Ha ragione la mia amica G. che all'apparire dei titoli di coda ha esclamato: "Questo film ti riconcilia con la vita e con il mondo!".
Il coraggioso film muto e in bianco e nero di Michel Hazanavicius è esattamente il contrario di un film noioso e intellettuale. Cercherò di raccontarvelo con cinque aggettivi: citazionista, malinconico, commovente, ironico, liberatorio.
Citazionista perché - anche se le mie conoscenze cinematografiche non sono così estese da consentirmi un riconoscimento puntuale ed esaustivo - è evidente che The artist è un omaggio a 360° a un cinema che non c'è più, un cinema che riusciva a essere altamente comunicativo pur essendo sostanzialmente privo di mezzi tecnici. George Valentin (Jean Dujardin) che dà fuoco alle pellicole e quasi muore nel rogo che investe tutta la casa mi ha ricordato la scena clou di Fahrenheit 451, la comunicazione non verbale di George e Peppy separati da una tenda mi ha ricordato Accadde una notte di Frank Capra, i balletti finali mi hanno riportato davanti agli occhi Fred Astaire e Ginger Rogers. E poi chissà quanti altri film si potrebbero riconoscere.
Ma - forse proprio in quanto citazionista - The artist è anche un film malinconico perché racconta la storia di una star dei film muti, George Valentin, che - all'avvento del sonoro - cade in disgrazia in quanto non crede nel futuro dei film in cui gli attori parlano e si rifiuta di essere coinvolto da questo nuovo mondo cinematografico che non capisce e lo spaventa. George è dunque presto soppiantato in popolarità dalla scoppiettante Peppy Miller (Bérénice Bejo), la nuova star dei film sonori che è però da sempre innamorata di lui. Il film mi ha ricordato - per l'atmosfera complessiva e per il gusto retrò - L'illusionista di Sylvain Chomet, che pure raccontava la storia di un passaggio d'epoca e la tristezza di chi non trova un proprio ruolo nel mondo nuovo.
The artist è anche commovente perché l'assenza di voce e di suoni, eccetto quelli dell'orchestra che - come ci viene illustrato - accompagnava dal vivo lo svolgersi dei film muti, è per George non una costrizione determinata da un limite tecnico, bensì una specie di scelta culturale ed esistenziale. Non è un caso che il suo migliore amico, quello che più capisce e da cui più è capito è il suo cane. Nel mondo di George non c'è bisogno di sentire e capire tutte le parole degli altri, perché la comunicazione utilizza tutti gli altri canali che non siano la parola. Ed effettivamente niente ci manca realmente per capire i caratteri e i sentimenti dei personaggi.
Non si tratta però di un film lacrimevole, anzi densamente ironico perché - come è nella tradizione dei film muti - molta parte della storia è affidata alle invenzioni visive e all'espressività degli attori la cui recitazione - tutta fisica - deve necessariamente essere un po' sopra le righe per rappresentare il personaggio. E così The artist non annoia mai e riesce a sorprendere lo spettatore a più riprese: come quando nell'assenza totale di suoni che non siano la musica di sottofondo si cominciano a sentire dei rumori, quelli che popolano l'incubo di George Valentin; o quando Peppy Miller intrufolatasi nel camerino di George infila il braccio nella manica della sua giacca su un appendiabiti e finge di scambiare effusioni con lui; o ancora quando George produce e gira il suo ultimo, epico film muto Tears of love ambientato nella giungla e - avendo bevuto troppo - ha le allucinazioni; quando George e Peppy si incontrano su e giù per una scala vista lateralmente per consentirci di ammirarne la sezione geometrica; o infine quando alla fine del film il riconciliarsi di George con il mondo del cinema viene segnato dalla ricomparsa delle parole.
Per concludere, The artist è un film liberatorio, perché ci libera dalla parola e dal rumore, dalla tecnologia e dall'abuso dei mezzi tecnici, dai sentimenti troppo sottotraccia, dall'intellettualismo a tutti i costi, dalle trame ipercomplesse, dalla banalità delle sceneggiature, dalla finta bellezza contemporanea. È un film liberatorio perché ridona alla musica la capacità di raccontare ed è a tratti talmente trascinante da spingerci a ballare.
Forse abbiamo proprio bisogno di riscoprire la semplicità, che sempre di più oggi diventa sinonimo di intelligenza, bellezza e armonia con il mondo circostante.
Voto: 4,5/5
martedì 20 dicembre 2011
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