lunedì 16 maggio 2011

Pillole blu / Frederik Peeters

Pillole blu / Frederik Peeters. Bologna: Kappa edizioni, 2004.

Erano anni che questa graphic novel del ginevrino Frederik Peeters era parcheggiata sugli scaffali della mia libreria, dopo essere stata acquistata con molto entusiasmo al mio primo BilBolBul, il festival del fumetto di Bologna.

Ora, complice la nuova edizione da poco uscita per la stessa casa editrice, la mia rinnovata passione per i fumetti e lo scarsissimo tempo a disposizione per la lettura dei romanzi tradizionali, ho messo sul comodino questo Pillole blu e per qualche giorno ho fatto mezzanotte immersa nella sua lettura.

Ancora una volta una storia autobiografica, la storia d'amore tra lo stesso Frederik e Cati. Una storia iniziata come tante e con le stesse difficoltà e tenerezze di tutte le altre, se non fosse che Cati è sieropositiva così come il suo bambino.

La forza di questa graphic novel è la sconcertante normalità e leggerezza con cui ci viene raccontata la quotidianità di Frederik e Cati. Due giovani come tanti altri, con le facce ingenue e pulite, con le loro paure e la forza del loro legame. Due giovani che, rispetto agli altri, devono però confrontarsi quotidianamente e convivere con la paura del contagio, l'angoscia della morte, l'ansia del futuro, i sensi di colpa. Che si desiderano e si amano intensamente, ma sono chiamati a interrogarsi sulla loro sessualità.

E che pure riescono a trovare una loro strada per un amore bello e profondo, per l'ironia e il sorriso. Il capitolo centrale in cui i due sono distesi a letto e, su richiesta di Cati, Frederik prova a elencare i motivi per cui la ama è forte e commovente, sincera e tenera. Quasi da incorniciare.

Daniele Barbieri sintetizza bene il messaggio che viene fuori dalla lettura di Pillole blu: "Non è perché siamo destinati a morire che non possiamo vivere". E - aggiungerei io - la sfida per tutti, tutti i giorni, qualunque sia la nostra situazione, è conquistarci il nostro pezzettino di felicità quotidiana, è costruirci il nostro personale senso dell'esistenza, quello che ci ricompone e ci pacifica con noi stessi e con il mondo circostante.

Non mi sembra un messaggio di poco conto.

Voto: 3,5/5

martedì 10 maggio 2011

Blankets / Craig Thompson

Blankets / Craig Thompson; prefazione di Luca Sofri. Milano: Rizzoli Lizard, 2010.

Ha ragione chi dice che l'immagine di quell'America avanzata, innovativa e di mente aperta che spesso noi europei ci portiamo dietro a malapena corrisponde alle sponde est e ovest degli Stati Uniti. Perché tutto quello che c'è lì, nel mezzo, è in realtà un mondo che per certi versi ci è sconosciuto e per certi altri ci è molto più familiare.

Siamo nel Wisconsin, uno stato della regione dei Grandi Laghi, al confine con il Canada, innevato per buona parte dell'anno, con una presenza pervasiva della cultura cattolica che permea di sé l'educazione e la vita delle famiglie.

Qui vive Craig, insieme a un padre burbero e autoritario, una madre molto devota e il fratello Phil, con cui divide il lettone e le punizioni per le marachelle. Crescerà con la passione per il disegno, affascinato e nello stesso tempo compresso dai racconti della Bibbia e dalla morale cattolica, deriso, lui timido e gracilino, dai compagni di scuola, esuberanti e muscolosi, ma anche un po' stupidi.

La graphic novel è il romanzo di formazione del suo autore, il racconto del passaggio dall'adolescenza alla vita adulta, con lunghi flashback sull'infanzia e con al centro la storia d'amore con Raina, una coetana del Michigan. Con lei inizia un rapporto epistolare e telefonico che si tradurrà in una vacanza di due settimane a casa sua, momento del disvelamento dell'amore, dei sogni di bellezza, della pienezza interiore, delle prospettive luminose che l'innamoramento può dare. Il tutto in un confronto doloroso con un insegnamento morale severo che ha lasciato segni profondi nell'anima sensibile di Craig.

