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venerdì 4 dicembre 2015

La felicità è un sistema complesso

Zanasi è il regista e sceneggiatore di Non pensarci, film che a suo tempo avevo molto amato. Così quando è uscito al cinema il suo nuovo lavoro non ho esitato un attimo ad andare a vederlo.

Come dice una mia amica, La felicità è un sistema complesso sta a metà strada tra Il capitale umano e Tra le nuvole. Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa l'intermediario per un'azienda che acquista società sull'orlo del fallimento, quasi sempre perché le generazioni degli eredi quarantenni dei fondatori non sono stati in grado o non hanno voluto occuparsi dell'eredità genitoriale.

Enrico è molto bravo nel suo lavoro, diventa amico dei suoi clienti, li comprende e li aiuta a trovare il "coraggio" di fare la scelta di firmare la cessione, all'inseguimento di una vita che a loro sembra sfuggire di mano (chi per aprire un resort in Costa Rica, chi per andare in Nuova Zelanda).

La sua vita viene letteralmente messa sottosopra da due eventi: l'arrivo in casa sua di Achrinoam (Hadas Yaron), la fidanzata israeliana che il fratello ha mollato facendole credere di essere partito per il Chiapas, e il nuovo incarico che prevede la cessione di un'azienda i cui proprietari sono morti in un incidente stradale lasciando la maggioranza delle azioni ai giovanissimi figli, il diciottenne Filippo (Filippo De Carli) e la tredicenne Camilla (Camilla Martini).

Enrico dovrà fare i conti con la sua vita e le sue scelte.
Quello di Mastandrea è un personaggio ironico e dolente, di un'umanità spessa, che non si può non amare anche nella finzione che in qualche modo si è costruito.

Il film di Zanasi per me parla di tre antinomie: parole/silenzi; giovani/non più giovani; semplicità/complessità.

Sul primo aspetto, non è un caso che una delle canzoni portanti della bellissima colonna sonora (affidata a Niccolò Contessa de I Cani, ma dove compaiono tra gli altri i Low Roars e i Rolling Stones) sia In a manner of speaking (nella versione - cover dell'originale dei Tuxedomoon - dei Nouvelle Vague) con il suo ritornello "Oh give me the words / Give me the words / but tell me nothing / Ohohohoh give me the words / Give me the words / That tell me everything". Nel film di Zanasi i silenzi sono altrettanto importanti delle parole e le parole spesso non dicono quello che vorrebbero dire. Enrico è cresciuto imparando - a seconda dei casi - a stare in silenzio o a dire le parole che l'interlocutore si aspetta di sentire. Le parole vere, senza mediazione, arrivano con la comparsa in scena di Achrinoam, di Filippo e di Camilla.

La questione generazionale è evidentemente il cuore del film. Ci sono almeno quattro generazioni a confronto: gli ultrasessantenni, quelli che hanno raggiunto posizioni di potere in tempi ben diversi dagli attuali e continuano a sfruttare le loro rendite di posizione senza preoccuparsi delle conseguenze; i cinquantenni come Enrico e come Carlo (il figlio dell'imprenditore squalo, interpretato da Giuseppe Battiston) che mantengono un legame col passato, rispetto al quale possono avere atteggiamenti diversi, di colpa, di invidia, di arrivismo, di accettazione acritica; poi ci sono i quarantenni, tendenzialmente frustrati, scontenti, depressi, incapaci di assumersi le responsabilità, desiderosi di vivere un'adolescenza che duri tutta la vita; infine ci sono i diciottenni. Come sono i giovanissimi? Per qualcuno sono dei debosciati, peggio di chi li ha preceduti. Zanasi invece ci vuole credere, ha bisogno (come ne abbiamo tutti noi) di sperare che i giovanissimi di oggi portino valori antichi e insieme nuovi con loro, e possano mantenere uno sguardo pulito sul futuro.

Ai rapporti tra le generazioni (ma non solo tra loro) si collega il tema che, secondo me, sintetizza tutto il film e che non a caso è richiamato anche nel titolo, ossia la relazione tra semplicità e complessità. Nel film gli adulti fanno continuamente riferimento alla complessità delle cose, e Carlo a un certo punto rivolgendosi a Enrico gli dice: "Com'è che nella vita a un certo punto le cose - da semplici che erano - diventano così complesse?". Per contro Filippo e Camilla, cui fa da spalla Achrinoam, un personaggio adulto che però non ha perso lo sguardo pulito - fors'anche ingenuo - sulla realtà, sono l'espressione della semplicità e sembrano urlare con tutte le loro azioni che le cose - nella loro essenza - sono semplici e spesso la complessità è solo una scusa per non assumersi le responsabilità. Sulla bocca di questi personaggi si affaccia spesso la frase: "Non si fa così", che sembra un modo di dire da bambini, ma forse sta a comunicarci che alla fin fine l'etica è una cosa semplice, perché in realtà ce l'abbiamo dentro, e solo le sovrastrutture col tempo ci impediscono di riconoscerne il messaggio semplice che si porta dietro.

