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lunedì 19 giugno 2017

Le redoutable

Ed eccomi alla tradizionale rassegna Da Cannes a Roma, che porta in anteprima nei cinema romani (e quest'anno anche in regione) una selezione dei film presentati all'ultimo festival di Cannes.

Il mio primo film di quest'anno è Le redoutable, il nuovo lavoro di Michel Hazanavicius, di cui personalmente avevo molto apprezzato The artist. Dunque scelgo il film a scatola quasi chiusa, confidando nel nome del regista.

Le redoutable racconta una fase della vita del regista francese Jean-Luc Godard (magistralmente interpretato da Louis Garrel), per la precisione il periodo che va dal momento in cui sta girando il film La chinoise di cui è interprete la giovanissima Anne Wiazemsky (Stacy Martin), che diventerà sua moglie, alla fondazione del Gruppo Dziga Vertov. Il tutto guardato dagli occhi di Anne, autrice del libro autobiografico Un an après da cui è tratta la sceneggiatura del film.

Il titolo del film fa riferimento al nome del sottomarino nucleare francese che nel 1967 ebbe il battesimo del mare alla presenza del generale De Gaulle e di cui Godard e la moglie sentono parlare un giorno alla radio. La frase con cui si conclude il servizio radiofonico "Ainsi va la vie à bord du Redoutable" diventerà per la coppia una specie di messaggio in codice che i due amanti si lanceranno in momenti topici della loro relazione.

Come al solito, mi sento completamente impreparata a un film di questo tipo, da cui trasudano linguaggio meta cinematografico, cinefilia e uso ironico del mezzo. Conosco Godard solo di nome - anche se so che è l'iniziatore nonché il maggior interprete della Nouvelle Vague francese - e dei suoi film conosco solo Fino all'ultimo respiro (A bout de souffle) che pure non ho visto.

Mi dico che i veri intenditori avrebbero più elementi di me per cogliere i riferimenti, il gioco con lo spettatore e l'ironia del regista. Ma al contempo man mano che il film si dispiega davanti ai miei occhi mi rendo conto che in fondo anche la naiveté con cui mi ci accosto può essere un punto di forza, in quanto mi sottrae all'inevitabile rispetto quasi reverenziale di cui chi conosce l'opera di Godard è certamente vittima e il probabile senso di fastidio rispetto alla quasi "ridicolizzazione" del protagonista, che forse non rende merito all'artista.

Jean-Luc viene rappresentato come un regista dall'ego smisurato, anticonformista a prescindere, un po' misantropo, sicuro di sé, ma al contempo fragile, testardo e rigido, ma insieme manipolabile, a tratti ingenuo fino appunto a sfiorare il ridicolo.

Anne si innamora del Godard che ha cambiato il cinema, ma si trova di fronte un uomo affascinato dal maoismo e dagli ideali della rivoluzione, che a un certo punto gli sembrano sul punto di realizzarsi durante le manifestazioni imponenti del maggio francese cui parteciperà in prima persona. Jean-Luc non avrà però in questa circostanza la lucidità per accorgersi che la rivoluzione non porterà da nessuna parte se non al punto di partenza, e andrà avanti cocciutamente per la sua strada alienandosi amici e colleghi del mondo del cinema per inseguire il sogno di un cinema realizzato in maniera comunitaria e collettiva, democraticamente e senza gerarchie. In questa parabola si alienerà anche l'amore di sua moglie Anne, da cui è profondamente dipendente sul piano emotivo.

Ma il racconto di Hazanavicius non è una ricostruzione seriosa e drammatica, bensì una specie di commedia frizzante, piena di invenzioni e di giochi di pura cinematografia, in parte ispirati allo stesso cinema di Godard (uso del bianco e nero alternato al colore, uso della pellicola in negativo, battute pronunciate rivolgendosi alla camera), cui si aggiungono esilaranti momenti di metacinematografia (come nella scena in macchina in cui si parla male del Festival di Cannes in un film in competizione per la Palma d'oro, o quando il protagonista dice di essere talmente lontano da "Godard" da sentirsi un attore che lo interpreta, o quando in un dialogo con la moglie, mentre sono nudi prima di andare a dormire, i due parlano delle inutili scene di nudo di alcuni film ecc.).

L'immagine di Godard che ne viene fuori è macchiettistica (e volutamente tale per alcune scelte di regia e sceneggiatura, ad esempio la situazione ricorrente per cui ogni volta che Godard partecipa a una manifestazione cade o viene travolto e gli si rompono gli occhiali, nonché l'articolazione del film in capitoli introdotti da titoli che sono in parte riletture di titoli di suoi film); e certamente non rende merito alla complessità e alla molteplicità delle sfaccettature di un personaggio del mondo del cinema che non si può ridurre a quest'unica dimensione.