Il ritorno a casa, il dolore del distacco, la fine del primo, sognante e puro rapporto d'amore della sua vita aprirà il protagonista al bisogno di una cesura nella propria esistenza. Abbandonare la sua città, seguire la sua vocazione per il disegno, allontanarsi non da Dio, ma da quell'insieme di precetti e da quell'apparato che non comprende più, ritrovare il rapporto con suo fratello, cercare la propria identità, quella cui nessuna istituzione dall'esterno (sia essa la Chiesa, la famiglia, la coppia) può dare una risposta compiuta.

Il titolo, Blankets, fa riferimento alla trapunta cucita a mano che Raina regala a Craig quando si incontrano, ma anche alla spessa coltre di neve bianca che ricopre il paesaggio e l'anima del protagonista fino al disgelo della primavera della vita. Quella in cui cadono le illusioni, si guarda in faccia la realtà, senza coperture, si confrontano le proprie immagini mentali con il mondo circostante. Più felici forse no, più consapevoli certamente sì.

Non una lettura leggera quella delle quasi 600 pagine del romanzo a fumetti di Thompson, a tratti irritante nel tratteggiare una realtà che ha tutte le caratteristiche del provincialismo più gretto. Forse una ricostruzione amplificata dalla memoria dell'infanzia e dell'adolescenza, come smisurata è la rappresentazione grafica degli adulti. Certo una lettura in cui chiunque abbia fatto un percorso - più o meno doloroso - di affrancamento dall'imprinting che ha ricevuto - e magari per questo ha dovuto fisicamente creare un distacco con quel mondo e quelle persone, per ritrovarli solo in un momento successivo - vi si riconoscerà. Con lo sguardo tenero che solo chi - attraverso questo processo - ha tirato fuori
- un pezzetto alla volta - il suo io più nascosto può avere.

Da leggere. Ma solo se siete del mood giusto ;-)

Voto: 3,5/5

domenica 8 maggio 2011

La fila (Line) di Israel Horovitz e il Lungotevere Testaccio

È in scena dal 27 aprile all'8 maggio al Teatro India La fila (Line), il testo teatrale scritto da Israel Horovitz nel 1967.

Ci vado in un pomeriggio di un'autentica domenica primaverile romana (chi ha detto che non esistono più le mezze stagioni?) senza sapere nemmeno chi sia Horovitz ma attirata dalla prospettiva di vedere questo famigerato Teatro India che in otto anni a Roma non ho ancora avuto la possibilità di visitare.

E così, dopo essermi persa in quella zona per me praticamente sconosciuta che si estende tra il Tevere e viale Marconi, approdo alla ex-fabbrica Mira Lanza di Roma, un edificio industriale realizzato tra il 1918 e il 1924, una parte del quale è stato acquistato nel 1999 dal Comune e ristrutturato per diventare il Teatro India, sede "sperimentale" del Teatro di Roma. Il posto è veramente speciale: vista sul grande gazometro dall'altra parte del fiume, e subito dietro quelli più piccoli (quelli tante volte ritratti nei film di Ozpetek), il ponte di ferro sul fiume, terreni incolti e - qua e là - i segni della forte caratterizzazione industriale del passato. E poi, scese le scalette dell'India, archi e strutture di mattoni che forse un tempo erano espressione della bruttura della periferia industriale e oggi fanno quasi tenerezza e sono gradevoli a vedersi e a viversi, all'interno del giardino con bar e tavolini.

Del resto è una zona della città che - se fino a non molto tempo fa era abbandonata a se stessa - oggi è diventata un nuovo polo culturale della città, in cui batte soprattutto un cuore di cultura alternativa, visto che oltre al Teatro India, troviamo la Città del Gusto, la Città dell'Altraeconomia e il Farmer's Market nell'ex Mattatoio di Testaccio, una delle due sedi del MACRO e centri culturali di vario genere. È una Roma un po' diversa, che vuole farsi internazionale (mi ricorda certa Londra radical-chic), ma alla fine - ai piedi del Monte dei Cocci - finisce per svelare la sua romanità in quei tratti che sono così evidenti agli occhi di chi ci vive, ma sono intraducibili in parole. In ogni caso, oggi Roma mi è sembrata davvero bellissima!

E forse anche per questo - nonostante un raffreddore che mi tormenta da qualche giorno - mi predispongo positivamente a vedere questo spettacolo di cui non so quasi nulla. E resto sorpresa.

