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giovedì 5 marzo 2020

Con il vostro irridente silenzio / di e con Fabrizio Gifuni. Teatro Vascello, 18 febbraio 2020

È il giorno della prima del nuovo spettacolo teatrale di Fabrizio Gifuni, in programmazione al Teatro Vascello. La sala a poco a poco si riempie completamente, e molte sono facce note della politica, dello spettacolo, del giornalismo.

Le luci si spengono e Fabrizio Gifuni entra e si ferma al centro del palco, raccontandoci come è nato questo spettacolo e qual è il suo contenuto. Tutto è cominciato con lo studio delle carte che Aldo Moro scrisse durante i suoi 55 giorni di prigionia nelle mani delle Brigate Rosse, o quanto meno di quella parte delle carte che sono pervenute fino a noi. Gifuni ci ricorda che la parte degli scritti di Moro che conosciamo è il risultato di invii e di successivi "ritrovamenti", dei quali l'ultimo avvenuto a distanza di molto tempo dalla sua morte e comprende moltissime lettere, ai familiari, agli amici, ai compagni di partito e ad altri personaggi politici, e il cosiddetto "memoriale", un testo di carattere politico stimolato anche dalle domande dei carcerieri. L'attore si sofferma anche sul fatto che le prime lettere che furono spedite da Moro durante la prigionia furono bollate come "false" da parte della dirigenza del partito, e in alcuni casi come il risultato di forme di coercizione da parte dei brigatisti, cosa tra l'altro rispetto alla quale - a più riprese negli scritti successivi - Moro si mostra incredulo e rammaricato.

Dopo questa importante premessa, l'attore scompare dietro le quinte e ricompare poco dopo, calato nelle vesti di Aldo Moro, con un grosso plico di fogli in mano, che di lì in poi leggerà in ordine cronologico e senza soluzione di continuità.

Il tono è inizialmente sofferente, tenero, accorato, ancora pieno di fiducia; poi via via si fa sempre più disperato e rabbioso, consapevole di essere stato abbandonato dal partito e dalle istituzioni in nome di una presunta ragion di stato o forse di qualcos'altro ancora.

Pur trovandoci semplicemente di fronte a un uomo che legge delle lettere e altri scritti, l'esperienza è fortemente immersiva e il merito è da un lato del contenuto potente di queste pagine, dall'altro della capacità di Gifuni di calarsi nello stato d'animo del suo personaggio, trasmettendolo in presa diretta non solo attraverso le parole, bensì anche attraverso le modulazioni della voce e i movimenti, contenuti ma eloquenti.

Un bagno doloroso in una delle pagine più oscure e più tristi della storia repubblicana italiana, i cui contorni ancora oggi restano in ombra e il cui intreccio affonda le radici in vicende che vanno al di là dei confini nazionali.

Bisogna rendere merito a Gifuni, dopo aver dato voce agli scritti di Gadda e Pasolini, di aver restituito la voce a un uomo la cui voce è stata e continua a essere ridotta al silenzio.

Voto: 3,5/5

lunedì 20 gennaio 2014

Il capitale umano

L'ultima opera di Paolo Virzì è in qualche modo sorprendente rispetto alla filmografia precedente del regista, fors'anche perché la sceneggiatura si ispira all'opera di Stephen Amidon e su questa, oltre al regista, ci hanno messo le mani Francesco Bruni e Francesco Piccolo.

In ogni caso, Virzì ci stupisce proponendoci un'opera drammatica, a metà strada tra un giallo e un saggio sociologico. Una storia costruita a cerchi concentrici, i cui dettagli vengono raccontati attraverso i punti di vista di tre personaggi, Dino (Fabrizio Bentivoglio), Carla (Valeria Bruni Tedeschi) e Serena (Matilde Gioli), e che ci svela poco a poco i tasselli di un puzzle le cui tinte si fanno sempre più fosche sul piano emotivo.

Tale struttura narrativa si stringe come un cappio intorno al collo del povero spettatore che, dopo un inizio che strizza l'occhio alla commedia grazie al personaggio un po' macchiettistico di Dino, si trova di fronte a un intreccio in cui nessuno è innocente, ciascuno è portatore - sebbene in maniera differente - di una parte di responsabilità. Alla fine la gola è secca e lo stomaco attorcigliato, perché neppure chi guarda può veramente sentirsi estraneo rispetto al disfacimento morale di un paese.

