venerdì 30 novembre 2018

Anna Calvi. Largo Venue, 23 novembre 2018

Avevo già avuto modo di ascoltare Anna Calvi dal vivo nell'ormai lontano 2012: allora ero arrivata al concerto senza grandi aspettative (anche perché, dopo aver ascoltato il suo primo album, ne avevo concluso che, a parte alcune canzoni, non è musica perfettamente nelle mie corde); però poi al concerto ero rimasta quasi folgorata dall'energia di questa musicista.

Questa volta - all'uscita del nuovo lavoro Hunter e all'annuncio del nuovo tour - compro subito l'album e il biglietto del concerto previsto a Roma per il 23 novembre e trascino anche un po' di amici - alcuni un po' titubanti - a fare lo stesso.

E così, dopo tanta attesa, il 23 novembre arriva e, nonostante le defezioni di alcuni dei miei compagni di avventura (peccato per loro!), eccoci puntualissime - dopo esserci rifocillate con un ottimo ramen da Waraku - all'ingresso di Largo Venue.

Il tempo di entrare e di posizionarci in un buchetto libero a sinistra del palco (per darmi la possibilità di fare qualche foto) e alle 22.30 Anna Calvi sale sul palco. La sala rapidamente si riempie in ogni centimetro e mi colpisce vedere un pubblico in cui l'età media si aggira tra i 35 e i 45 anni, a testimonianza del fatto che quella di Anna Calvi è una musica per palati non troppo giovani.

Come è nel suo stile, Anna ha un trucco piuttosto marcato, e veste di rosso e nero. Le luci sul palco sono gestite in modo tale che si alternino momenti in cui la musicista è illuminata da una luce chiara mentre il resto del palco sprofonda nell'oscurità e momenti in cui tutto si tinge di rosso.

Senza preliminari e senza chiacchiere, accompagnata dalla polistrumentista Mally Harpaz e dal batterista Alex Thomas, Anna Calvi scalda subito l'atmosfera con As a man, brano tratto dall'ultimo album, e da qui in poi inanella, senza soluzione di continuità e per circa un'ora di fila, canzoni tratte da tutti e tre i suoi lavori (con una prevalenza dell'ultimo ovviamente). Tra una canzone e l'altra soltanto qualche timido grazie e la presentazione dei suoi musicisti; ma la timidezza scompare non appena Anna inizia a cantare, guardando dritto davanti a sé, ipnotica e ipnotizzante, conturbante nel modo in cui si fa tutt'uno con la sua chitarra, quasi un'estensione del suo corpo, coccolata e maltrattata al contempo.

Le canzoni sono state riarrangiate per l'esecuzione dal vivo e in alcuni casi si fa quasi fatica a riconoscerle, ma in questa operazione Anna Calvi e i suoi musicisti trasformano il concerto in un'esperienza unica, che niente ha a che vedere con l'ascolto in cuffia e che si trasforma in puro e vibrante godimento musicale.

La potenza di Anna aumenta di canzone in canzone e la cantante sembra quasi giocare con il lato luciferino di sé e della sua musica, al punto tale che ci si aspetta da un momento all'altro di vedere saettare una coda dietro di lei e che il palco venga avvolto da infernali fiamme.

In realtà, sarà solo la sua chitarra a fare le spese dell'energia dirompente della musicista fino all'epilogo in cui la Telecaster viene prima sollevata e poi messa a terra e "soggiogata" con un piede.

Quando la Calvi e i suoi musicisti escono dal palco, è evidente che il pubblico non è ancora sazio; cosicché dopo un po' di urli e applausi, la band torna per regalarci ancora tre canzoni e concludere questo strepitoso live con la cover di Ghost Writer dei Suicide.

Anna Calvi appartiene a quella categoria di musicisti per i quali un live vale sempre la pena, qualunque cosa si pensi della sua musica, perché ti mette addosso energia pura e ti lascia un'eredità che ti porti dietro a lungo.

Per altre foto del concerto vedi qui

Voto: 4/5

mercoledì 28 novembre 2018

Paolo Pellegrin. Un'antologia - Zerocalcare. Scavare fossati nutrire coccodrilli. MAXXI, 25 novembre 2018

Dedichiamo una piovosissima domenica di novembre a visitare le mostre attualmente in corso al MAXXI, quella dedicata alle fotografie di Paolo Pellegrin e quella che racconta Zerocalcare dai suoi esordi a oggi. Entrambe le mostre sono in programmazione fino al 10 marzo 2019 e meritano certamente una visita non frettolosa.

La mostra di Pellegrin, fotografo italiano in forza a una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo, la Magnum Photos, è allestita al terzo piano dell'edificio, e si articola sostanzialmente in tre parti: un'area più ampia immersa nell'oscurità e che propone foto in cui prevalgono i neri, una saletta piccola completamente bianca e piena di luce in cui trovano spazio alcune foto in cui i bianchi e la luce la fanno da padroni, infine un corridoio di collegamento tra le due sezioni in cui una grande parete è tappezzata di ritagli di giornale, foto, quaderni di schizzi e appunti, lettere e materiali di lavoro, tutte cose che danno conto da un lato dello scrupoloso e complesso metodo di lavoro del fotografo, dall'altro dell'ampiezza e dell'importanza della sua produzione fotografica.

L'allestimento delle foto nelle diverse sezioni è molto curato e variegato, e ogni scelta sembra fatta per valorizzare al meglio lo spirito delle foto. All'ingresso si trova una grande parete su cui sono stampate in sequenza due grandi foto fatte nella zona di Mosul; su queste stampe a parete ci sono da una parte foto di vario formato, che parlano della guerra nelle sue diverse sfaccettature; sull'altra c'è un piccolo schermo con un video girato nello stesso luogo della fotografia di sfondo. Seguono gruppi di fotografie che antologicamente ci propongono delle selezioni di foto che raccontano vicende che, in alcuni momenti della storia recente, hanno caratterizzato determinati luoghi del mondo (Palestina, Rochester, Kos, Libano ecc.). Alcune fotografie, nello specifico i ritratti fatti in Giappone, sono stampati su grandi teli di stoffa che scendono dal soffitto; altre fotografie sono invece stampate in formato più piccolo e organizzate in gruppi, a rappresentare un unico messaggio espresso con molteplici facce.