Un palcoscenico senza alcuna scenografia, nero, ad eccezione di una linea bianca (fosforescente al buio) che è protagonista dell'opera di Horovitz. L'esistenza di questa linea e della fila che impone farà esplodere infatti gli istinti più bassi dei cinque personaggi (4 uomini e 1 donna) che ad uno ad uno compariranno in scena e si contenderanno il primo posto per partecipare a non si sa bene quale evento, forse un concerto di Mozart (ma i protagonisti fanno dichiarazioni contraddittorie in proposito). Ognuno determinato a usare qualunque mezzo pur di ottenere il primato: l'astuzia, la forza, le arti femminili, il sesso, il ricatto psicologico, la minaccia, il sotterfugio. Si tratta di Stephen (giovane un po' esaltato il cui attore, Luca Nucera, sembra Heath Ledger nell'interpretazione di Joker in Batman), Fleming (un omone grande e grosso, ma un po' stupido), Dolan (narcisista e meschino), Molly (la materializzazione di una perfidia e di un sadismo che può essere solo femminile), Arnall (il suo pavido marito, che ama farsi calpestare da lei e dagli altri).

Gabbati dall'astuzia sottile di Stephen che per sancire la sua vittoria porterà via la linea, gli altri quattro lo assaliranno per conquistarsi il proprio pezzo di linea rispetto al quale essere primi, senza riuscire però nemmeno in questo modo a superare l'istinto primordiale alla competizione, che senza competitori non dà soddisfazione.

Ne viene fuori il quadro di un'umanità in cui la "tragedia dei beni comuni" di cui parlava Harding è assolutamente inevitabile, forse perché gli esseri umani hanno bisogno di una sfida - anche se insensata - con gli altri. E non ci sono regole interne o morali che tengano di fronte a questo istinto primordiale, capace di spingere a qualunque nefandezza.

Un testo che ha ormai oltre 50 anni e che sembra scritto ieri, in una società che promuove la competitività in tutte le forme e a tutti i livelli, considerandola fonte di ricchezza e benessere. Un testo in cui chiunque può riconoscersi, nonostante le tipizzazioni che, nel tentativo di astrazione, possono dare l'impressione di una lettura semplificata.

Un'ora intensa, ben recitata, con una buona regia, al termine della quale si applaude a lungo e volentieri. Con la promessa di tornare presto all'India, magari anche solo a prendere un aperitivo guardando il gazometro.

Voto: 4/5

lunedì 25 aprile 2011

Habemus papam

Il cinema di Nanni Moretti esercita su di me un irresistibile fascino e attrazione, tanto che nella pausa tra un film e l'altro rimuovo completamente i motivi per cui io e i suoi film non riusciamo quasi mai a stare sulla stessa lunghezza d'onda. Immancabilmente tutto mi torna alla mente quando sono in sala.

Chiariamoci. Il film mi è piaciuto, ironico e melanconico al punto giusto. Il tutto in un impianto registicamente e visivamente godibilissimo.

Il fatto è che la mia indole è esattamente a metà strada rispetto ai due poli intorno ai quali si sviluppa la "poetica" di Nanni, ossia il metafisico e l'iperrealistico. E così non mi sento del tutto a mio agio né di fronte a Nanni che gira con la sua Vespa in una Roma oniricamente vuota in Caro diario, né con l'immagine ravvicinata della bara saldata per sempre in La stanza del figlio.

Nel caso di Habemus papam, l'inizio è promettentemente realistico (la morte del papa, con immagini di repertorio, e i cardinali che si riuniscono in conclave per l'elezione del nuovo pontefice), ma dal momento in cui il prescelto seduto sulla sedia in attesa di offrirsi per la prima volta ai fedeli scoppia in un pianto disperato, eccoci di nuovo - quasi privi di punti di riferimento - di fronte al cinema di Moretti.

