Ed eccomi alla tradizionale rassegna Da Cannes a Roma, che porta in anteprima nei cinema romani (e quest'anno anche in regione) una selezione dei film presentati all'ultimo festival di Cannes.
Il mio primo film di quest'anno è Le redoutable, il nuovo lavoro di Michel Hazanavicius, di cui personalmente avevo molto apprezzato The artist. Dunque scelgo il film a scatola quasi chiusa, confidando nel nome del regista.
Le redoutable racconta una fase della vita del regista francese Jean-Luc Godard (magistralmente interpretato da Louis Garrel), per la precisione il periodo che va dal momento in cui sta girando il film La chinoise di cui è interprete la giovanissima Anne Wiazemsky (Stacy Martin), che diventerà sua moglie, alla fondazione del Gruppo Dziga Vertov. Il tutto guardato dagli occhi di Anne, autrice del libro autobiografico Un an après da cui è tratta la sceneggiatura del film.
Il titolo del film fa riferimento al nome del sottomarino nucleare francese che nel 1967 ebbe il battesimo del mare alla presenza del generale De Gaulle e di cui Godard e la moglie sentono parlare un giorno alla radio. La frase con cui si conclude il servizio radiofonico "Ainsi va la vie à bord du Redoutable" diventerà per la coppia una specie di messaggio in codice che i due amanti si lanceranno in momenti topici della loro relazione.
Come al solito, mi sento completamente impreparata a un film di questo tipo, da cui trasudano linguaggio meta cinematografico, cinefilia e uso ironico del mezzo. Conosco Godard solo di nome - anche se so che è l'iniziatore nonché il maggior interprete della Nouvelle Vague francese - e dei suoi film conosco solo Fino all'ultimo respiro (A bout de souffle) che pure non ho visto.
Mi dico che i veri intenditori avrebbero più elementi di me per cogliere i riferimenti, il gioco con lo spettatore e l'ironia del regista. Ma al contempo man mano che il film si dispiega davanti ai miei occhi mi rendo conto che in fondo anche la naiveté con cui mi ci accosto può essere un punto di forza, in quanto mi sottrae all'inevitabile rispetto quasi reverenziale di cui chi conosce l'opera di Godard è certamente vittima e il probabile senso di fastidio rispetto alla quasi "ridicolizzazione" del protagonista, che forse non rende merito all'artista.
Jean-Luc viene rappresentato come un regista dall'ego smisurato, anticonformista a prescindere, un po' misantropo, sicuro di sé, ma al contempo fragile, testardo e rigido, ma insieme manipolabile, a tratti ingenuo fino appunto a sfiorare il ridicolo.
Anne si innamora del Godard che ha cambiato il cinema, ma si trova di fronte un uomo affascinato dal maoismo e dagli ideali della rivoluzione, che a un certo punto gli sembrano sul punto di realizzarsi durante le manifestazioni imponenti del maggio francese cui parteciperà in prima persona. Jean-Luc non avrà però in questa circostanza la lucidità per accorgersi che la rivoluzione non porterà da nessuna parte se non al punto di partenza, e andrà avanti cocciutamente per la sua strada alienandosi amici e colleghi del mondo del cinema per inseguire il sogno di un cinema realizzato in maniera comunitaria e collettiva, democraticamente e senza gerarchie. In questa parabola si alienerà anche l'amore di sua moglie Anne, da cui è profondamente dipendente sul piano emotivo.
Ma il racconto di Hazanavicius non è una ricostruzione seriosa e drammatica, bensì una specie di commedia frizzante, piena di invenzioni e di giochi di pura cinematografia, in parte ispirati allo stesso cinema di Godard (uso del bianco e nero alternato al colore, uso della pellicola in negativo, battute pronunciate rivolgendosi alla camera), cui si aggiungono esilaranti momenti di metacinematografia (come nella scena in macchina in cui si parla male del Festival di Cannes in un film in competizione per la Palma d'oro, o quando il protagonista dice di essere talmente lontano da "Godard" da sentirsi un attore che lo interpreta, o quando in un dialogo con la moglie, mentre sono nudi prima di andare a dormire, i due parlano delle inutili scene di nudo di alcuni film ecc.).
L'immagine di Godard che ne viene fuori è macchiettistica (e volutamente tale per alcune scelte di regia e sceneggiatura, ad esempio la situazione ricorrente per cui ogni volta che Godard partecipa a una manifestazione cade o viene travolto e gli si rompono gli occhiali, nonché l'articolazione del film in capitoli introdotti da titoli che sono in parte riletture di titoli di suoi film); e certamente non rende merito alla complessità e alla molteplicità delle sfaccettature di un personaggio del mondo del cinema che non si può ridurre a quest'unica dimensione.