La vicenda ruota intorno a una brutta sera durante la quale un SUV su una strada di collina, con una manovra brusca, fa andare fuori strada un ciclista provocandone la caduta. L'autista non si ferma a prestare soccorso. Il ciclista (un cameriere) qualche tempo dopo muore.

Intorno a questo SUV le storie di due famiglie: quella dei Bernaschi, finanzieri di alto profilo (Giovanni e Carla e il figlio Massimiliano) e quella dell'immobiliarista Dino (con la seconda moglie Roberta e la figlia di primo letto, Serena).

Ne viene fuori quasi un capitolo del "ciclo dei vinti" di verghiana memoria, con una triste morale che sembra confermare l'immutabilità di dinamiche sociali nelle quali ognuno paga o si avvantaggia in base alla posizione che il destino gli ha riservato, accettandone aspetti positivi e negativi, cui si aggiunge un interessante scandaglio psicologico sulla vastità dei compromessi che ognuno fa con se stesso per ottenere quello che vuole.

Da questo punto di vista il personaggio di Carla è emblematico, e forse anche quello psicologicamente più interessante, perché è un personaggio dolente, che sembra avere spirito critico e insofferenza per gli aspetti deteriori del mondo cui appartiene, ma la cui sofferenza si rivela poco a poco frutto delle sovrastrutture di finzione che attua persino rispetto a se stessa.

Chiuderei con un unico appunto: se dramma doveva essere, allora mi sarei aspettata che Virzì lo portasse fino in fondo, alle sue estreme conseguenze. Le immagini finali su cui si chiude il film ci comunicano che persino la tragedia non appartiene più a un mondo in cui in qualche modo tutti riescono a rimanere a galla, ciascuno in proporzione ai mezzi di cui dispone.

Voto: 3,5/5

martedì 17 aprile 2012

Romanzo di una strage

Per una che è nata nel 1973 e si è affacciata all'età della ragione in pieni anni Ottanta in un piccolo paesino di provincia dell'Italia meridionale dove della politica e delle ideologie arrivavano solo echi lontani, l'epoca raccontata in Romanzo di una strage appare da un lato estranea - o forse sarebbe meglio dire incomprensibile - ma allo stesso tempo affascinante come tutto ciò che è al di fuori dei confini dell'esperienza personale.

Per quanto mi riguarda mi riesce difficile se non impossibile figurarmi un clima politico e sociale con una partecipazione così accanita, e mi confondono la varietà e complessità dei movimenti politici che operavano all'interno del tessuto sociale italiano. Ma soprattutto la cosa per me più incomprensibile è quella vera e propria ossessione dell'invasione comunista che in quegli anni la guerra fredda aveva alimentato a livelli talmente esasperati da creare un clima di sospetto e di tensione quasi insostenibile (e che in qualche modo mi ricorda vicende più recenti).

Negli anni Sessanta-Settanta la fine della guerra e del fascismo non sembrano vicende passate da più di vent'anni, ma una specie di ferita aperta nella società italiana.

Gli attori in campo sono numerosi (anarchici, neofascisti, militari, servizi segreti, NATO, sinistra extraparlamentare) e i confini tra i diversi gruppi non sono affatto nitidi. C'è chi è mosso dalle idee, chi dalla passione politica, chi da progetti eversivi e chi approfitta di tutto questo per ricavarne un vantaggio economico o accreditarsi in un senso o in un altro.

Non è dunque strano che in un lasso di tempo tutto sommato breve com'è quello raccontato in Romanzo di una strage (dall'autunno caldo del 1969 all'uccisione di Calabresi nel 1972) sono numerosi gli eventi che hanno sconvolto la vita del nostro paese e gli episodi che a distanza di quarant'anni restano ancora oscuri: dalla bomba esplosa alla Banca Nazionale dell'Agricoltura alla morte dell'anarchico Pinelli, dalla morte dell'editore Giangiacomo Feltrinelli all'assassinio dello stesso commissario Calabresi.

Il film di Marco Tullio Giordana - strizzando l'occhio a Pasolini e a Romanzo criminale - si dichiara intelligentemente Romanzo perché è certo difficile pretendere di esprimere verità storiche su una vicenda su cui si sono versati fiumi di inchiostro senza che si sia mai trovata convergenza su una ipotesi.