Michel Piccoli è straordinario nel ruolo del pontefice in crisi di fronte al peso e alla responsabilità del ruolo che gli è stato affidato e riesce a trasmettere un senso di spiazzante umanità che mai ci immagineremmo associata al capo della Chiesa cattolica. A questi fa da contraltare il dottor Brezzi (lo stesso Moretti), lo psicanalista chiamato inizialmente a trovare una soluzione alla depressione del neoeletto, poi tenuto in Vaticano in attesa che la crisi si risolva. Un non credente, narcisisticamente disadattato, che porterà un po' del suo cinico-ironico disincanto in quella fase di sospensione di regole e formalità che questa situazione inusitata per la Chiesa determinerà.

La cifra morettiana appare evidente nell'inserire qua e là elementi di non-senso mescolate alla ricerca di un - forse inesistente - senso profondo, domande aperte e situazioni irrisolte fatte apposta per lasciare lo spettatore con un senso di minorità e incompiutezza, banalità del quotidiano e sospensione onirica. Dimostrando in fondo che il dramma del papa è il dramma di tutti noi, è il senso della nostra fragilità e la consapevolezza del non avere nessuna consolazione ai nostri desideri, e che questo mondo fatto di riti e cerimonie millenarie è in realtà altrettanto semplice e umano quanto quello che sta fuori di quelle mura.

Immanenza contro trascendenza. Senza giudizi e pregiudizi. Senza contrapposizioni frontali. Tutti in qualche modo abbandonati a noi stessi (quel "deficit di accudimento" di cui parla la psicanalista Margherita Buy). Tutti alla ricerca di un senso, di una guida, della nostra felicità.
Non un film anticlericale, solo una riflessione/non riflessione sulla nostra - universale - umanità.

Voto: 3,5/5

venerdì 22 aprile 2011

Rio

Blu è un pappagallo macao brasiliano finito da piccolo nella rete di un bracconiere e destinato al mercato nordamericano. Caduto dal camioncino del suo rivenditore, se ne prenderà cura Linda, una bambina del Minnesota che ne farà un vero e proprio pappagallo domestico, amato e coccolato ma incapace di volare.

Fino a quando bussa alla porta Tullio, un ragazzotto un po' imbranato che in realtà è un ornitologo brasiliano, il quale annuncia a Linda, ormai adulta, che Blu è l'ultimo esemplare maschio della specie e deve essere portato in Brasile per farlo accoppiare con Gioiel, una femmina della stessa specie, e garantire così la sopravvivenza futura dei pappagalli macao.

Si parte così alla volta di Rio de Janeiro, dove incontreremo una scombinata band di malviventi che vuole appropriarsi della coppia di pappagalli per rivederli a caro prezzo e arricchirsi, un meninho de rua che vive nella bidonville sulla collina di Rio, un pappagallo bianco incattivito dalla vita e dall'invidia, e una corte di uccelli esotici e altri animali che ci accompagneranno in questa avventura.

Il tutto sullo sfondo di una città che ci appare meravigliosa incastonata tra colline verdissime (su cui svetta la grande statua del Cristo Redentore ad abbracciare la città), raccolta intorno alla sua baia, morbidamente adagiata sul mare, con i suoi tram che si inerpicano per le strette strade da cui, di tanto in tanto, si intravedono meravigliosi scorci sulla città, con la sua funivia che unisce la parte alta con quella a livello del mare.
Città di grandi contraddizioni, ma dove tutto si tiene insieme nello spirito del Carnevale, dove l'allegria e la giocosità sono parte integrante della natura e della gente.

Ne viene fuori uno strepitoso megaspot pubblicitario per Rio, visto che è praticamente impossibile uscire dalla sala senza una gran voglia di prenotare subito un biglietto aereo per questa destinazione.

Nel frattempo - come potete immaginare - tutto è bene quel che finisce bene per Blu, Gioiel Linda e Tullio. Il nostro Blu avrà ritrovato dentro di sé i suoi istinti primordiali, riconosciuto le sue origini e riscoperto la sua capacità di volare, ma avrà anche insegnato ai suoi amici che non tutti gli umani sono cattivi e non tutte le loro abitudini sono deprecabili.

Meno intenso e sofisticato rispetto ad altri cartoni recenti, come Up!, Cattivissimo me, Wall-e, L'era glaciale, anche meno divertente sul piano intellettuale, ma certe volte lasciarsi andare alla semplicità di una storia, all'immediatezza di una risata, al ritmo di una canzoncina, alla magia dei colori fa certamente bene al corpo e soprattutto all'anima.