Ma d'altronde fin dal principio è chiaro che questo film parla di un periodo della sua vita e lo fa da un punto di vista molto particolare, quello della moglie da cui si è poi separato.
Quello di Hazanavicius è un film irriverente e anticonformista, o forse - strizzando l'occhio allo spettatore con il suo tono ludico e le sue invenzioni - è in realtà un film molto meno dirompente e originale di quanto non voglia apparire. Ma non è forse questo il medesimo paradosso che il regista vuole mettere in evidenza del suo protagonista?
Voto: 4/5
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lunedì 19 giugno 2017
martedì 20 dicembre 2011
The artist

Il coraggioso film muto e in bianco e nero di Michel Hazanavicius è esattamente il contrario di un film noioso e intellettuale. Cercherò di raccontarvelo con cinque aggettivi: citazionista, malinconico, commovente, ironico, liberatorio.
Citazionista perché - anche se le mie conoscenze cinematografiche non sono così estese da consentirmi un riconoscimento puntuale ed esaustivo - è evidente che The artist è un omaggio a 360° a un cinema che non c'è più, un cinema che riusciva a essere altamente comunicativo pur essendo sostanzialmente privo di mezzi tecnici. George Valentin (Jean Dujardin) che dà fuoco alle pellicole e quasi muore nel rogo che investe tutta la casa mi ha ricordato la scena clou di Fahrenheit 451, la comunicazione non verbale di George e Peppy separati da una tenda mi ha ricordato Accadde una notte di Frank Capra, i balletti finali mi hanno riportato davanti agli occhi Fred Astaire e Ginger Rogers. E poi chissà quanti altri film si potrebbero riconoscere.
Ma - forse proprio in quanto citazionista - The artist è anche un film malinconico perché racconta la storia di una star dei film muti, George Valentin, che - all'avvento del sonoro - cade in disgrazia in quanto non crede nel futuro dei film in cui gli attori parlano e si rifiuta di essere coinvolto da questo nuovo mondo cinematografico che non capisce e lo spaventa. George è dunque presto soppiantato in popolarità dalla scoppiettante Peppy Miller (Bérénice Bejo), la nuova star dei film sonori che è però da sempre innamorata di lui. Il film mi ha ricordato - per l'atmosfera complessiva e per il gusto retrò - L'illusionista di Sylvain Chomet, che pure raccontava la storia di un passaggio d'epoca e la tristezza di chi non trova un proprio ruolo nel mondo nuovo.
The artist è anche commovente perché l'assenza di voce e di suoni, eccetto quelli dell'orchestra che - come ci viene illustrato - accompagnava dal vivo lo svolgersi dei film muti, è per George non una costrizione determinata da un limite tecnico, bensì una specie di scelta culturale ed esistenziale. Non è un caso che il suo migliore amico, quello che più capisce e da cui più è capito è il suo cane. Nel mondo di George non c'è bisogno di sentire e capire tutte le parole degli altri, perché la comunicazione utilizza tutti gli altri canali che non siano la parola. Ed effettivamente niente ci manca realmente per capire i caratteri e i sentimenti dei personaggi.
Non si tratta però di un film lacrimevole, anzi densamente ironico perché - come è nella tradizione dei film muti - molta parte della storia è affidata alle invenzioni visive e all'espressività degli attori la cui recitazione - tutta fisica - deve necessariamente essere un po' sopra le righe per rappresentare il personaggio. E così The artist non annoia mai e riesce a sorprendere lo spettatore a più riprese: come quando nell'assenza totale di suoni che non siano la musica di sottofondo si cominciano a sentire dei rumori, quelli che popolano l'incubo di George Valentin; o quando Peppy Miller intrufolatasi nel camerino di George infila il braccio nella manica della sua giacca su un appendiabiti e finge di scambiare effusioni con lui; o ancora quando George produce e gira il suo ultimo, epico film muto Tears of love ambientato nella giungla e - avendo bevuto troppo - ha le allucinazioni; quando George e Peppy si incontrano su e giù per una scala vista lateralmente per consentirci di ammirarne la sezione geometrica; o infine quando alla fine del film il riconciliarsi di George con il mondo del cinema viene segnato dalla ricomparsa delle parole.
Per concludere, The artist è un film liberatorio, perché ci libera dalla parola e dal rumore, dalla tecnologia e dall'abuso dei mezzi tecnici, dai sentimenti troppo sottotraccia, dall'intellettualismo a tutti i costi, dalle trame ipercomplesse, dalla banalità delle sceneggiature, dalla finta bellezza contemporanea. È un film liberatorio perché ridona alla musica la capacità di raccontare ed è a tratti talmente trascinante da spingerci a ballare.
Forse abbiamo proprio bisogno di riscoprire la semplicità, che sempre di più oggi diventa sinonimo di intelligenza, bellezza e armonia con il mondo circostante.
Voto: 4,5/5
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