Non a caso il film di Giordana ha alimentato nuovamente il dibattito, in quanto citando alcune ricostruzioni proposte da Paolo Cucchiarelli ne Il segreto di piazza Fontana - in particolare quella della doppia bomba - ha immediatamente determinato la reazione di molti, in primis Adriano Sofri che ha pubblicato un instant book in cui contesta tale ipotesi portando una serie di argomentazioni.

Ovviamente sono l'ultima persona al mondo che può esprimersi sulla verità storica non conoscendo affatto la documentazione che altri hanno approfonditamente studiato. Chissà poi se si tratta di una verità che qualcuno conosce veramente e in tutte le sue sfaccettature.

L'aspetto romanzesco del film sta inoltre in una rappresentazione sì rigorosa dei personaggi, ma anche volutamente addolcita. L'intera vicenda viene fatta ruotare intorno a tre personaggi disegnati in maniera positiva: Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino), l'anarchico buono che finisce vittima di una vicenda incomprensibile, Luigi Calabresi (il sempre bravo Valerio Mastandrea) un poliziotto sui generis, vittima anche lui del sistema, Aldo Moro (il camaleontico Fabrizio Gifuni), politico timorato di Dio e preoccupato della deriva del proprio paese.

Probabilmente le cose non stavano esattamente così, perché luci e ombre sono parte costitutiva dell'umanità. A questi tre personaggi però il regista ci consente di aggrapparci per non sprofondare nell'abisso di un periodo storico nerissimo per il nostro paese.

Cinematograficamente e scenograficamente il film è molto bello e fa uno sforzo - sostanzialmente riuscito - per sintetizzare una vicenda complessa che ha molti percorsi paralleli e numerosissimi protagonisti. Gli attori sono il meglio che il panorama italiano potesse offrire.

All'Italia di oggi - che, come dice Sofri, ha un'età media di poco più di 43 anni - un film così serve per riaprire una pagina difficile della storia del nostro paese da una distanza forse sufficiente per analizzarla.
Oggi le sfide sono globali, ma l'umanità è sempre la stessa.

L'auspicio è che si possa evitare di ripetere in forme e modi diversi le medesime ossessioni, di riprodurre gli stessi giochi di potere, di rivivere lo stesso senso di frustrazione.

Chissà se è davvero possibile. Certo sarebbe bello.

Voto: 3,5/5

lunedì 7 novembre 2011

La kryptonite nella borsa

Quello di Ivan Cotroneo non è certamente un nome nuovo. Personalmente lo associo al romanzo Cronaca di un disamore che avevo letto un po’ di anni fa a seguito della fine di una storia e che avevo trovato bello, anche se un pochino deprimente, ma anche alle numerose sceneggiature firmate per importanti film di importanti registi italiani, non ultima quella di Mine vaganti di Ferzan Ozpetek.

Con La kryptonite nella borsa Cotroneo fa il salto dalla storia scritta a quella raccontata per immagini e si cimenta – con ottimi risultati – dietro la macchina da presa, sostenuto da una sceneggiatura scritta da lui stesso e da un gruppo di lavoro di grande qualità e mestiere: dal cast formato da attori quali Luca Zingaretti, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni, Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo, a un direttore della fotografia del calibro di Luca Bigazzi (che ha dato poco firmato anche il film di Sorrentino) a una colonna sonora sempre accattivante come è quella degli anni ’70.

Non so se ci sia qualcosa di autobiografico nella storia raccontata in questo film, certo è che Cotroneo è nato negli anni ’60 a Napoli, esattamente come Peppino, il protagonista del film (magnificamente interpretato da Luigi Catani), e dunque conosce molto bene il contesto che racconta. Non è nuova per Cotroneo neppure l’idea di raccontare la storia di un personaggio che - a suo modo - è diverso dal contesto che lo circonda e che dovrà trovare la forza e la consapevolezza di sé per andare per la sua strada.