Ehi, quando si parte per Rio? ;-)

Voto: 3/5

martedì 19 aprile 2011

Roman e il suo cucciolo

Tratto da una pièce teatrale di Reinaldo Podov dal titolo Cuba and his teddy bear (portato in scena in America con protagonisti Robert De Niro e Ralph Macchio nei due ruoli principali), Roman e il suo cucciolo ne è la rilettura per il pubblico italiano ad opera di Edoardo Erba, per la regia di Alessandro Gassmann che ne è anche il protagonista.

E così, se l'originale si svolgeva negli Stati Uniti nell'ambiente dei latinos, la versione italiana sceglie come luogo una periferia romana e come protagonista Roman, un rumeno arrivato da bambino in Italia insieme a sua madre in fuga dal regime di Ceausescu. Un emarginato rozzo e semi-ignorante, che parla un italiano-romanesco a tratti incomprensibile e vive di spaccio di droga, un nevrotico aggressivo che ha un'energia incontenibile che scarica sul piccolo mondo che lo circonda. Innanzitutto il suo cucciolo (Giovanni Anzaldo), suo figlio Toni diciassettenne nato in Italia, un ragazzo sensibile per il quale egli vorrebbe un futuro all'università e lontano dalla droga, poi il suo migliore amico Geko (un altro spacciatore che ha conosciuto in galera, interpretato dal bravo Manrico Giammarota, vero protagonista della sottotrama umoristica del dramma), l'amico rumeno Dragas (Matteo Taranto) che controlla un giro di prostituzione e fa prostituire anche la sua fidanzata rumena (Natalia Lungu).

Sullo sfondo una metropoli anonima e grigia, in cui si distinguono solo i fari quasi ininterrotti delle macchine. Nella casa in cui si svolge l'intero dramma un televisore quasi sempre acceso, una madonna nera, il divano della nonna ancora con la plastica, la stanzetta dove cucciolo si rifugia a scrivere e a giocare a fare l'intellettuale, dove prova a mettere una distanza tra sé e il mondo in cui vive e da cui non riesce ad affrancarsi. Un mondo sordido, squallido, ma al contempo non privo di tenerezza e affetto. Un mondo che rispecchia una cultura cui sente di non appartenere, senza per questo riuscire a sentirsi pienamente parte del mondo in cui è nato ed è cresciuto.
Straniero senza esserlo. Straziato e fatalmente attirato dall'eroina.

Di tanto in tanto di questi personaggi vediamo anche i ricordi, i pensieri, i sogni tradotti in immagini e proiettati sul grande telo semitrasparente calato davanti alla scena. A volte su quel telo vengono amplificati e reinterpretati momenti di grande tensione della storia.
La musica pure gioca un ruolo centrale, nel sottolineare appartenenze culturali differenti e commentare passaggi cruciali (per finire con una canzone di Neffa).

Su tutto spicca questo rapporto irrisolto tra padre e figlio. Da una parte un omone, pieno di forza e di carisma, ma fin troppo semplice ed elementare nella sua emotività, quasi infantile nelle sue reazioni. Fragile e ingenuo da molti punti di vista. Dall'altro un figlio intelligente e sensibile. Venuto su bene, capace di passare indenne in mezzo alle brutture e al degrado, di stare in bilico su quel filo sottile tra identità e integrazione. In realtà fragilissimo e impaurito da una figura paterna in fondo sovrabbondante.

Ne viene fuori un ritratto iperrealistico, che riesce a non scadere nel macchiettistico, negli ideologismi e negli stereotipi. Che fa paura e tenerezza. Esattamente come Roman.

Assistiamo ad una rappresentazione teatrale che gioca certamente con il linguaggio cinematografico, non solo per la presenza di piccole sequenze proiettate, ma soprattutto per il linguaggio, il ritmo, la recitazione, la storia. A qualcuno - amante di un teatro più classico e tradizionale - potrà non piacere.

A me è arrivato. Dritto al cuore. Commuovendomi, facendomi ridere e sorridere, tenendomi incollata alla sedia senza un minuto di noia per circa due ore e mezza.

Alessandro Gassmann è una forza della natura e il cast gli sta dietro alla grande.
Bello vederlo ringraziare il pubblico e soprattutto il fatto di aver potuto recitare questo spettacolo al Quirino, il teatro che porta il nome di suo padre.