Ma d'altronde fin dal principio è chiaro che questo film parla di un periodo della sua vita e lo fa da un punto di vista molto particolare, quello della moglie da cui si è poi separato.

Quello di Hazanavicius è un film irriverente e anticonformista, o forse - strizzando l'occhio allo spettatore con il suo tono ludico e le sue invenzioni - è in realtà un film molto meno dirompente e originale di quanto non voglia apparire. Ma non è forse questo il medesimo paradosso che il regista vuole mettere in evidenza del suo protagonista?

Voto: 4/5

venerdì 4 dicembre 2015

La felicità è un sistema complesso

Zanasi è il regista e sceneggiatore di Non pensarci, film che a suo tempo avevo molto amato. Così quando è uscito al cinema il suo nuovo lavoro non ho esitato un attimo ad andare a vederlo.

Come dice una mia amica, La felicità è un sistema complesso sta a metà strada tra Il capitale umano e Tra le nuvole. Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa l'intermediario per un'azienda che acquista società sull'orlo del fallimento, quasi sempre perché le generazioni degli eredi quarantenni dei fondatori non sono stati in grado o non hanno voluto occuparsi dell'eredità genitoriale.

Enrico è molto bravo nel suo lavoro, diventa amico dei suoi clienti, li comprende e li aiuta a trovare il "coraggio" di fare la scelta di firmare la cessione, all'inseguimento di una vita che a loro sembra sfuggire di mano (chi per aprire un resort in Costa Rica, chi per andare in Nuova Zelanda).

La sua vita viene letteralmente messa sottosopra da due eventi: l'arrivo in casa sua di Achrinoam (Hadas Yaron), la fidanzata israeliana che il fratello ha mollato facendole credere di essere partito per il Chiapas, e il nuovo incarico che prevede la cessione di un'azienda i cui proprietari sono morti in un incidente stradale lasciando la maggioranza delle azioni ai giovanissimi figli, il diciottenne Filippo (Filippo De Carli) e la tredicenne Camilla (Camilla Martini).

Enrico dovrà fare i conti con la sua vita e le sue scelte.
Quello di Mastandrea è un personaggio ironico e dolente, di un'umanità spessa, che non si può non amare anche nella finzione che in qualche modo si è costruito.

Il film di Zanasi per me parla di tre antinomie: parole/silenzi; giovani/non più giovani; semplicità/complessità.

Sul primo aspetto, non è un caso che una delle canzoni portanti della bellissima colonna sonora (affidata a Niccolò Contessa de I Cani, ma dove compaiono tra gli altri i Low Roars e i Rolling Stones) sia In a manner of speaking (nella versione - cover dell'originale dei Tuxedomoon - dei Nouvelle Vague) con il suo ritornello "Oh give me the words / Give me the words / but tell me nothing / Ohohohoh give me the words / Give me the words / That tell me everything". Nel film di Zanasi i silenzi sono altrettanto importanti delle parole e le parole spesso non dicono quello che vorrebbero dire. Enrico è cresciuto imparando - a seconda dei casi - a stare in silenzio o a dire le parole che l'interlocutore si aspetta di sentire. Le parole vere, senza mediazione, arrivano con la comparsa in scena di Achrinoam, di Filippo e di Camilla.

La questione generazionale è evidentemente il cuore del film. Ci sono almeno quattro generazioni a confronto: gli ultrasessantenni, quelli che hanno raggiunto posizioni di potere in tempi ben diversi dagli attuali e continuano a sfruttare le loro rendite di posizione senza preoccuparsi delle conseguenze; i cinquantenni come Enrico e come Carlo (il figlio dell'imprenditore squalo, interpretato da Giuseppe Battiston) che mantengono un legame col passato, rispetto al quale possono avere atteggiamenti diversi, di colpa, di invidia, di arrivismo, di accettazione acritica; poi ci sono i quarantenni, tendenzialmente frustrati, scontenti, depressi, incapaci di assumersi le responsabilità, desiderosi di vivere un'adolescenza che duri tutta la vita; infine ci sono i diciottenni. Come sono i giovanissimi? Per qualcuno sono dei debosciati, peggio di chi li ha preceduti. Zanasi invece ci vuole credere, ha bisogno (come ne abbiamo tutti noi) di sperare che i giovanissimi di oggi portino valori antichi e insieme nuovi con loro, e possano mantenere uno sguardo pulito sul futuro.