Nel percorso si apprezza la maturità di questo fotografo, la cui capacità di raccontare i luoghi e di farlo in modo totalmente personale ed emotivamente forte ha le sue radici in una grande perizia tecnica, una straordinaria chiarezza mentale e un rigoroso metodo di lavoro. Come dice la presentazione della mostra, e come è chiaro ai suoi visitatori grazie e soprattutto alla grande parete tappezzata che illustra il fotografo a tutto tondo e non solo nel risultato finale del suo lavoro, Paolo Pellegrin non cerca la singola foto iconica - anche se alcune lo diventano suo malgrado (penso a quella scattata a Beirut o a quella di Roma) - bensì utilizza le fotografie per raccontare la sua personale visione dei mondi con cui viene a contatto. E la cosa straordinaria è che il suo linguaggio, di volta in volta scelto e calibrato a seconda dei soggetti, ci arriva e ci parla in modo forte e chiaro.

L'antologica di Paolo Pellegrin vale una visita, soprattutto per gli aspiranti fotografi e i fotografi amatoriali come me, perché permette di capire che la fotografia non è puro istinto da applicare sul campo, bensì richiede un'attenta preparazione e, in fondo, anche un lavoro di discernimento e di scavo interiore per comprendere quello che di un luogo e di una realtà vogliamo raccontare, nonché la capacità di tradurre tutto questo in un linguaggio fotografico coerente e significativo.

La seconda parte del pomeriggio la dedichiamo alla mostra di Zerocalcare, Scavare fossati nutrire coccodrilli, che è ospitata nello spazio Extra del MAXXI, fuori dall'edificio principale, e che è quella maggiormente presa d'assalto, vista la popolarità del fumettista e anche la novità di una mostra a lui dedicata.

Sebbene di un genere completamente diverso, anche la mostra di Zerocalcare si segnala per la qualità dell'allestimento e dell'organizzazione: lungo le scale, mentre ci si avvicina all'ingresso vero e proprio, si possono leggere le tappe del percorso di Zero dai suoi esordi negli ambienti punk e underground romani fino al sorprendente successo di vendite e di pubblico fino ad arrivare ai progetti presenti e futuri, il tutto raccontato con la consueta ironia e autoironica mista a serietà e rigore che caratterizzano il fumettista romano.

Lo spazio espositivo vero e proprio è ricchissimo: c'è la possibilità di vedere e ascoltare le interviste a Michele Rech e ad alcune persone (Ascanio Celestini, Marco Damilano ecc.) che hanno voluto commentare questa mostra, nonché di guardare le tavole stampate su forex e raccolte dentro scatole di legno, vedere un piccolo video realizzato da Zerocalcare, scorrere su uno schermo una selezione dei disegnetti da lui fatti durante le presentazioni dei libri, e poi attraversare la sua produzione.

Un'intera parete raccoglie i manifesti da lui disegnati per gli eventi più vari e le cause che ha voluto sostenere, un'altra è dedicata a locandine, copertine di dischi e tutte le cose non mainstream e frutto di iniziative collettive in cui Zero è stato coinvolto. Le tavole originali delle strisce sono organizzate in quattro spazi, che hanno i seguenti titoli: Pop raccoglie le strisce più famose, tratte soprattutto dal blog, quelle che gli hanno dato la notorietà, Tribù racconta il mondo dal quale Zero proviene e a cui sente di appartenere, Non-Reportage si riferisce ai lavori in cui Zero racconta con i disegni dei luoghi e delle vicende reali, sebbene sempre con il suo stile inconfondibile, infine Lotte e Resistenze è un po' la sezione che spiega tutto il resto e soprattutto dice qual è l'anima del lavoro di Zerocalcare.

Si potrebbero passare le ore a leggere le tavole e le strisce, nonché i commenti scritti da Zero apposta per la mostra. Alcune storie sono famose e sicuramente ciascun visitatore ne troverà qualcuna che ha già letto e che conosce, ma la quantità di materiali da guardare e leggere resta ampia e significativa soprattutto nell'ottica di inquadrare il fenomeno Zerocalcare e capirne la sua natura, che pur essendo diventata mainstream, è invece profondamente antisistema. In un certo senso, trovo coraggioso che Zerocalcare, come dice anche nell'intervista, utilizzi questa mostra per raccontarsi senza infingimenti e per far vedere anche al grande pubblico che gli si è accostato in tempi recenti qual è la sua storia e la sua identità, cose a cui Zero resta fedele e con cui si mantiene profondamente coerente.

Da vedere entrambe.

Voto: 4/5

lunedì 26 novembre 2018

Toute première fois

Una programmazione da tenere d'occhio sulla piazza cinematografica romana è quella dell'Institut Français Centre Saint Louis, che nel suo auditorium propone una selezione di film francesi in lingua originale sottotitolati in italiano. Si tratta in parte di film che finiscono doppiati nel circuito cinematografico normale (ma che può valer la pena di vedere in lingua originale e a minor prezzo qui), in parte di film che non vedranno mai la luce nei nostri cinema, per i quali dunque questa rappresenta l'unica (o quasi) occasione di vederli sul grande schermo.

Il film visto l'altra sera appartiene alla seconda categoria.

Toute première fois (La prima volta) è una commedia molto divertente che affronta il tema dell'omosessualità in una prospettiva rovesciata che non solo si presta a una trattazione ironica, ma che permette di riflettere su molte cose: innanzitutto su quanta strada si è fatta su questo fronte, in secondo luogo sul fatto che non bisogna mai abbassare la guardia, perché un'integrazione che passa per una categorizzazione e una normalizzazione può essere altrettanto vincolante e opprimente.