Chissà, forse Alessandro si è sentito anche lui un po' cucciolo al cospetto di cotanto padre quando aveva diciassette anni!

Voto: 4,5/5

lunedì 18 aprile 2011

Questa Londra così radical-chic!

Dopo non moltissimi mesi dalla mia ultima puntata londinese sono tornata nella capitale britannica per un breve, ma intenso weekend di sosta lungo il tragitto verso Aberystwyth (Galles), sede dell’Università presso cui sto facendo un Master in Management of Library and Information Services a distanza. Seconda e ultima study school e ghiotta occasione per respirare la primaverile aria londinese.

Questa volta, non avendo mete lavorative particolari, abbiamo scelto una collocazione centrale, a due passi da St Paul Cathedral, nel cuore della City. L’albergo è infatti pensato appositamente per gli uomini d’affari di passaggio a Londra, quasi interamente self-service, con moltissime camere infilate in lunghi corridoi, wireless gratuito disponibile in camera, angolo lettura e relax e un pub/brasserie collegato dove viene servita la colazione e ci si può fermare a bere una birra o a mangiare un boccone praticamente a qualunque ora.

Di venerdì pomeriggio uomini e donne in carriera stanno uscendo dagli uffici e si affollano davanti ad alcuni pub a bere la loro birra di inizio weekend. Prima cosa che noto (e che si confermerà nei giorni successivi, persino in Galles) è che il vino sta diventando molto popolare nel Regno Unito e soprattutto le donne sempre più spesso rinunciano alla classica birra (che gonfia e fa ingrassare!) per un bel bicchiere di vino, di solito bianco.

Per l’aperitivo torniamo a Broadway Market (che ci era piaciuto tanto durante l’ultima visita) e, dopo una passeggiata nel vicino London Fields Park ad osservare genitori e figli che giocano insieme, giovani che si allenano con le loro bici acrobatiche e distese di ragazzi e ragazze che chiacchierano tutti seduti nello spazio del parco dove c’è ancora il sole, è il momento della birra con S.

In questo nuovo assaggio della rinascita dell’East End londinese mi colpiscono non solo le biciclette essenziali che già avevo notato l’altra volta (senza parafanghi, niente freni, niente copricatena ecc.) e la quantità di negozi di prodotti biologici, ma anche l’abbigliamento di questi giovani, con i loro immancabili cappelli radical-chic, le espadrillas (ve le ricordate?) ai piedi, calze e leggings portati senza gonne e vestiti a coprire il sedere, colori sgargianti e accessori vistosi indossati con naturalezza.

Penso che questa zona rappresenti una Londra ricercatamente alternativa, contrapposta a quella tradizionalmente chic e a quella tradizionalmente popolare. E invece mi sbaglio, perché nei giorni a seguire mi accorgo che questa componente radical-chic, associata ad un’impronta culturale che potrei definire “no-global”, è diventata una caratteristica diffusamente londinese.

Così, dovunque siate e voltiate lo sguardo, vi si parerà davanti un negozio che vi propone cibo organic (biologico), local, healthy (che non danneggia la salute, anzi fa bene!) ed environmentally friendly (ecologico), ovvero un negozio che celebra cibo, mode e cultura di altri paesi, o ancora una piccola boutique di design o di abbigliamento di tendenza. Evidentemente, i disastri ecologici sempre più frequenti, i rischi sempre più alti per la salute, i segni profondi della crisi del capitalismo hanno prodotto una - almeno apparente - nuova sensibilità rispetto alla società e all’ambiente.

Con un’unica pecca, ossia che nemmeno la passione per il local e l’organic può sfuggire alla produzione su scala industriale e ai processi di massificazione. Dunque, bello vedere un uso estensivo del riciclabile e del fair trade , ma se vi guardate intorno il processo di replica all’infinito ha proporzioni incredibili.

Il bello di Londra è però la capacità di conservare la varietà e di continuare a rappresentare molte anime. Così, dopo l’aperitivo eccoci a Brick lane, Banglatown, nonché covo di comunisti nostalgici e di locali di ogni genere. Finiremo prima a un meeting di Pathfinder, una casa editrice che continua a sostenere e diffondere il mito della rivoluzione comunista, poi in un take away indiano a mangiare pakora e polpette, infine in un pub svedese con una bella terrazza in legno, dove purtroppo non si può evitare l’odore di aringa che viene fuori a getto continuo dalla cappa della cucina.