Ai rapporti tra le generazioni (ma non solo tra loro) si collega il tema che, secondo me, sintetizza tutto il film e che non a caso è richiamato anche nel titolo, ossia la relazione tra semplicità e complessità. Nel film gli adulti fanno continuamente riferimento alla complessità delle cose, e Carlo a un certo punto rivolgendosi a Enrico gli dice: "Com'è che nella vita a un certo punto le cose - da semplici che erano - diventano così complesse?". Per contro Filippo e Camilla, cui fa da spalla Achrinoam, un personaggio adulto che però non ha perso lo sguardo pulito - fors'anche ingenuo - sulla realtà, sono l'espressione della semplicità e sembrano urlare con tutte le loro azioni che le cose - nella loro essenza - sono semplici e spesso la complessità è solo una scusa per non assumersi le responsabilità. Sulla bocca di questi personaggi si affaccia spesso la frase: "Non si fa così", che sembra un modo di dire da bambini, ma forse sta a comunicarci che alla fin fine l'etica è una cosa semplice, perché in realtà ce l'abbiamo dentro, e solo le sovrastrutture col tempo ci impediscono di riconoscerne il messaggio semplice che si porta dietro.

Alla fine la vera speranza del film - non quella futura e incerta dei giovani, ma quella presente - è Enrico, un adulto, un uomo fatto, che però quando impara ad ascoltarsi, a parlare con il mondo circostante in modo vero, a guardare le cose per quelle che sono accetta la sfida della responsabilità.

E ora so che vi verrebbe da dire "Le cose sono più complicate di così", ma io per oggi - e non solo - voglio condividere l'aspirazione e la speranza di Zanasi per un futuro più semplice, che poi vuol dire più etico.

Voto: 3,5/5

giovedì 24 luglio 2014

Nouvelle Vague, Roma, Villa Ada incontra il mondo, 18 luglio 2014

Questa per me non è un'estate particolarmente fortunata. E non è un caso che io sia arrivata al 18 luglio senza aver partecipato praticamente ad alcun evento dell'estate romana.

Non potevo però lasciar passare l'estate senza essermi nemmeno affacciata alla manifestazione "Villa Ada incontra il mondo" che è uno degli appuntamenti estivi che amo di più, oltre ad essere vicinissimo a casa mia.

E così propongo a C. di andare a sentire i Nouvelle Vague. A dire la verità era stata proprio C. a farmeli conoscere, quando tempo fa avevo copiato un po' della musica presente sul suo computer e proprio per questo ho pensato che poteva essere interessante ascoltarli dal vivo.

Peraltro, quando sono arrivata a Villa Ada non sapevo neppure quale formazione prevedesse il gruppo (ho scoperto poi che la composizione è in continua evoluzione) e ricordavo pochissime canzoni. E lì per lì quando i Nouvelle Vague sono saliti sul palco sono rimasta colpita dall'età media - non certo giovanissima - dei componenti della band, che mi ha anche chiarito il motivo della composizione anagrafica del pubblico, numerosissimo, arrivato ad ascoltarli.

Le due cantanti - scopro dopo che si tratta di Liset Alea e Mélanie Pain - sono entrambe carismatiche nella loro diversità. Mélanie sembra uscita direttamente da un film muto salvo per il colore quasi fucsia del suo vestito ed esce certamente fuori di più alla distanza; Liset ha una gonnellina cortissima che fa svolazzare durante tutto il concerto e con i suoi balli sensuali e trascinanti conquista l'intero pubblico. Intorno hanno un chitarrista (Olivier Libaux), un tastierista (Marc Collin) - entrambi storici musicisti del gruppo -, un batterista e un bassista.

L'inizio del concerto mi produce la sensazione di una specie di tuffo in un mondo musicale lontano e l'effetto è un po' straniante e quasi anacronistico, fors'anche perché non conosco la maggior parte delle loro canzoni, tranne alcune delle cover tra cui Just can't get enough e Guns of Brixton.

Man mano però che il concerto va avanti e le canzoni si susseguono io - come del resto la gran parte del pubblico - mi faccio conquistare dall'universo musicale dei Nouvelle Vague e da quel loro improbabile, ma riuscito tentativo di reinterpretare la new wave in chiave Bossa Nova.

Così, giunti all'ultimo brano, il pubblico chiede a gran voce un primo e un secondo ritorno sul palco della band che chiude con una versione acustica e trascinante di In a manner.

Quella in compagnia dei Nouvelle Vague è stata veramente una piacevole serata.

Voto: 3/5