Il film racconta - con tono leggero e divertito - la storia di Jeremie (Pio Marmaï), un ragazzo di 34 anni che convive con il suo compagno. La sua omosessualità è aperta e accettata da tutti; addirittura i suoi genitori hanno una spiccata preferenza per lui e il suo compagno che per la figlia sposata con un uomo e in attesa di un figlio, cui viene continuamente rinfacciato di essere troppo borghese. Jeremie, ormai alle soglie del matrimonio, si sveglia una mattina nel letto di una donna, una ragazza svedese incontrata a una festa. Questo episodio è destinato a sconvolgergli la vita, perché a poco a poco Jeremie si accorge - contro ogni previsione e in modo del tutto sorprendente per sé stesso e per i suoi amici, tra cui Charles, un adorabile playboy impenitente - di essersi innamorato di Adna (Adrianna Gradziel) e di voler imprimere una svolta alla sua vita. Prima però finirà sommerso da un castello di carta di bugie che gli allontaneranno sia il compagno Antoine che la stessa Adna. Jeremie dovrà trovare il coraggio di fare quello che il cognato definisce un coming out al contrario per essere fedele a quello che sente.

Il film dei registi Maxime Govare e Noémie Saglio è un concentrato di gag e di humour che però - a differenza di tante commedie di casa nostra - non sono mai triviali e fini a sé stessi, ma al servizio di un modo diverso di riflettere sulle contraddizioni della società e la complessità di ciascuno di noi.

La cinematografia è piena di storie perfettamente speculari a questa (donne o uomini etero che a un certo punto della vita si innamorano di una persona del loro stesso sesso e decidono di sfidare le convenzioni per inseguire la propria felicità). Toute première fois ci dice che la realtà è sempre più complessa e meno tranquillizzante di quello che immaginiamo: la nostra sessualità non è un'etichetta con cui siamo marcati a sangue, né una gabbia in cui essere rinchiusi.

Alla fine la grande conquista di una società dovrebbe essere che ciascuno possa amare chi vuole ed essere sempre libero di cambiare idea se questo lo rende più felice o lo fa sentire più a suo agio con sé stesso.

Voto: 3,5/5

sabato 24 novembre 2018

Pollock e la scuola di New York. Complesso del Vittoriano, 18 novembre 2018

E si va pure a vedere questa mostra in programma al Vittoriano fino al 24 febbraio 2019. Prenotiamo la visita guidata con l'associazione Roma Illustrata che ci consente innanzitutto di saltare una fila bella lunga nonché di apprezzare un'esposizione non certo di facile visione e lettura.

Come spesso accade per le mostre del Vittoriano (e non solo), il titolo va guardato con attenzione perché Pollock c'è ma solo come esponente di spicco della scuola di New York, quel gruppo di artisti che verranno anche identificati come "Gli irascibili", appellativo che trova una spiegazione alla fine del percorso espositivo.

La nostra guida si sofferma a lungo sulla prima parte del percorso, quella dedicata appunto a Jackson Pollock, per farci comprendere le specificità di questo artista che sono anche l'esito di un percorso biografico e personale molto particolare. Ci racconta inoltre l'evoluzione della tecnica di Pollock e le caratteristiche dell'action painting, di cui potremo poi ammirare in mostra le opere di alcuni dei maggiori esponenti oltre a Pollock, tra cui Willem De Kooning, Mark Rothko, William Baziotes, Robert Motherwell, Adolph Gottlieb e molti altri.

La denominazione di "espressionismo astratto" che viene normalmente utilizzato per identificare questa corrente artistica sviluppatasi negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra e animata in buona parte da americani di seconda generazione rende piuttosto bene l'idea delle caratteristiche delle opere che vedremo. Opere che sono molto diverse l'una dall'altra, ma che nello stesso tempo condividono la scelta di un allontanamento dal realismo, una tecnica pittorica nuova e la volontà di esprimere attraverso di essa il proprio inconscio.

Devo dire che se ci fossi andata senza guida - anche se magari con l'ausilio dell'audioguida - ne sarei uscita delusa o quantomeno avrei fatto fatica a comprendere il filo conduttore e il senso della mostra; con l'aiuto di una guida competente la logica sottostante alla selezione diventa più chiara, così come la possibilità di acquisire uno sguardo d'insieme, che consenta anche al profano (come sono io) di portarsi a casa una sensazione significativa e qualche conoscenza che non duri un battito di ciglia.

Voto: 3/5

mercoledì 21 novembre 2018

Euforia

Nel suo ultimo film Valeria Golino ci racconta la storia di due fratelli, Matteo (Riccardo Scamarcio) ed Ettore (Valerio Mastandrea), che – come spesso accade tra fratelli – non potrebbero essere più diversi nel carattere e nelle scelte di vita.

Matteo vive a Roma in un attico bellissimo, fa il creativo e l’imprenditore, è pieno di soldi, è omosessuale; la sua vita è divisa tra il lavoro, in cui è molto serio ma altrettanto cinico, e un tempo libero occupato dagli amici, dalla cocaina (e non solo), dagli amanti. Ettore, invece, vive ancora nel piccolo paese di provincia dal quale entrambi provengono, insegna alle scuole medie, è sposato e ha un figlio, ma il suo matrimonio è in crisi perché si è innamorato di un’altra donna.

Le loro vite non si incrociano nemmeno per caso fino a quando un giorno Matteo scopre che suo fratello ha delle metastasi al cervello e non gli resta molto da vivere. Decide di non dirgli la verità, ma lo ospita a casa per consentirgli di farsi curare a Roma.

Se il percorso di Ettore è verso la progressiva consapevolezza della propria malattia e della morte che lo attende, quello di Matteo - che è il vero protagonista del film - consisterà nel fare i conti col suo tentativo ininterrotto di anestetizzarsi e di esorcizzare il dolore e la banalità della vita per vivere sempre – anche aiutato dai soldi - in uno stato di artificiale euforia, la stessa che cerca di applicare anche alla vita di suo fratello controllando e manipolando la realtà.

L’esito di questo percorso lo porterà a rendersi conto della propria solitudine affettiva, conseguenza della non accettazione di una vita che non può essere vissuta sempre alla massima intensità e che spesso nasconde la felicità nella banalità del quotidiano, nonché della propria impotenza di fronte al dolore proprio e altrui e alla morte che la ricchezza non può evitare.

Quando Matteo si concederà il lusso della sconfitta sciogliendosi nel pianto, il riavvicinamento a suo fratello potrà dirsi compiuto, così come la risalita dalle ovattate profondità del mare a una superficie della vita in cui si può respirare ma dove si è anche esposti alle incontrollabili intemperie.

