Devo ammetterlo. Anche stavolta ho pianto, ma quello che è ancora più incredibile è che Virzì è riuscito anche a farmi ridere tra le lacrime.
Certo, Virzì non è nuovo a "commedie" mature e intelligenti (si pensi a Ovosodo, a Caterina va in città o al recente Tutta la vita davanti), ma La prima cosa bella, secondo me, raggiunge un equilibrio, una compattezza e una verità che spesso fanno difetto ai film italiani.
Sul risultato finale non è indifferente la stroardinaria prova attoriale di Stefania Sandrelli, di Claudia Pandolfi e soprattutto del sublime Valerio Mastandrea (ma questo non ci meraviglia più) e della sorprendente Micaela Ramazzotti.
Qualcuno potrebbe dire che è un film un po' furbo e un po' ruffiano, perché l'ambientazione livornese (patria del regista), la vena nostalgica del passato (anni Settanta e Ottanta con il loro corredo musicale) e, soprattutto, una storia forte di sentimenti familiari sono tutte strizzatine d'occhio ad un pubblico pronto a emozionarsi. Ma... il fatto è che non c'è niente di finto in quello che vediamo sullo schermo ed è per questo che Virzì colpisce dritti al cuore.
Il rapporto tra Anna (Micaela Ramazzotti da giovane e poi Stefania Sandrelli) e i suoi due figli, Bruno (da adulto, Valerio Mastandrea) e Valeria (da adulta, Claudia Pandolfi), è tratteggiato con una sincerità che non può lasciare indifferenti. Forse non abbiamo avuto una madre come Anna, dotata di una vitalità straordinaria che la rende una vera e propria calamita sociale, ma al contempo semplice ai limiti dell'imbarazzante, capace di amare i suoi figli con intensità straordinaria, ma sentimentalmente ingenua ed infantile; una personalità sovrabbondante e ingombrante, soprattutto in relazione al divenire adulti dei suoi figli.
Forse non abbiamo avuto una mamma così, ma certo tutti abbiamo dovuto fare i conti, come Bruno e Valeria, con la necessità e spesso l'incapacità di definire noi stessi e la nostra individualità non semplicemente per reazione o adesione al modello paterno o materno che ci è toccato in sorte.
E sappiamo che non serve fuggire o restare, perché dai propri genitori non si divorzia ed è la vita stessa che prima o poi ci mette di fronte a loro (fisicamente o psicologicamente) per sciogliere il nodo del nostro essere persone.
Bruno è un depresso e un infelice, vittima dell'amore eccessivo e inafferrabile di una madre da cui si sente tradito; sfugge prima di tutto a se stesso (ma andare a Milano non gli è servito a molto), perché in realtà non ne riesce a prendere realmente le distanze e a percepirsi finalmente come altro.
Valeria, apparentemente più distaccata e risolta, in realtà fa altrettanta fatica ad affermare se stessa, abituata com'è ad una subalternità e accondiscenza che le impediscono di sbocciare una volta per tutte, incatenata nel ruolo di moglie e madre seria e matura.
E questa madre che ha divorato la vita, trascinando inevitabilmente anche i suoi figli in un vortice difficile da governare ("Quante ne abbiamo passate, però... ci siamo divertiti, vero?), questa madre apparentemente svampita e superficiale, è l'unica che, più o meno consapevolmente, è capace di leggere l'animo dei suoi figli, senza per questo poter risolvere né il proprio né il loro groviglio interiore.
D'altra parte, solo la sua assenza consentirà a Valeria e a Bruno di mettersi infine di fronte a se stessi e di riconoscere senza distorsioni la propria identità, in quel fluire senza soluzioni di continuità di nascita e morte che è l'esistenza umana.
A cinici e intellettuali snob questo film forse non piacerà, ma trovo che a volte la semplicità non è un limite, né un difetto. E riconoscere le proprie emozioni non è certo un delitto.
Voto: 4/5
giovedì 28 gennaio 2010
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Sono andato a vederlo con grandi aspettative, del tutto soddisfatte.
RispondiEliminaNella mia famiglia si e' sempre scherzato su certe categorie di film, prendendoci in giro l'un l'altro e dicendo "Ah, che bel film, ho pianto tanto...!".
Ed il nodo e' proprio qui: la famiglia. Ma non il nodo che viene al pettine, anzi. Il nodo che ci unisce tutti: da Bolzano a Lampedusa.
Per la nostra generazione, l'opera di Virzi' e' un pozzo di San Patrizio di ricordi ed emozioni, un tuffo nel passato a livello psicologico e quasi sensoriale. Chi non ha dormito d'estate in slip bianchi e canottiera? Chi non aveva la mamma coi vestiti multicolor? Gli esempi si sprecherebbero.
Si, e' vero, e' un po' ruffiano; perche' tutti noi, inevitabilmente, resteremo toccati da qualcosa. Oppure da tutto, come me. Ma che male c'e'?
Saro' un nostalgico, un sentimentalone ma di fronte a certe rappresentazioni cosi' vive e, direi, pure, del nostro passato - per noi remoto ma altrimenti recente - mi sciolgo come un gelato al sole. Un bel gelato alla crema e cioccolato: semplice come allora.
Enrico