Silvio (Orlando) è un vedovo che si è ritirato a vivere in una casa di campagna in un paesino di pochi abitanti. La sua è diventata un’esistenza prevalentemente statica (Silvio sta per la maggior parte del tempo seduto) e costruita intorno a specifiche abitudini e piccole manie, che nella maggior parte dei casi non contemplano, anzi escludono l’interazione con altre persone.
In occasione però del suo compleanno e dell’anniversario della morte della moglie, arrivano a casa i figli, Maria (Maria Laura Rondanini), Alice (Redini) e Riccardo (Vincenzo Nemolato), nonché il fratello Roberto (Nobile).
Questa convivenza (più o meno forzata) porta alla luce tutte le dinamiche familiari, quella relativa al rapporto tra padre e figli, quella tra i fratelli Silvio e Roberto e, infine, quella tra i figli, ormai adulti, ognuno con la propria vita e le proprie complessità. Maria è pedante e depressa, convinta di poter salvare il mondo, Alice ha ambizioni da poetessa ma è frustrata da una sostanziale mancanza di creatività e si rifugia in un atteggiamento un po’ infantile, Riccardo vuole fare i soldi facilmente e senza lavorare; ognuno di loro alterna momenti di sintonia e altri di conflittualità con gli altri componenti della famiglia, a tratti rifugge e poi ritorna all’alveo familiare in una danza infinita che oscilla tra autonomia e dipendenza. Tutti hanno qualcosa da dire al loro padre, di cui non condividono la scelta di isolamento, esattamente come il fratello di lui, Roberto, sempre pronto a rintuzzare Silvio.
Lo spettacolo – in perfetto stile dramedy - si muove tra momenti leggeri e ironici, che fanno ridere e sorridere (anche grazie alla bella interpretazione di Silvio Orlando), e momenti drammatici e malinconici, che fanno riflettere e in cui tutti potranno riconoscere dinamiche familiari note e personali.
Il testo di Lucia Calamaro (che è anche la regista dello spettacolo) ha vinto il premio Ubu come miglior testo o nuovo progetto drammaturgico ed è anche una pubblicazione di Marsilio con il titolo Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato).
La sua forza si gioca, oltre che sull’equilibrio tra ironia e malinconia, sul colpo di scena finale che in parte ribalta l’interpretazione della storia raccontata e conferisce a quanto visto e ascoltato un significato forse più complesso e sicuramente meno consolatorio, puntando l’attenzione sui rischi dell’isolamento sociale delle persone che si trovano nella condizione di Silvio.
A me il testo è piaciuto però molto di più nelle parti dedicate alla disamina dei rapporti familiari, agli approfondimenti dei profili psicologici individuali e ai rischi prodotti sugli equilibri familiari dall’irrisolutezza individuale e dal mancato rispetto verso le scelte altrui. La frase che a un certo punto Silvio dice in merito al fatto che bisognerebbe smettere di essere genitori e figli quando questi ultimi hanno 30-40 anni e diventare semmai parenti alla lontana o conoscenti è qualcosa di profondamente vero e su cui forse non si è ancora riflettuto abbastanza.
Molto meno mi sono piaciute le digressioni diciamo “di puro intrattenimento”, in particolare alcuni piccoli monologhi affidati al fratello Roberto, fors’anche perché non amo la recitazione molto spinta sulla macchietta di Roberto Nobile (già visto insieme a Silvio Orlando nella messa in scena di Lacci di Starnone).
Nel complesso un testo per me un po’ discontinuo, ma con diversi punti forti e vette narrative non certo scontate, e con una messa in scena pulita e registicamente efficace.
Osservo con F. che deve esserci in questo periodo la moda delle scenografie con le quinte (delle pareti semitrasparenti su cui si aprono porte e che simulano ambienti diversi e livelli narrativi a volte differenti), perché ultimamente ne abbiamo viste a teatro almeno tre (in questo spettacolo, in Zero e in Ditegli sempre di sì): belle, ma magari meglio non esagerare ;-)
Voto: 3,5/5
venerdì 7 febbraio 2020
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