Un film ben costruito (a parte la parentesi per me poco credibile e in fondo poco integrata col resto della gita a Madjugorie), ben recitato (e va dato merito a Scamarcio di essere enormemente cresciuto come attore negli anni), e con una bella colonna sonora di Nicola Tescari in cui tra le musiche non originali spicca il leitmotiv di In a manner of speaking, prima nella cover dei Nouvelle Vague (già presente e usata in modo significativo nel film di Zanasi La felicità è un sistema complesso) e poi sui titoli di coda nella versione originale dei Tuxedomoon.

Voto: 3,5/5


lunedì 19 novembre 2018

Widows - Eredità criminale

Succede così in quelle serate in cui non c’è un film che si vuole assolutamente vedere e si continua a rimanere indecisi su cosa scegliere. Alla fine si sceglie sulla base di parametri quasi insondabili e spesso si rimane delusi.

È quello che è accaduto a me nell’andare a vedere Widows. Qualche sospetto mi era già venuto leggendo la trama, però - considerato che il regista è Steve McQueen, quello di Hunger, Shame e 12 anni schiavo - ho ritenuto di potermi aspettare qualche sorpresa e di poter apprezzare qualcosa che non è esattamente nelle mie corde.

E così eccomi a vedere quello che ho imparato essere un “heist o caper movie”, praticamente quel sottogenere cinematografico in cui al centro della trama c’è un grosso colpo, ossia una banda di criminali e una rapina con un bottino molto consistente.

In quest’ultimo film di McQueen la banda c’è: è formata da tre donne (che poi diventano quattro), mogli di tre rapinatori che a loro volta formavano una banda e sono morti durante l’ultimo colpo non riuscito. Il bottino pure c’è: si tratta dei 5 milioni di dollari che sono conservati in una stanza blindata della casa dove vive il candidato bianco al Consiglio comunale di un quartiere nero di Chicago Jack Mulligan (Colin Farrell) con suo padre Tom, lui pure politico (Robert Duvall).

Il motivo per cui le donne si imbarcano in questa impresa è perché nel colpo in cui sono morti i loro mariti sono stati rubati e poi andati in fumo nell’incendio successivo due milioni di dollari appartenenti a Jamal Manning, anch’egli candidato al Consiglio comunale, e a suo fratello Jatemme, due boss neri della zona, che a questo punto rivogliono indietro i loro soldi.

Fin qui si potrebbe dire che si tratta di un intreccio classico e già visto più volte al cinema, sebbene il fatto che le protagoniste siano tutte donne che prima di reinventarsi ladre svolgevano vite più o meno normali rappresenti certamente un elemento di sorpresa e originalità.

In realtà il plot si rivela via via più complesso e articolato e le cose mostrano il loro vero volto che non sempre è quello che appare. C’è però qualcosa in questo intreccio che per me è risultato un po’ faticoso e soprattutto poco credibile, così come ho trovato a più riprese i dialoghi poco convincenti e discontinui, nel senso che ci sono pezzi di sceneggiatura anche molto belli che però appaiono in qualche modo appiccicati alla trama.

Dentro il film confluiscono generi cinematografici diversi, dal succitato heist movie all’action movie, dal pulp tarantiniano all’affresco sociale fino alla più classica delle storie di riscatto e rivendicazione femminile; non mancano nemmeno gli inserti ironici. Ma tutto questo a me non è sembrato che trovasse una piena armonia.

Non c’è dubbio che l’elemento più interessante e originale del film stia in alcune scelte e invenzioni registiche: l’incipit è un vero e proprio colpo da maestro, nell’alternarsi delle fasi della rapina e di una scena di intimità tra due dei protagonisti, Harry (Liam Neeson) e sua moglie Veronica (Viola Davis); anche il percorso in macchina del candidato Jack Mulligan in cui ascoltiamo il dialogo con la sua assistente, ma in un lungo piano sequenza vediamo scorrere le immagini del quartiere da una telecamera posizionata sul cofano della macchina è decisamente una scelta originale. Solo per limitarsi alle cose che colpiscono di più.

Però un film non si può reggere solo sul virtuosismo registico quando manca un’armonia tra tutte le altre sue componenti. E a me è mancata appunto quest’armonia che mi ha fatto vivere la visione in maniera quasi sincopata e poco partecipe. Magari non era la sera giusta per vederlo, considerato che le recensioni sembrano essere tutte piuttosto positive. Ma tant’è!

Voto: 2,5/5


venerdì 16 novembre 2018

In giro sul delta del Po. Auto, bici e barca tra Goro e Comacchio

Oasi di Cannevié all'imbrunire
A distanza di quattro anni dal giro in bicicletta nel delta rodigino, torniamo a esplorare questa zona dell'Italia per me particolarmente affascinante, spostandoci questa volta più a sud, nel delta ferrarese. La nostra base è l'Hotel rurale Oasi Cannevié, che abbiamo individuato grazie al sito Bici Delta Po e che offre un pacchetto di tre giorni che comprende, oltre alla mezza pensione presso il vicino e omonimo ristorante di pesce, il noleggio delle bici e due gite in barca sul delta.

Nella campagna del delta ferrarese
Partiamo giovedì 1 novembre con previsioni meteorologiche pessime, ma speriamo di riuscire a fare almeno un giretto in bicicletta . La sera quando arriviamo facciamo innanzitutto una passeggiata a piedi nell'oasi visto che è l'ora del tramonto e il paesaggio offre fin da subito scorci molto belli. La passeggiata ci farà incontrare per la prima volta le nutrie, che saranno una delle costanti di questi giorni, onnipresenti in laguna e spesso morte sulle strade buissime che attraversano la zona.

Lungo l'argine
Il nostro arrivo in realtà è stato reso movimentato anche dal fatto che appena metto piede in stanza mi accorgo di aver dimenticato a casa tutte le medicine che sto prendendo per la sinusite, tra cui il cortisone che prevede una riduzione graduale dell'assunzione. Così dopo la passeggiata, quando è ormai buio ma non è ancora ora di cena, giriamo in macchina per i paesini della zona alla ricerca di una farmacia di turno e di un/una farmacista accondiscendente che mi venda il cortisone. Alla fine la nostra salvezza sarà la farmacia di un paesino minuscolo della zona.