In questo caso si tratta di Peppino, nato nel 1964 a Napoli in una famiglia che non si fa fatica a definire disfunzionale. Della vita di Peppino ci viene raccontato il 1973, anno in cui lui, capellone, grossi occhiali da miope, preso in giro dai suoi compagni di classe, si trova a fare i conti con un momento familiare difficile. Sua madre Rosaria (una dolente Valeria Golino) scopre che suo marito (uno straordinario Luca Zingaretti) la tradisce con la figlia della tabaccaia nella Seicento familiare che usa per andare a lavorare nel negozio di macchine da cucire, e cade in depressione, trascorrendo intere giornate a letto. Gli equilibri familiari già piuttosto precari vengono ulteriormente messi in discussione.
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E così Peppino trascorre di volta in volta le sue giornate con suo padre che un po’ goffamente tenta di svolgere un ruolo rispetto al quale non si sente del tutto all’altezza, con i suoi nonni, un po’ duri e autoritari e, soprattutto, molto presenti in questa famiglia allargata, con i suoi due zii “scapoli” (Titina, interpretata da Cristiana Capotondi, e Salvatore, molto ben rappresentato da Libero De Rienzo) che trascorrono le giornate tra discoteche, collettivi femministi, musica, festivi dalle fantasie e dai colori optical, esperienze sessuali e acidi, e infine con Assunta (la collega di lavoro di Rosaria, interpretata da Monica Nappo) che viene da una famiglia poverissima e che è ossessionata dalla ricerca di un fidanzato.

Su tutto volteggia (e il termine non è casuale) il cugino Gennaro (Vincenzo Nemolato), un ragazzo ritardato che va in giro vestito – ma con i colori un po’ slavati - da Superman (ed è convinto che il suo punto debole - come per il supereroe - sia la kryptonite). Gennaro/Superman muore sotto un autobus, ma Peppino lo adotta come guida spirituale nei suoi sogni ad occhi aperti e con lui prenderà il volo dalla sua infanzia.

Definirei quella di Cotroneo una “commedia malinconica”, in cui si ride e si sorride, ma in fondo al cuore resta una certa qual tristezza mista a nostalgia. La nostalgia di un mondo passato, riletto in maniera creativa più che documentaristica, un mondo in fondo più essenziale di quello di oggi, con codici più facilmente leggibili; la tristezza di constatare che alcune dinamiche umane sono senza tempo e di condividere la sensazione di spaesamento di Peppino in questo mondo di adulti incerti, insoddisfatti, infantili a loro volta.

Cotroneo dimostra di essere bravo a tenere insieme tutti i pezzi di questa storia composita mantenendo un apprezzabile senso della misura, salvo nella invadente voce fuoricampo iniziale (che – come dice Mereghetti – per fortuna, ma anche incongruamente scompare dopo i primi minuti). Va detto però che la parte più riuscita del film è forse proprio quella eccessiva e un po’ sopra le righe, rappresentata dal mondo degli zii Titina e Salvatore, mentre lì dove la rappresentazione si fa più contenuta e – per quanto possibile – più realistica risulta insoddisfacente perché ci si aspetterebbe una maggiore profondità di analisi e, invece, anche su questo fronte si rimane in qualche modo sulla superficie.

In due parole, un debutto dietro la macchina da presa gradevole e cinematograficamente corretto quello di Cotroneo. Non un capolavoro, ma questo dovrebbe lasciargli aperte più possibilità per le sue prossime prove.

E poi il fidanzato di Assunta mi ricordava troppo mio padre nelle fotografie da giovane!

Voto: 3/5

lunedì 11 gennaio 2010

L'uomo nero

Per me, pugliese in esilio volontario, vedere un film di Sergio Rubini è sempre un'emozione.
Mi era successo già - e forse ancora di più - con La terra; la conferma arriva ora da L'uomo nero.

Non v'è dubbio sul fatto che Rubini, ormai più che cinquantenne e da una vita ormai lontano dalla sua terra d'origine, la Puglia, stia vivendo una fase di rivisitazione e riappropriazione delle proprie radici, quelle radici forse a lungo disconosciute e ad un certo punto ritornate prepotentemente alla ribalta del proprio vissuto e del proprio percorso emotivo.
Due cose in particolare mi piace sottolineare: da un lato, il fatto che l'alter ego di Rubini in questi film (qui Fabrizio Gifuni, ne La terra Fabrizio Bentivoglio) vengano sempre rappresentati come persone che hanno fatto fortunate carriere e con un grande successo personale, ma tendenzialmente scialbe, incolore, prive di un'identità vera, che solo la conciliazione con la propria terra fa rivivere. Dall'altro lato, è assolutamente interessante lo sguardo di questi esuli, che certamente colgono della propria realtà originaria molte sfumature che chi ci ha sempre vissuto non è in grado di vedere, ma, nel processo di elaborazione e filtro operato dalla memoria, in qualche maniera fissano la realtà a un momento passato e così continuano a vederla, perdendo in parte la capacità di coglierne l'evoluzione.

