Nuvolosità variabile / Carmen Martìn Gaite; trad. di Michela Finassi Parolo. Firenze: Giunti, 2007.
Due donne, Mariana e Sofia, amiche per la pelle durante l'età dell'adolescenza e poi allontanatesi a causa di un'incomprensione, si rincontrano all'inaugurazione di una mostra, mentre entrambe vivono un momento di transizione nella loro esistenza, Sofia soffocata da una vita di coppia in cui non si riconosce più e in una dinamica familiare di cui fatica a tenere il passo, e Mariana in fuga dal suo lavoro di psicanalista e da un amore impossibile e a tratti patologico.
A seguito dell'incontro, le due donne decidono di scriversi, senza necessariamente inviarsi i loro scritti, per riprendere il filo delle loro storie. Comincia così un affascinante racconto a due voci, in cui lentamente si fa luce sul passato e si guarda al presente da nuove prospettive, in una serie di rimandi incrociati che troveranno composizione solo nel ritrovarsi - non più solo emotivo - delle due amiche per dare un nuovo inizio alla propria esistenza.
Non c'è un grande sviluppo narrativo in questo libro, ma certamente c'è una grande narrazione, se è vero che attraverso la scrittura di Sofia e Mariana viene tratteggiato il quadro di un animo femminile mutevole, variabile, instabile, ma dotato di una ricchezza straordinaria. E sono infatti proprio i pensieri e le parole delle due donne la vera ricchezza di questo romanzo.
Le due amiche condividono l'idea che "la sopresa è come una lepre che dorme nell'erba" e che "chi va a caccia non la vedrà mai dormire", ed ognuna a suo modo ce lo comunica con sensibilità e profondità di approccio. La vita, la letteratura, la felicità sono tutte lepri che dormono nell'erba. Anche innamorarsi deve principalmente incuriosire, tanto che "non si smette di amare una persona a causa dei suoi difetti, ma perché scopri che non t'interessa interpretarli né comprenderli" (p. 199).
Ci riconosciamo quando Sofia suggerisce che "[...] occorre guardare le cose dal di fuori perché il disordine diventi ordine e abbia un senso." (p. 40) O quando ricorda che "Tra tutte le cose che uno riesce a fare da soli nella vita, ridere è la più difficile". (p. 99) Come lei, anch'io devo ammettere che "la realtà non mi piace, non mi è mai piaciuta. Mi ci sono dovuta adeguare alla bell'e meglio" (p. 130).
Mariana è invece quasi spietata nell'affermare che "crescere è cominciare a separarsi dagli altri, riconoscere questa distanza e accettarla." (p. 65)
Ed è angosciante sentirla dire che "le cose non chiarite a tempo debito vanno formando come un muro di scorie porose che subito si solidificano e nessun piccone, alla fine, è in grado di scalfirlo. [...] Una diga costruita col cemento della codardia e dell'inerzia, che finisce per bloccare il passaggio a una relazione un tempo trasparente.(p. 26) D'altro canto, "non basta sbattere la porta e uscire di casa per liberarsi dell'influenza di altre vite che condizionano la tua" (p. 285).
Mariana e Sofia, se da un lato testimoniano con le loro vite che "tutto è solitudine" (p. 152), dall'altro rinascono nella scoperta che "poter chiedere a qualcuno: «Ti ricordi?», e vedere che è vero, che si ricorda" (p. 174) aiuta ad affrontare il proprio essere soli e a "staccarsi dal tumore del passato lasciando indenne il tessuto del presente, delicato e fragile come un petalo" (p. 175).
Voto: 3/5
martedì 12 gennaio 2010
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