Oasi di Cannevié
Una volta assicuratomi il cortisone, torniamo al nostro hotel per il briefing con il gestore che ci spiega i giri in bicicletta e in barca che ha pensato per noi e ci dà tutto il materiale necessario; poi ci aspetta la nostra prima cena di pesce della quale apprezziamo soprattutto i molluschi al forno gratinati, mentre davanti ai nostri occhi passano piatti e piatti di pesce crudo e di grigliate miste davvero molto invitanti. Noi ci conteniamo, anche perché a pranzo arrivando da Bologna non ci siamo fatti mancare tigelle, crescentine, salumi e sottaceti presso l'Agriturismo Granoantico sui colli bolognesi.

Comacchio
Quando ci svegliamo il venerdì sta piovendo e le previsioni non sono in alcun modo incoraggianti. Decidiamo dunque di rinunciare alla bicicletta e, dopo colazione, ci muoviamo in macchina verso Comacchio. Approfittando di una pausa tra uno scroscio e l'altro, riusciamo a visitare il centro storico, pieno di ponti e canali, e facciamo anche un po' di shopping di prodotti tipici. Ci muoviamo poi verso la foce del Bettolino dove parte il giro in barca nelle Valli di Comacchio. Siamo convinte che il giro parta alle 12, ma quando arriviamo verso le 11,30 ci rendiamo conto che la barca è partita alle 11 e possiamo solo spostare i nostri biglietti sul tour delle 14,30.

Foce del Bettolino
Per questo ci avviamo a piedi lungo l'argine e facciamo una lunga passeggiata fino alle vecchie saline. Da lontano riusciamo a vedere centinaia di fenicotteri che in questi luoghi dimorano, nonché molti altri uccelli della ricchissima fauna che popola questo territorio. Quando torniamo al casone è ormai quasi ora di partire con la barca che ci accompagna alla scoperta della laguna, della sua fauna e della vita che qui si faceva fino a non molto tempo fa; la sosta ai casoni dove lavoravano i pescatori di anguilla è una vera e propria immersione in un mondo che non c'è più.

Verso le saline
Dopo la visita torniamo a Comacchio per andare alla Manifattura dei marinati dove vendono l'anguilla marinata in lattina, che a questo punto abbiamo deciso di portare a casa e di assaggiare, ma quando arriviamo lì ci spiegano che per essere sicuri della sua conservazione dovremmo metterla al più presto in frigo, cosicché a malincuore rinunciamo.

Finestra di un casone nella laguna
Decidiamo di concludere la nostra giornata con la visita all'Abbazia di Pomposa, che è una possibile deviazione del giro in bicicletta di domani, ma che pensiamo sia meglio visitare con calma oggi sperando di poter dedicare il giorno dopo interamente alla pedalata. Tra l'altro l'abbazia all'ora blu, quando il cielo comincia a virare verso la sera/notte, è uno spettacolo di cui non avremmo potuto godere con un'organizzazione diversa.

La seconda cena al ristorante dell'Oasi Cannevié è ancora meglio della prima, con una menzione speciale per le linguine con le canocchie e la zuppetta di cozze. Osserviamo che il ristorante e la sua cucina hanno qualcosa che ci riporta agli anni Ottanta (tra le altre cose, la nostra insalata di mare è accompagnata dalla salsa rosa), ma questo niente toglie alla qualità del luogo, confermata dal gran numero di persone che sceglie di mangiare qui.

Torre Abate
Il terzo giorno quando ci svegliamo non piove e il tempo sembra discreto. Anche le previsioni - che sono state incerte fino all'ultimo - sembrano confermare una giornata senza pioggia, cosicché non ci facciamo scappare l'occasione di inforcare la bicicletta e di pedalare.

Il giro che facciamo prevede di risalire verso nord facendo tappa innanzitutto al bosco della Mesola, che però dal 1 novembre è chiuso, poi a Torre Abate, quindi a Mesola dove ci fermiamo per una pausa mangereccia al castello dove è in corso un mercatino gastronomico. Da qui imbocchiamo la pista ciclabile Destra Po, che ci fa appunto affiancare il grande fiume fino alla nostra destinazione che è Gorino, dove ci aspetta un altro barcone per la visita alla Sacca di Goro.

Destra Po
La pista ciclabile, quasi interamente sull'argine del fiume, è davvero molto bella, soprattutto il tratto che affianca un bosco di pioppi con i tronchi immersi in acqua.

Una volta a Gorino mangiamo il nostro pranzo a sacco e aspettiamo l'ora della partenza del giro in barca, che è stato spostato dalle 14,30 alle 15. La barca Carcana ci porterà - accompagnati dalle parole di Michele che è un appassionato e profondo conoscitore del Delta - fino al faro, ossia al punto in cui la laguna confluisce nel Po e il fiume si getta nell'Adriatico. Tornando indietro per un altro ramo della sacca ci fermiamo alla vecchia lanterna, dove scendiamo per gettare uno sguardo d'insieme sulla laguna. In queste due ore di escursione vediamo centinaia di uccelli, tra cui aironi di tutti i tipi, cormorani, piro piro e mille altri, e possiamo ammirare la bellezza sospesa di questo paesaggio inghiottito in una luce quasi irreale che io cerco di catturare con la mia macchina fotografica.

Il faro di Gorino
Torniamo al porto di Gorino che sono già le 17,15 e ci aspettano ancora circa 15 chilometri per tornare al nostro albergo. Decidiamo per il primo tratto di accelerare il percorso facendo la strada provinciale tra Gorino e Goro anziché la pista ciclabile, mentre le ombre della sera scendono e il cielo si fa sempre più scuro. Quando arriviamo a Goro e stiamo per imboccare la pista ciclabile che ci riporterà a Cannevié è già buio e non abbiamo alternative o scorciatoie. Quindi accendiamo le nostre lucette a dinamo e partiamo lungo l'argine. La situazione è abbastanza surreale perché siamo completamente immerse nel buio, a malapena vediamo il metro di strada davanti alla nostra ruota e quando incontriamo qualche cartello dobbiamo illuminarlo con il cellulare. Per fortuna S. ha delle lucine aggiuntive da bici e anche una torcetta e io ho attivo la mia app MyTrails che più di una volta ci permette di sciogliere i dubbi sulla strada da prendere.