La notte non si dorme molto, causa trasformatore dell’aria condizionata rumoroso. Per fortuna, gli inglesi sono davvero attenti ai bisogni dei clienti e quindi la mattina seguente un efficientissimo tecnico verrà a concederci l’agognata tregua dal rumore di sottofondo.

Sabato abbiamo due obiettivi principali: una mostra di fotografia in una galleria che si chiama Ambika P3 e l’Easter Chocolate Festival sulla Southbank.
La metropolitana nei weekend è imprevedibile perché gli inglesi presuppongono – giustamente – che sia più facile far sopportare i disagi di lavori di potenziamento della rete nel fine settimana piuttosto che durante i giorni lavorativi. Così, ci mettiamo un po’ ad arrivare alla nostra stazione della metropolitana e nel frattempo assistiamo a un buffo raduno di gente in bici (anche e soprattutto d’epoca) vestite in tweed secondo lo stile inglese dei signorotti di campagna della prima metà del Novecento.

La galleria Ambika P3 sta praticamente di fronte al museo delle cere (il celebre Madame Tussaud) e occupa un pezzo di garage sotterraneo che è stato volutamente mantenuto grezzo e minimalista. Luogo, mostra e gente molto londinesi radical-chic! Ci sono i lavori di quattro fotografi vincitori del Deutsche Borse Photographie Prize, la cui opera fotografica non punta certamente a una versione classica di estetica, bensì a utilizzarne alcuni canoni per stravolgerli, spiazzando lo spettatore in chiave filosofico-sociale. Ed ovviamente ad Ambika P3 non manca un bel banchetto di caffè e dolci biologici.

A questo punto prima una bella passeggiata in un fioritissimo Regent’s Park, poi verso St Christopher Place, con tappa Dim Sum (ravioli al vapore e alla griglia splendidi a vedersi, ma un po’ collosi, soprattutto quelli viola impastati col cavolo) e poi l’immancabile Selfridges con le sue buste gialle (dove C. pensa di poter comprare una giacca Diesel con 48 sterline; peccato che ha visto il cartellino sbagliato!).

A questo punto ci aspetta il festival del cioccolato sulla sponda sud del Tamigi. Macarons, panforte al cioccolato, fave di cacao, cioccolata di ogni genere e forma allietano il calare del sole. La giornata finisce in bellezza con una bella (e sana) cena tailandese da Rosa’s a Soho e una passeggiata in questo quartiere che il sabato sera si trasforma in uno dei cuori pulsanti della città. Una breve puntatina in un locale trendy, un dolcino da quello che pensiamo essere un esclusivo ristorante francese, Café Rouge, e invece è una catena presente anche negli aeroporti londinesi, e infine a nanna.

Il mattino dopo c’è solo il tempo per una full English breakfast ed eccoci in metropolitana, ciascuno nella propria direzione. Durante il mio lungo viaggio in treno verso il Galles, penso che Londra è una città interessante per valutare lo stato di salute di questa nostra ormai vecchia Europa. E così accolgo positivamente questa quasi ossessione londinese per l’ecologico, il biologico e il locale, sebbene mi auguro non si tratti solo di una moda. Osservo - piacevolmente sorpresa - una giovane mamma che raccoglie un pezzo di galletta di riso che il suo bimbo ha buttato per terra in metropolitana e, dopo averci soffiato un po’ su, lo mangia. E al contempo mi fa un po’ paura l’altrettanto pronunciata ossessione della città per la sicurezza. Telecamere ovunque, postazioni per chiamare aiuto, cartelli in metropolitana che suggeriscono di segnalare al personale della sicurezza chiunque “abbia un’aria sospetta”.

Penso che siamo una società schizofrenica, in cui le istituzioni sono un po’ avvoltolate su se stesse, mentre dal basso sembra provenire una richiesta di riappropriazione della propria libertà e del senso della comunità. Chissà se c’è qualcosa di buono da sperare.

lunedì 4 aprile 2011

Boris il Film

Mi aspettavo una fila e una folla senza precedenti, cosicché per tutto il weekend ho cercato di convincere C. a comprare online i biglietti. Alla fine ho ceduto, ottenendo solo di arrivare al cinema 45 minuti prima dell'inizio del film.