Alla fine la vera speranza del film - non quella futura e incerta dei giovani, ma quella presente - è Enrico, un adulto, un uomo fatto, che però quando impara ad ascoltarsi, a parlare con il mondo circostante in modo vero, a guardare le cose per quelle che sono accetta la sfida della responsabilità.

E ora so che vi verrebbe da dire "Le cose sono più complicate di così", ma io per oggi - e non solo - voglio condividere l'aspirazione e la speranza di Zanasi per un futuro più semplice, che poi vuol dire più etico.

Voto: 3,5/5

sabato 24 novembre 2012

La sposa promessa

Con la mia amica G. commentavamo che guardare questo film produce la stessa sensazione che guardare dentro un acquario. Si vedono dei pesci muoversi, entrare in relazione o ignorarsi, affannarsi in una direzione o nell’altra, ma è praticamente impossibile capirne le motivazioni.

Qui l’acquario è rappresentato da una comunità ebrea ultraortodossa di Tel Aviv, in cui gli uomini hanno i capelli con le tipiche treccine laterali (payot), i copricapi con la falda tesa oppure dei cilindri coperti di pelliccia (shtreimel), le donne sposate hanno il capo coperto da una specie di turbante (tichel), e le ragazze ancora in età da marito hanno il capo scoperto ma sono vestite come negli anni ’50.

La protagonista, Shira (Hadas Yaron), ha 18 anni e la famiglia le propone un ragazzo della sua età da sposare. Quando sua sorella Esther muore dando alla luce il suo primogenito e il marito Yochai (Yiftach Klein) – dopo qualche tempo dalla morte – vuole risposarsi per dare una madre al bambino, Shira si trova di fronte a una scelta che ai nostri occhi appare paradossale: quella tra il giovane inizialmente proposto dalla famiglia o il cognato parecchio più grande di lei che la famiglia a questo punto auspicherebbe come marito.

Il tormento interiore di Shira risulta incomprensibile agli occhi di chi - come la sottoscritta - continua a chiedersi per tutto il film come un essere umano possa accettare un tale insieme regole di vita e sociali senza ribellarsi. O meglio, in realtà, si può comprendere che, se questo è sempre stato il proprio mondo o se ci si è arrivati rifiutando quello circostante, certi meccanismi non arrivano nemmeno a poter essere messi in discussione, ovvero li si è scelti proprio per la loro certezza/rigidità e l’impossibilità/non necessità di un approccio critico.
Mi impressiona leggere che la regista Rama Burshtein è nata a New York, ma dopo essere andata a studiare a Gerusalemme e aver conosciuto le comunità ortodosse ha deciso non solo di aderire in prima persona a questo modello di vita ma anche di utilizzare l’arte cinematografica per far conoscere questo mondo all’esterno.

Ebbene, dal mio punto di vista, Rama Burshtein non fa un buon servizio agli ebrei ortodossi, dal momento che chiunque abbia vissuto un minimo processo di emancipazione non potrà che rifiutare un mondo in cui gli universi maschile e femminile sono completamente separati, le donne hanno come loro massima aspirazione il matrimonio e quelle che non si sposano portano addosso una specie di marchio di infamia, la vita di tutti è profondamente condizionata dalle scelte del rabbino, dalle sue decisioni e dalle sue interpretazioni degli eventi.

È evidente che il mondo qui rappresentato non è espressione esclusiva degli ebrei ortodossi in quanto molte caratteristiche si ritrovano trasversalmente in numerose comunità religiose e non, soprattutto quelle con forti regole tutte interne e autoreferenziali.

Non sono dunque d’accordo con chi dice che questa è fondamentalmente una storia d’amore e che - anche all’interno delle regole sociali rigide in cui si muove – si riconoscono sentimenti forti e universali. Io non ho visto una storia d’amore, bensì una storia di autocastrazione e di scelta volontaria della sofferenza.

Voto: 2/5