Sacca di Goro
A un certo punto la pista ciclabile, dopo uno slargo, arriva davanti a un cancello. Dopo un po' capiamo che si tratta del pezzo di pista che affianca il bosco della Mesola e che si configura come una specie di corridoio protetto a destra e a sinistra da reti metalliche e chiuso all'inizio e alla fine da una doppia cancellata a prova di animale. Il tratto nel bosco è davvero inquietante. Intorno a noi sentiamo versi di animali e movimenti tra le fronde e S. dice di aver intravisto un cervo. Il fondo del sentiero a un certo punto diventa sabbioso cosicché siamo persino costrette a scendere. Intanto la stanchezza comincia a farsi sentire.

Sacca di Goro
Alla fine del tratto lungo il bosco e dopo un ultimo pezzo di sterrato, dove incontriamo una macchina solitaria rispetto alla quale non sappiamo se avere paura o essere felici di una presenza umana, siamo finalmente su strada. Ci chiama il proprietario dell'albergo che è preoccupato per noi visto che sono ormai le 18,30, ma per fortuna ormai manca veramente poco all'arrivo.

Non sappiamo se essere arrabbiate per un giro che evidentemente come tempi non è stato ben concepito, ovvero elettrizzate per quest'avventura che certamente va a inscriversi tra le più memorabili dei nostri ormai numerosi viaggi in bicicletta.

Comunque all'arrivo non c'è tempo di pensarci, perché dopo una rapida doccia, dismessi gli abiti da cicliste, eccoci in macchina di ritorno a Bologna dove ci attendono A. e P. per una cena al ristorante greco della Bolognina, nella testa ancora le immagini e le sensazioni di questo delta del Po, che resta un posto strano, tra lo spaventoso e l'affascinante, il depresso e il poetico, e che comunque non c'è periodo migliore per visitarlo della stagione autunno/inverno.

Qui una piccola raccolta fotografica un po' più ampia su questa gita!

mercoledì 14 novembre 2018

First man - Il primo uomo

Il nuovo film di Damien Chazelle è tratto dalla biografia di Neil Armstrong scritta da James R. Hansen e intitolata appunto First man: The life of Neal A. Armstrong, riadattata dallo sceneggiatore Josh Singer.

La storia è quella dell’uomo (interpretato da Ryan Gosling) che il 20 luglio del 1969 mise per primo piede sulla luna come comandante della missione Apollo 11. Di questa storia ci hanno parlato diversi altri film, ma a Chazelle non interessa tanto il trionfalismo del successo americano, bensì le contraddizioni che vi si nascondono dietro e i prezzi pagati per raggiungere quell’obiettivo.

Apollo 11 fu infatti il punto di arrivo di un percorso lungo moltissimi anni, durante il quale – anche a causa dei limitati mezzi tecnologici allora a disposizione – molte persone persero la vita in test non andati a buon fine o altri episodi sfortunati, mentre la pressione politica e sociale rispetto a un obiettivo che costava investimenti enormi cresceva giorno dopo giorno, anche in conseguenza della competizione con l’Unione Sovietica.

Lo stesso Armstrong ci viene presentato come un antieroe triste, introverso e restio alle interviste, poco incline alla diplomazia, diviso tra una vita ritirata con la moglie e i figli e l’indesiderata ribalta di un palcoscenico mondiale. Armstrong, uno dei pochi piloti civili impegnati nelle missioni nello spazio, si presentò alle selezioni e fu assoldato nella missione Gemini 8 dopo la morte per un tumore della figlia piccola Karen, una perdita che lascia un vuoto incolmabile e che l’uomo sembra quasi voler compensare con il compimento della missione lunare.

C’è nel film di Chazelle da un lato l’ammirazione per un’umanità che non smette mai di sfidare sé stessa e che insegue costantemente il sogno di superare i propri limiti, di spingersi oltre il già conosciuto anche a costo di correre rischi enormi, dall’altro la compassione per quella stessa umanità che nonostante tutto deve inchinarsi di fronte al dolore e alla morte. La velatura di lacrime negli occhi di Armstrong mentre solca il terreno lunare mette insieme il senso di gratificazione che nasce dal compimento di un obiettivo perseguito per tutta la vita e l’inevitabile tristezza che nasce dalla consapevolezza della propria impotenza e della parziale inutilità del proprio sacrificio, una tensione a cui l’umanità non può in alcun modo sottrarsi.

Chazelle nella sua ancora brevissima ma già fulminante carriera continua a dimostrare di saper governare generi e ambiti cinematografici diversi (al punto che i suoi film sembrano appartenere a universi differenti), ma anche di saper portare avanti trasversalmente e coerentemente una poetica tutta personale che va a cercare in epoche, storie e personaggi diversi la stessa fiamma interiore che spinge l’essere umano a scelte coraggiose e talvolta dolorose che sono la fonte e il motore della propria vitalità, ma anche la radice prima di quella sottile e pervasiva malinconia che è propria della condizione umana.

Di film in film i suoi mezzi e le sue ambizioni crescono, un po’ come quelli degli esseri umani di cui racconta, cosicché in First man la vena intimista è superbamente affiancata e sostenuta da una messa in scena immersiva in cui la qualità delle riprese e dell’audio catturano lo spettatore risucchiandolo nel frastuono e nel terremoto della navicella fino al raggiungimento del silenzio e della calma irreale dello spazio.

Voto: 3,5/5

lunedì 12 novembre 2018

La scortecata / regia di Emma Dante. Teatro India, 9 novembre 2018

La scortecata è una delle fiabe nere di cui si compone Lo cunto de li cunti, l’opera barocca e sovrabbondante del napoletano Giambattista Basile, la stessa a cui si era ispirato Matteo Garrone per il suo film Il racconto dei racconti, scegliendo tra l’altro questa stessa fiaba per uno degli episodi in cui il film si articola.

