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lunedì 22 gennaio 2024

Enea

Pietro Castellitto è alla seconda, attesa prova cinematografica, dopo l'ottimo successo dell'opera prima, I predatori, che io però non ho visto.

Ci arriva con la spavalderia di chi non ha paura di sognare e realizzare in grande.

Enea (lo stesso Castellitto) è il primogenito di una ricca famiglia di Roma nord: il padre Celeste (interpretato dal padre Sergio Castellitto) fa lo psicanalista, mentre la madre (Chiara Noschese) conduce un programma televisivo che parla di libri. Enea ha anche un fratello più piccolo, Simone (interpretato dal fratello minore di Pietro, Cesare Castellitto), e un migliore amico, Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, anche musicista con il nome di Tutti Fenomeni), che ha appena preso il brevetto come pilota di aerei da turismo.

Tutti questi personaggi si muovono all'interno degli ambienti della Roma bene, tra case e ragazze bellissime, domestici in livrea, ristoranti di livello, feste in posti esclusivi con fuochi d'artificio, e così via. Ma, nonostante e forse a causa di tutto questo, Enea e Valentino sono costantemente alla ricerca dell'adrenalina che li sollevi dal baratro depressivo al bordo del quale costantemente viaggiano. È per questo che, nell'ambito della loro ordinaria attività di spaccio di cocaina negli ambienti che frequentano, si ritrovano a un certo punto coinvolti in un affare di grandi proporzioni, nel quale sono coinvolti boss importanti della malavita locale, e - nel rischiare il tutto per tutto in esso (non per soldi, ma per pura noia) - i due ragazzi andranno incontro al loro destino.

Che film è Enea? A mio modo di vedere è una Suburra ambientata a Roma nord, "impreziosita" da echi sorrentiniani, sia a livello estetico che a livello di registro (come è evidente negli inserti grotteschi e kitsch). Si potrebbe anche dire che Enea è una visione capovolta, ma speculare de La terra dell'abbastanza dei fratelli D'Innocenzo (che tra l'altro appartengono alla stessa generazione di Castellitto figlio).

Si vede benissimo che Pietro Castellitto nel cinema ci sta a suo agio e di film ne ha macinati tanti (tra le altre cose, la scena della festa mi ha fatto pensare a quella di Chazelle in Babylon), e si capisce anche che il ragazzo ha mestiere e vuole mostrarlo quasi a tutti i costi: il film è una sequenza quasi continua di inquadrature, girato e scelte registiche originali e piene di inventiva (o quanto meno di mestiere), al limite della stucchevolezza.

Premesso che non è esattamente il mio genere di film e che c'è anche un problema di distanza generazionale, due sono gli aspetti che non mi fanno esprimere un giudizio positivo sul film: un aspetto è di matrice soggettiva - mi rendo conto - ossia il fortissimo egocentrismo/narcisismo del regista/attore protagonista, che mette sé stesso in quasi ogni inquadratura e parla di sé stesso (e della sua famiglia); il secondo invece è un elemento più oggettivo: una sceneggiatura che personalmente ho trovato a tratti fastidiosa nel suo essere pretenziosa, fin dalla prima sequenza, in cui i personaggi parlano di cose che dovrebbero essere delle alte riflessioni esistenziali e invece sono delle assolute banalità. E un po' il film da questo punto di vista procede così. Qualcuno mi fa notare che forse si tratta di un'enorme parodia, quindi un doppio salto mortale per cui si ironizza sulla presunta profondità di questi discorsi ben sapendo che sono delle banalità. Però - mi viene da dire - se tutto è parodia, niente è parodia.

In conclusione, il ragazzo è bravo (e si avvale di tante collaborazioni interessanti: Luca Guadagnino è tra i produttori del film, la colonna sonora è di Niccolò Contessa, aka I Cani), ma rischia di schiantarsi contro un muro se pensa di proseguire la sua produzione cinematografica andando a questa velocità.

Voto: 3/5



venerdì 4 dicembre 2015

La felicità è un sistema complesso

Zanasi è il regista e sceneggiatore di Non pensarci, film che a suo tempo avevo molto amato. Così quando è uscito al cinema il suo nuovo lavoro non ho esitato un attimo ad andare a vederlo.

Come dice una mia amica, La felicità è un sistema complesso sta a metà strada tra Il capitale umano e Tra le nuvole. Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa l'intermediario per un'azienda che acquista società sull'orlo del fallimento, quasi sempre perché le generazioni degli eredi quarantenni dei fondatori non sono stati in grado o non hanno voluto occuparsi dell'eredità genitoriale.

Enrico è molto bravo nel suo lavoro, diventa amico dei suoi clienti, li comprende e li aiuta a trovare il "coraggio" di fare la scelta di firmare la cessione, all'inseguimento di una vita che a loro sembra sfuggire di mano (chi per aprire un resort in Costa Rica, chi per andare in Nuova Zelanda).

