira e anche la temperatura è ottimale.
Ci fermiamo a Saint Dyé sur Loire per comprare qualcosa per pranzo in una boulangerie e poi andiamo verso Chambord, per visitare il nostro primo vero castello. Qui lasciamo le bici e compriamo il biglietto per la visita. All’inizio del percorso ci fermiamo a vedere il video in una delle prime salette del castello e devo dire che si rivela essenziale per comprenderne genesi e struttura, e interpretare quello che vedremo. Dopo aver girato in lungo e in largo il castello, torniamo alle bici e mangiamo qualcosa in area picnic (con a fianco degli spagnoli rumorosissimi).
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Blois |
Peccato che, oltre a far fatica a trovarlo, l’albergo nel quale siamo, Anne de Bretagne, si rivela un’esperienza non esattamente positiva: siamo in piccionaia, in un’ala dell’albergo al terzo piano senza ascensore, la stanza è espostissima al sole, non c’è l’aria condizionata e l’unico ventilatore presente è rumorosissimo.
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Lungo il percorso in bicicletta |
Sarà perché siamo stanchissime ma non riusciamo a entrare pienamente in sintonia con la città, e tra l’altro quando torniamo in albergo la nostra camera ha una temperatura folle che ci costringe ad aprire finestra e porta della camera contemporaneamente per provare a creare un po’ di corrente. Peccato che dopo un po’ passano i vicini della stanza accanto proprio mentre ci stiamo cambiando.
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Il castello di Amboise |
3° tappa: Blois-Amboise (47 km)
Dopo una notte difficile a causa del caldo, ci alziamo presto e, fatta la colazione, cerchiamo di partire il prima possibile per sfruttare le ore più fresche. I primi 30 km scorrono via veloci lungo la Loira e in men che non si dica siamo a Chaumont, dove ovviamente c’è un castello. La nostra guida dice di fermarsi a visitarlo e di approfittare anche del Festival dei giardini in corso, ma pur arrivando fino all’ingresso, dopo una rapida valutazione dei tempi, decidiamo di non fermarci per non ritrovarci nella situazione del giorno precedente.
Arriviamo dunque al piccolo paese di Mosnes intorno all’ora di pranzo e qui c'è una piccola bottega che vende cose da mangiare e bere con dei tavolini all'ombra. Decidiamo dunque di fermarci per mangiare e riposarci un po’. Tra l’altro di lì a poco la bottega chiude per la pausa post-prandiale.
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La Loira ad Amboise |
E infatti attraversiamo campagne, vigneti e paesini andando su e giù per le piccole colline che caratterizzano questo paesaggio, con la temperatura che va aumentando, e che ci impedisce di apprezzare completamente quello che abbiamo intorno. Comunque, teniamo duro e, nonostante il caldo, arriviamo infine ad Amboise dalla parte alta della città.
Il nostro alberghetto, Le blason, è un edificio storico a pochi passi dal centro, ma dentro c'è un bel fresco e le stanze sono ben ristrutturate! Evviva!
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Amboise |
Dopo un giro in centro, un aperitivo (finalmente il mio pastis!) e una passeggiata lungo la Loira – funestati da un caldo micidiale - scegliamo il posto dove andare a cena, ossia la Maison Restaurant Voltaire, dove mangiamo un tataki di tonno e un confit de canard con patatine fritte più 25 cl di un ottimo rosato locale. Consigliato.
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Il castello di Chenonceaux |
4° tappa: Amboise - Tours (55 km)
Stamattina ci alziamo di buon’ora perché abbiamo deciso di fare il giro lungo, quello con la deviazione a Chenonceaux che tutti ci dicono essere il castello più bello della zona. Quando ci alziamo ci rendiamo conto che durante la notte ha piovuto e l'aria si è rinfrescata, anche se questo ha prodotto una grande umidità nell’aria! Mentre facciamo colazione comincia di nuovo a piovere e dunque aspettiamo un attimo prima di partire.
Appena smette andiamo a prendere le bici e, dopo una piccola disavventura con dei vecchietti che hanno fatto bloccare il cancello del garage, finalmente partiamo.
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Dentro il castello di Chenonceaux |
Il percorso inizia subito con una bella salita a metà della quale scendo. Sono già demoralizzata, ma in realtà a poco a poco prendo il ritmo dei saliscendi che in circa 15 chilometri ci portano a Chenonceaux. È piuttosto presto e al castello c'è ancora poca gente, così iniziamo la visita in santa pace. Peccato che man mano che procediamo il numero delle persone si fa sempre più alto e la visita sempre più stressante.
Il castello però è bellissimo, e il fatto che la sua struttura si sviluppi a cavallo del fiume Cher con le sale fatte costruire da Caterina de’ Medici direttamente sul ponte lo rende molto affascinante. L’area occupata è molto ampia e, oltre agli interni del castello vero e proprio, meritano una visita e suscitano emozioni anche i giardini, il gabinetto delle scienze, la cancelleria e la farmacia.
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Verso Tours |
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Tours
Come per Orléans, dedichiamo alla città di Tour una intera giornata, dopo la conclusione del viaggio in bicicletta, per poter esplorare al meglio questa città.
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Per le strade di Tours |
Per il giro della città ci affidiamo all’app di viaggio che stiamo utilizzando.
Partiamo dalla zona più antica, l'insediamento che risale al periodo gallo-romano, poi andiamo verso la cattedrale di Saint Gatien, dove visitiamo anche il chiostro interno.
Da qui procediamo verso Rue Colbert, la strada dei ristoranti, quindi sbuchiamo su Rue National, dopo aver visto numerose case a graticcio e chiese, quindi ci affacciamo sulla Loira dove è stata allestita la guinguette estiva.
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Nel chiostro della cattedrale di Tours |
Arriviamo dunque alla zona delle librerie antiquarie e poi al teatro dell'opera e infine al Musée des beaux arts dove visitiamo solo i giardini e salutiamo l'elefante impagliato Fritz che ha una storia molto triste alle spalle.
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Rue Colbert, Tours |
Ovviamente non possiamo (e nessuno può) perdere a Tours la Briocherie Lelong dove compro tutte le briochette che ragionevolmente posso portare in Italia, oltre a quelle da mangiare al momento.
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Rue National, Tours |
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Per una selezione più ampia di foto del viaggio si veda qui sul mio profilo Behance.
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