Si tratta della storia di due sorelle, vecchissime, che vivono in una catapecchia ai piedi del castello in cui abita il re. Un giorno il re sente cantare la più giovane delle due e, affascinato da questa voce che attribuisce a una fanciulla, vuole a tutti i costi scoprire chi si nasconde dietro di essa. Per le due sorelle è l’inizio di una spirale che sconvolge le loro esistenze meste, ripetitive e ricche solo di solitudine fino a condurle a una scelta estrema, quella che dà il titolo alla fiaba. Nel desiderio di essere quello che il re desidera e di poter cambiare la propria esistenza, la vecchia dalla voce soave convince la sorella a scorticarla viva per liberarsi della sua pelle da vecchia e far venire fuori la pelle giovane.

Nella messa in scena di Emma Dante le due vecchie sono interpretate da due uomini, i bravissimi Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola. Le due protagoniste sono sedute su due sedioline, una di fronte all’altra, e in mezzo alle due sedie c’è un tavolino su cui è poggiato il plastico di un castello principesco. L’interazione tra di loro si svolge dapprima tutta su un tono molto ironico: le due donne si punzecchiano reciprocamente, consapevoli della loro povertà e bruttezza, ma anche desiderose di cogliere l’occasione che gli si è presentata per poter cambiare vita. La lingua napoletana si configura fin da subito come il terzo personaggio sul palco, lingua piena di sfumature e di coloriture che interpreta perfettamente il senso di amarezza e il risvolto tragico che sta dietro l’ironia dei dialoghi.

Del resto, l’iniziale atmosfera giocosa si fa ben presto più seria, dal momento che i piccoli risultati positivi che le due sorelle ottengono con l’inganno ordito contro il re alimentano una speranza che è evidentemente priva di fondamento, ma che tale non appare allo sguardo delle due donne, accecate dal desiderio della giovinezza, della bellezza e della ricchezza. È come se – dopo una vita vissuta in solitudine e povertà – un evento inaspettato avesse aperto uno squarcio negli equilibri quotidiani e le avesse rese improvvisamente consapevoli della loro insoddisfazione. Questo climax ha il proprio apice in uno scontro tra le due sorelle nel quale esse utilizzano tutto il repertorio di insulti che la lingua napoletana mette a disposizione. Da qui la parabola non può che essere discendente e virare verso la dolorosa confessione della sorella più giovane e verso il tragico epilogo (in cui c'è una rilevante variazione rispetto alla fiaba originale).

I momenti topici della narrazione sono scanditi da canzoni selezionate dal vasto repertorio napoletano antico e moderno, mentre l’azione sul palco è animata da pochi oggetti che i due attori utilizzano per suggerire allo spettatore un intero mondo.

Ottima prova attoriale e convincente regia della Dante. Il tutto confermato dal lungo applauso finale del pubblico.

Voto: 3,5/5

venerdì 9 novembre 2018

Perfetta / di Mattia Torre, con Geppi Cucciari. Teatro Ambra Jovinelli, 6 novembre 2018

La protagonista di questo monologo di Mattia Torre è una donna come tante altre: ha un marito, due figli, un lavoro come venditrice in una concessionaria di auto, un'età presumibilmente compresa tra i 40 e i 50 anni. Come per tutte le altre donne tra i 15 e i 50 anni circa, la sua vita è scandita dal ciclo mestruale, quel "fenomeno" per cui - sebbene le giornate siano fondamentalmente tutte uguali - gli esiti sono completamente diversi in quanto condizionati dallo stato d'animo e dal momento ormonale della protagonista.

È così che la donna ci racconta quattro martedì-tipo della sua vita corrispondenti ad altrettante fasi del ciclo mestruale: il primo martedì è quello della mestruazione, il secondo coincide con la fase follicolare, il terzo con quella ovulatoria e l'ultimo con la sindrome premestruale. Se dunque il martedì-tipo è sostanzialmente scandito sempre dagli stessi momenti (la colazione con la famiglia, le istruzioni alla colf, la strada verso il lavoro, l'acquisto di un mazzo di fiori, il lavoro e l'interazione coi clienti, la telefonata pubblicitaria, la pausa pranzo, il ritorno a casa nel traffico, la cena con la suocera, la serata col marito), tutto si colora di una luce diversa - come enfatizzato dalle luci sul palcoscenico - che può andare da un rasserenante verde a un rabbioso e angosciante rosso.

Come spesso accade negli spettacoli basati sui testi di Mattia Torre si ride tanto, riconoscendosi ovvero riconoscendo quello che conosciamo nelle situazioni che ci vengono raccontate con un'arguzia e una capacità di osservazione speciali. Mattia Torre è uno di quegli autori che è in grado di tradurre in parole quello che per la maggior parte di noi ha l'aspetto di una sensazione o di un pensiero indistinto annidato in una qualche parte del nostro cervello. E lo fa andando diretto al punto e cogliendo l'essenziale senza mai perdere un approccio ironico e autoironico, ma non cinico, che riscatta l'esistenza dalla sua banalità e da cui traspare un profondo amore per la vita e una grande empatia per gli altri esseri umani.

È proprio questa empatia che consente a Mattia Torre di scrivere in maniera credibile di un'esperienza che non gli appartiene - quella del ciclo femminile - e di offrire a Geppi Cucciari un ruolo che indossa alla perfezione e al pubblico in sala un'esperienza come sempre a metà strada tra il catartico e l'introspettivo.

Dopo il bellissimo speciale dedicato l'anno scorso dall'Ambra Jovinelli a Mattia Torre, sono ben contenta che la direzione del teatro (che quest'anno ha oggettivamente il cartellone migliore della città!) abbia deciso di continuare a puntare su un autore che secondo me è in questo momento tra i migliori in circolazione.

Voto: 4/5

mercoledì 7 novembre 2018

Patria / Fernando Aramburu

Patria / Fernando Aramburu; trad. di Bruno Arpaia. Milano: Guanda, 2017.

In questo romanzo Fernando Aramburu ci parla di due ferite: quella che divide due famiglie basche e quella che ha diviso per molti decenni un'intera nazione. La causa di queste ferite è una sola: l'azione terroristica dell'ETA e l'ideologia dell'indipendentismo.