La sua vita viene letteralmente messa sottosopra da due eventi: l'arrivo in casa sua di Achrinoam (Hadas Yaron), la fidanzata israeliana che il fratello ha mollato facendole credere di essere partito per il Chiapas, e il nuovo incarico che prevede la cessione di un'azienda i cui proprietari sono morti in un incidente stradale lasciando la maggioranza delle azioni ai giovanissimi figli, il diciottenne Filippo (Filippo De Carli) e la tredicenne Camilla (Camilla Martini).

Enrico dovrà fare i conti con la sua vita e le sue scelte.
Quello di Mastandrea è un personaggio ironico e dolente, di un'umanità spessa, che non si può non amare anche nella finzione che in qualche modo si è costruito.

Il film di Zanasi per me parla di tre antinomie: parole/silenzi; giovani/non più giovani; semplicità/complessità.

Sul primo aspetto, non è un caso che una delle canzoni portanti della bellissima colonna sonora (affidata a Niccolò Contessa de I Cani, ma dove compaiono tra gli altri i Low Roars e i Rolling Stones) sia In a manner of speaking (nella versione - cover dell'originale dei Tuxedomoon - dei Nouvelle Vague) con il suo ritornello "Oh give me the words / Give me the words / but tell me nothing / Ohohohoh give me the words / Give me the words / That tell me everything". Nel film di Zanasi i silenzi sono altrettanto importanti delle parole e le parole spesso non dicono quello che vorrebbero dire. Enrico è cresciuto imparando - a seconda dei casi - a stare in silenzio o a dire le parole che l'interlocutore si aspetta di sentire. Le parole vere, senza mediazione, arrivano con la comparsa in scena di Achrinoam, di Filippo e di Camilla.

La questione generazionale è evidentemente il cuore del film. Ci sono almeno quattro generazioni a confronto: gli ultrasessantenni, quelli che hanno raggiunto posizioni di potere in tempi ben diversi dagli attuali e continuano a sfruttare le loro rendite di posizione senza preoccuparsi delle conseguenze; i cinquantenni come Enrico e come Carlo (il figlio dell'imprenditore squalo, interpretato da Giuseppe Battiston) che mantengono un legame col passato, rispetto al quale possono avere atteggiamenti diversi, di colpa, di invidia, di arrivismo, di accettazione acritica; poi ci sono i quarantenni, tendenzialmente frustrati, scontenti, depressi, incapaci di assumersi le responsabilità, desiderosi di vivere un'adolescenza che duri tutta la vita; infine ci sono i diciottenni. Come sono i giovanissimi? Per qualcuno sono dei debosciati, peggio di chi li ha preceduti. Zanasi invece ci vuole credere, ha bisogno (come ne abbiamo tutti noi) di sperare che i giovanissimi di oggi portino valori antichi e insieme nuovi con loro, e possano mantenere uno sguardo pulito sul futuro.

Ai rapporti tra le generazioni (ma non solo tra loro) si collega il tema che, secondo me, sintetizza tutto il film e che non a caso è richiamato anche nel titolo, ossia la relazione tra semplicità e complessità. Nel film gli adulti fanno continuamente riferimento alla complessità delle cose, e Carlo a un certo punto rivolgendosi a Enrico gli dice: "Com'è che nella vita a un certo punto le cose - da semplici che erano - diventano così complesse?". Per contro Filippo e Camilla, cui fa da spalla Achrinoam, un personaggio adulto che però non ha perso lo sguardo pulito - fors'anche ingenuo - sulla realtà, sono l'espressione della semplicità e sembrano urlare con tutte le loro azioni che le cose - nella loro essenza - sono semplici e spesso la complessità è solo una scusa per non assumersi le responsabilità. Sulla bocca di questi personaggi si affaccia spesso la frase: "Non si fa così", che sembra un modo di dire da bambini, ma forse sta a comunicarci che alla fin fine l'etica è una cosa semplice, perché in realtà ce l'abbiamo dentro, e solo le sovrastrutture col tempo ci impediscono di riconoscerne il messaggio semplice che si porta dietro.

Alla fine la vera speranza del film - non quella futura e incerta dei giovani, ma quella presente - è Enrico, un adulto, un uomo fatto, che però quando impara ad ascoltarsi, a parlare con il mondo circostante in modo vero, a guardare le cose per quelle che sono accetta la sfida della responsabilità.

E ora so che vi verrebbe da dire "Le cose sono più complicate di così", ma io per oggi - e non solo - voglio condividere l'aspirazione e la speranza di Zanasi per un futuro più semplice, che poi vuol dire più etico.

Voto: 3,5/5