L’elemento caratterizzante di quest’ultimo spettacolo di Papaioannou è l’acqua. Sul palco c’è un uomo totalmente vestito di nero (lo stesso Papaioannou), mentre da un tubo di irrigazione un grande getto d’acqua produce un effetto-pioggia. Nella primissima parte dello spettacolo l’uomo in nero sembra giocare con l’acqua e una grossa ciotola di vetro, creando – anche grazie a un sapiente uso delle luci, a un’attenta scelta dei movimenti e delle posizioni sul palco, nonché dei materiali – effetti visivi e sonori affascinanti e misteriosi (come nella scena in cui l’uomo è seduto pensoso o sonnacchioso e il getto dell’acqua, azionato in modo da coprire un angolo di 180 gradi, sembra provenire dalla sua testa e produce suoni differenti nell’incontro più o meno ravvicinato con i teli di plastica che circondano il palco).
A un certo punto però la tranquillità dell’uomo viene interrotta dalla comparsa sul palco (invero sotto una serie di pannelli di plastica trasparente che ricoprono il palco) di una presenza oscura, un uomo completamente nudo (Šuka Horn), i cui colori chiari creano un effetto visivo di forte contrasto con il protagonista, con cui si innesca quella che inizialmente appare come una lotta (l’uomo in nero tenta di catturare l’altro avvolgendolo nel pannello di plastica), ma che nel corso dello spettacolo si trasforma in seduzione, attrazione, complicità, protezione paterna, per poi riesplodere all’improvviso di nuovo in conflitto. Protagonista di questo incontro-scontro, oltre all’onnipresente acqua, è un polipo che – dopo essere stato più volte infilato e sciacquato nella ciotola di vetro, aver coperto il sesso dell’uomo nudo, essere stato lanciato – finisce sbattuto a più riprese per terra dall’uomo in nero (secondo la pratica tradizionale dei pescatori greci, ma anche del sud Italia) nella scena finale dello spettacolo.
Difficile riassumere qui in poco spazio le tante invenzioni che caratterizzano questo lavoro e che ne fanno uno spettacolo straordinario per gli occhi – e non solo –, così come risulta probabilmente banale e per certi versi impossibile attribuire un significato univoco alla narrazione, che rifugge dal didascalico e dal razionale in maniera evidentemente voluta e insistita.
Ci sono sicuramente echi di miti ancestrali che emergono a più riprese durante lo spettacolo, ma – come è evidente dalle interviste a Papaioannou che ho letto – in esso si possono leggere tante cose che, come in ogni opera d’arte che si rispetti, vanno anche al di là delle intenzioni dell’autore. A me per esempio a tratti l’uomo nudo ha fatto pensare a una personificazione del polipo, e dunque l’intero spettacolo mi è sembrato una specie di caccia in cui l’uomo in nero non è l’unico soggetto senziente, e il rapporto tra i due è molto più complesso e meno unidirezionale di quello che si potrebbe pensare, un po’ come tra il capitano Achab e Moby Dick, e in fondo tra tutti gli opposti che nell’incontro rivelano la loro complementarietà.
Leggo in molte recensioni che Ink non è il lavoro più riuscito di Papaioannou, che si tratta di un abbozzo di spettacolo con ancora molti difetti. Non ho ovviamente gli strumenti per potermi esprimere pienamente da questo punto di vista. Ma da persona che per la prima volta ha incontrato l’arte del regista greco posso dire che questo spettacolo – per quanto imperfetto – va a segno, grazie alla sua originalità e alla bellezza delle sue invenzioni.
Voto: 4/5
Difficile riassumere qui in poco spazio le tante invenzioni che caratterizzano questo lavoro e che ne fanno uno spettacolo straordinario per gli occhi – e non solo –, così come risulta probabilmente banale e per certi versi impossibile attribuire un significato univoco alla narrazione, che rifugge dal didascalico e dal razionale in maniera evidentemente voluta e insistita.
Ci sono sicuramente echi di miti ancestrali che emergono a più riprese durante lo spettacolo, ma – come è evidente dalle interviste a Papaioannou che ho letto – in esso si possono leggere tante cose che, come in ogni opera d’arte che si rispetti, vanno anche al di là delle intenzioni dell’autore. A me per esempio a tratti l’uomo nudo ha fatto pensare a una personificazione del polipo, e dunque l’intero spettacolo mi è sembrato una specie di caccia in cui l’uomo in nero non è l’unico soggetto senziente, e il rapporto tra i due è molto più complesso e meno unidirezionale di quello che si potrebbe pensare, un po’ come tra il capitano Achab e Moby Dick, e in fondo tra tutti gli opposti che nell’incontro rivelano la loro complementarietà.
Leggo in molte recensioni che Ink non è il lavoro più riuscito di Papaioannou, che si tratta di un abbozzo di spettacolo con ancora molti difetti. Non ho ovviamente gli strumenti per potermi esprimere pienamente da questo punto di vista. Ma da persona che per la prima volta ha incontrato l’arte del regista greco posso dire che questo spettacolo – per quanto imperfetto – va a segno, grazie alla sua originalità e alla bellezza delle sue invenzioni.
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