Per me, pugliese in esilio volontario, vedere un film di Sergio Rubini è sempre un'emozione.
Mi era successo già - e forse ancora di più - con La terra; la conferma arriva ora da L'uomo nero.
Non v'è dubbio sul fatto che Rubini, ormai più che cinquantenne e da una vita ormai lontano dalla sua terra d'origine, la Puglia, stia vivendo una fase di rivisitazione e riappropriazione delle proprie radici, quelle radici forse a lungo disconosciute e ad un certo punto ritornate prepotentemente alla ribalta del proprio vissuto e del proprio percorso emotivo.
Due cose in particolare mi piace sottolineare: da un lato, il fatto che l'alter ego di Rubini in questi film (qui Fabrizio Gifuni, ne La terra Fabrizio Bentivoglio) vengano sempre rappresentati come persone che hanno fatto fortunate carriere e con un grande successo personale, ma tendenzialmente scialbe, incolore, prive di un'identità vera, che solo la conciliazione con la propria terra fa rivivere. Dall'altro lato, è assolutamente interessante lo sguardo di questi esuli, che certamente colgono della propria realtà originaria molte sfumature che chi ci ha sempre vissuto non è in grado di vedere, ma, nel processo di elaborazione e filtro operato dalla memoria, in qualche maniera fissano la realtà a un momento passato e così continuano a vederla, perdendo in parte la capacità di coglierne l'evoluzione.
Capisco, dunque, anche perché chi va a vedere i film di Rubini senza avere alle spalle un vissuto emotivo in qualche misura comparabile può apprezzare l'invenzione narrativa e la bravura degli interpreti, ma tutto sommato non riesce a coglierne messaggi realmente generalizzabili. E così sicuramente il piccolo Guido Giaquinto è bravo e fa tenerezza, Rubini, Scamarcio e la Golino tengono molto bene la scena ed evitano ai loro personaggi il macchiettismo, però solo a chi questo percorso lo ha vissuto sulla propria pelle il film permette di vivere un'avventura emotiva forte.
Non possiamo non provare una stretta al cuore quando lo zio Pinuccio dice al piccolo Gabriele: "Le cose a volte non sono come sembrano", perché bisogna avere la pazienza di aspettare che disvelino la loro vera natura.
E forse anche questa nostra insensata vita che ci allontana per riavvicinarci, che prima ci fa inseguire la nostra identità lontano dai luoghi e dalle persone della nostra infanzia, perché solo la distanza ci fa capire ciò che ci differenzia, alla fine ci fa ritornare lì dove tutto è cominciato, perché solo lì capiamo ciò che inesorabilmente ci appartiene e ci dà continuità.
Voto: 4/5
lunedì 11 gennaio 2010
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