Capisco, dunque, anche perché chi va a vedere i film di Rubini senza avere alle spalle un vissuto emotivo in qualche misura comparabile può apprezzare l'invenzione narrativa e la bravura degli interpreti, ma tutto sommato non riesce a coglierne messaggi realmente generalizzabili. E così sicuramente il piccolo Guido Giaquinto è bravo e fa tenerezza, Rubini, Scamarcio e la Golino tengono molto bene la scena ed evitano ai loro personaggi il macchiettismo, però solo a chi questo percorso lo ha vissuto sulla propria pelle il film permette di vivere un'avventura emotiva forte.

Non possiamo non provare una stretta al cuore quando lo zio Pinuccio dice al piccolo Gabriele: "Le cose a volte non sono come sembrano", perché bisogna avere la pazienza di aspettare che disvelino la loro vera natura.
E forse anche questa nostra insensata vita che ci allontana per riavvicinarci, che prima ci fa inseguire la nostra identità lontano dai luoghi e dalle persone della nostra infanzia, perché solo la distanza ci fa capire ciò che ci differenzia, alla fine ci fa ritornare lì dove tutto è cominciato, perché solo lì capiamo ciò che inesorabilmente ci appartiene e ci dà continuità.

Voto: 4/5

martedì 15 dicembre 2009

Dieci inverni

Semplicemente dieci anni della storia di Camilla (Isabella Ragonese) e Silvestro (Michele Riondino), amici, nemici, conoscenti, estranei e solo alla fine - forse - amanti.

In questi dieci anni succede tutto (storie d'amore, lauree, amicizie, figli) e, allo stesso tempo, niente. Certo non tutto ci viene raccontato - com'è giusto che sia -, solo frammenti delle vite dei due protagonisti, quelli che li fanno incontrare volontariamente o casualmente, nella bruma veneziana o tra la neve di Mosca.

Camilla e Silvestro inevitabilmente ci riportano alla mente la storia di Sara (Lorenza Indovina) e Marco (Fabrizio Gifuni), protagonisti del film Un amore, di Gianluca Maria Tavarelli, anche loro legati da un filo che non si spezza, ma nemmeno intreccia, sospesi in un rapporto cui dare un nome sarebbe delittuoso.

Nel suo minimalismo narrativo, Dieci inverni mi ha fatto però anche pensare in certi momenti a un altro film che ho molto amato, Un cuore in inverno, di Claude Sautet. Anche lì si riflette sul mistero dell'amore, quel sentimento che respingiamo per paura e poi dolorosamente e disperatamente cerchiamo.

Camilla e Silvestro sono in fondo anche loro due cuori in inverno che non si incontrano mai; ed è bellissima la scena in cui dall'alto li vediamo in un "campo" veneziano, separati da una chiesa, entrambi scorgono un prete al centro della piazza che trasporta un alberello, ma tra loro non si vedono e ognuno prosegue per la sua strada.
In fondo, è proprio questa in sintesi la loro storia: non si vedono o fanno finta di non vedersi, ciascuno trattenuto a terra dalla morsa di gelo che soffoca i sentimenti e che di volta in volta si manifesta sotto forma di egoismo, di orgoglio, di infantilismo, di paura, di superficialità, di meschinità.
E anche quando si incontrano chissà se poi si incontrano davvero...

Un gioiello la canzone di Capossela, Parla piano, che contribuisce a trasmettere al film di Mieli quella malinconia dell'incompiutezza e della solitudine da cui le nostre piccole vite umane sono inevitabilmente affette.

Se Lo spazio bianco era una riflessione sulla dilatazione del tempo che per quanto breve sembra interminabile se vissuto nell'attesa, Dieci inverni ci fa riflettere sul fatto che il tempo può avere percorsi lunghissimi e tortuosi, ma dieci anni possono essere come dieci giorni nella percezione di chi insegue qualcosa senza mai afferrarla.

Alla fine, resta anch'esso sospeso l'interrogativo: viviamo in balìa dell'intrinseca imperfezione dell'esistenza o della nostra incapacità soggettiva di placare i tumulti dell'animo e di riempire la nostra solitudine?

"Quando ami qualcuno
meglio amarlo davvero e del tutto
o non prenderlo affatto [...]
Che ti dà che mi dà
affidarsi a te non fidandomi di me"
(qui il testo completo della canzone di Capossela)

Voto: 4/5