Ma... complice l'ultimo spettacolo e un Nord Est forse un po' freddino nei confronti di un prodotto della romanità, come la serie televisiva Boris, nessuna fila al botteghino e sala mezza vuota. Non sapete cosa vi siete persi!

Ho conosciuto la serie televisiva qualche anno fa grazie ad un'amica e da allora sono diventata una fan "senza se e senza ma".
Cosicché sono andata al cinema preparata e piena di aspettative. E confermo di essere ancora stabilmente tra i fan :-)

Per chi non lo sapesse, Boris è un pesce rosso, quello che il regista Renè Ferretti (Francesco Pannofino) si porta sul set come portafortuna ogni volta che è impegnato in un progetto televisivo o cinematografico. Qualcuno dice che porti sfiga. E - come saprà chi ha visto la serie - forse quello nell'acquario non è neppure realmente Boris ;-)

Dopo l'avventura delle soap televisive, in particolare il fortunatissimo Gli occhi del cuore, Renè ha deciso di fare il salto al grande schermo, portando al cinema un film di impegno sociale tratto dal bestseller La casta di Stella e Rizzo. Purtroppo, non solo finirà per ritrovarsi a lavorare con la troupe e il cast sgangherati che già lo accompagnavano durante le riprese televisive, ma dovrà abbandonare il sogno di un cinema alto per ripiegare su una versione de La casta da cinepanettone.

Il bersaglio satirico è il mondo televisivo e cinematografico italiano, fatto di sceneggiatori ricchi ma privi di idee, produttori inetti e supini al potere, attrici cagne ma procaci o figlie di papà, oppure brave ma disadattate, attori egocentrici ai limiti della sopportabilità, tecnici cocainomani, stagisti schiavi, una varia umanità ignorante e greve, un mondo presuntamente intellettuale insopportabile e nevrotico, intriso di ipocrisia e falsità a tutti i livelli.

Ma, evidentemente, in quel mondo televisivo e cinematografico si rispecchia l'Italietta tutta, con i suoi vizi e le sue bassezze. Certo, anche con la sua umanità, ma un'umanità che non basta più e che ormai fa solo tristezza.
Chiunque potrà riconoscere quel mondo sgangherato e le sue dinamiche nel proprio ambiente umano e lavorativo.

Il film comincia un po' in sordina, ma poi è tutto un crescendo di comicità e di autoironia intelligente e pungente. Si ride (e forse si ride ancora di più se non si è vista la serie televisiva), ma è inevitabile un sentimento di rabbia che cresce insieme alle risate. Si esce dalla sala divertiti, ma in fondo depressi. Ma siamo davvero tutti così? Vedere Arianna (Caterina Guzzanti) e Alessandro (Alessandro Tiberi) baciarsi di fronte al cinepanettone è una sconfitta per tutti. E una delusione per chi ha seguito per tre serie la loro tormentata storia d'amore.

Alcune sequenze sono davvero da antologia della comicità. Per esempio, lo straordinario dialogo tra Renè e l'attrice nevrotica per convincerla a rimanere sul set, l'escamotage del foglietto "8x12" per far assumere all'attrice cagna (la bravissima Carolina Crescentini) un'aria pensierosa, l'alloggio dei tre sceneggiatori di sinistra (con tanto di campo da tennis interno), le riunioni con i dirigenti RAI, la ricerca dell'attore per il ruolo "faccia di merda", i colloqui con i potenziali sceneggiatori.

Ovviamente, i riferimenti a fatti, persone e situazioni si sprecano e probabilmente con un po' di pazienza potrebbero essere tutti rintracciati. Ma non è la cosa più importante. Ben più importante è il ritratto complessivo che ne emerge. Realistico nel suo essere sopra le righe.

Bravi Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, che hanno vinto la difficile sfida di portare al cinema una serie televisiva, senza perdere originalità e verve (come anche le recensioni di critici accreditati confermano; chissà se poi lo fanno per scongiurare la possibilità di essere i prossimi bersagli di Boris!).
E dai, dai, dai (il mio mantra già da un pezzo)!

Voto: 4/5