In Patria abbiamo da un lato la famiglia composta da Bittori e Txato, madre e padre, con i due figli Javier e Nerea, dall'altro la famiglia di Miren e Joxian, genitori di Jose Mari, Arantxa e Gorka. Il Txato e Joxian vanno tutte le domeniche a pedalare insieme e si incontrano in osteria per giocare a carte. Bittori e Miren sono amiche e confidenti, le vere matriarche delle rispettive famiglie, donne forti che fanno il bello e il cattivo tempo e in qualche modo condizionano i comportamenti di tutti gli altri componenti delle rispettive famiglie. I figli sono amici, in particolare Arantxa e Nerea, che come le mamme si confidano tutto.

Fino a quando Jose Mari sposa la causa di Euskal Herria e inizia il suo percorso nell'organizzazione terroristica, quello che lo porterà a partecipare al commando che ucciderà il Txato in un attentato voluto dall'ETA contro un piccolo imprenditore che non paga il suo contributo all'organizzazione e a cui l'ETA ha già messo contro l'intera comunità cui appartiene.

Miren prende le parti del figlio, facendo proprie le sue idee e quelle dell'indipendentismo basco. Gli altri componenti della sua famiglia reagiscono come possono: Joxian si chiude sempre più nel suo silenzio, Gorka va a vivere lontano alla prima occasione, Arantxa resiste stoicamente anche dopo che un ictus la immobilizza su una sedia a rotella costringendola a comunicare con un IPad.

Dall'altro lato, Bittori non trova pace, mentre Javier si chiude nell'alcol e nella depressione rinunciando a vivere e Nerea sembra non voler né sentire né vedere preferendo rimanere lontano da casa.

La straordinaria bellezza di questo romanzo è in buona parte da attribuire al modo in cui è scritto e orchestrato.

Aramburu non segue un ordine cronologico, bensì va avanti e indietro nel tempo, dedicando alternativamente 2-3 capitoli di seguito (i capitoli sono tutti piuttosto brevi) a uno dei personaggi di questa storia in una determinata fase della sua vita, generalmente momenti cruciali che aiutano il lettore a poco a poco a ricostruire gli eventi, ma soprattutto a dare un senso ai comportamenti dei personaggi e a comprenderne le dinamiche emotive andando al di là delle apparenze. Il romanzo è tutto scritto in terza persona, qualunque sia il personaggio protagonista, ma in mezzo a un racconto apparentemente impersonale si infila di tanto in tanto una prima persona che trasferisce in maniera diretta pensieri e sentimenti del protagonista.

Man mano che le pagine di questo poderoso (in senso fisico e simbolico) romanzo vanno avanti, il lettore non solo a poco a poco comprende l'immane e insensata tragedia che l'azione dell'ETA ha rappresentato per il tessuto sociale basco e in generale per la Spagna tutta, ma contemporaneamente si accorge che in questa storia non ci sono solo le vittime ufficiali del terrore, in questo caso il povero Txato e la sua famiglia, perché tutti - in modi diversi - vedranno la propria vita segnata da questi eventi e ne pagheranno in mille modi le conseguenze.

Sarà solo la testardaggine di Bittori e il disallineamento di Arantxa a produrre un lento ma progressivo riavvicinamento tra queste due famiglie, mentre l'intera nazione pure si accosta - quasi incredula - a un processo di pace interna che nel frattempo ha lasciato sul terreno migliaia di morti e altrettante persone e famiglie distrutte.

Quella di Aramburu è una storia culturalmente e geograficamente ambientata, eppure - come è proprio dei grandi romanzi (e questo secondo me appartiene a buon diritto alla categoria) - è in grado di parlare a chiunque, in qualunque epoca e in qualunque luogo. Perché ci parla della banalità del male, dell'indottrinamento ideologico, del condizionamento sociale, delle aspirazioni e dei desideri mal riposti dei giovani, e al contempo della forza liberatrice della riconciliazione, che certo non restituisce né il tempo né le persone, ma riapre la strada alla speranza.

Riflettere su quanto di orribile si è fatto e si continua a fare nel nome di un concetto di patria semplificato e mal posto (che esclude anziché includere) è l'eredità più forte che questo bellissimo romanzo ci lascia.

Voto: 4/5

lunedì 5 novembre 2018

Disobedience

Ronnie (Rachel Weisz) è una fotografa di origini ebree. Un giorno riceve una telefonata che la informa che suo padre, rabbino capo in una comunità di ebrei ortodossi di Londra, è morto; così Ronnie prende un aereo e vola a Londra. Qui si ritrova a fare i conti con tutto quello da cui si è allontanata, ossia un microcosmo regolato dalle ferree prescrizioni della religione, rispetto al quale si sente un'aliena. Il suo amico Dovid (Alessandro Nivola) è diventato l'allievo prediletto del padre, nonché il suo probabile successore, e ha sposato Esti (Rachel McAdams), che con Dovid e Ronit completava il terzetto di amici.

Scopriamo a poco a poco che Ronit è andata via quando suo padre ha scoperto che aveva una storia con Esti, mentre quest'ultima, molto legata alla sua religione e appassionata insegnante, ha deciso di rimanere e di adeguarsi alle regole della sua comunità.

Ma la scintilla della passione tra le due donne è destinata rapidamente a riaccendersi, e altrettanto rapidamente a provocare lo scandalo all'interno della comunità. Esti e Ronin saranno a questo punto chiamate a prendere una decisione, e sceglieranno la strada della verità con Dovid, mettendo anche lui di fronte a un profondo dilemma morale.

Quello di Sebastian Lelio (già apprezzato con Gloria e Una donna fantastica) è un film asciutto che va dritto al punto, ossia quello della libertà di scelta. In fondo è il tema che il regista sta sviluppando passo dopo passo in tutti i suoi film: la libertà dei desideri e della ricerca di leggerezza di Gloria, una donna che ha superato la mezza età e che vive da sola, la libertà di essere donna anche essendo nati in un corpo maschile e di amare e poter essere amati per quello che si è di Marina, la protagonista di Una donna fantastica, la libertà dai condizionamenti religiosi e di amare chi si desidera di Esti e Ronin.

Disobedience è anche una scrupolosa indagine nei meandri delle comunità di ebrei ortodossi presenti in molti paesi del mondo, che si configurano come enclaves completamente separate dal mondo esterno e regolate dalle severissime prescrizioni della Torah; tra le altre cose scopro alcune cose che non sapevo, ad esempio che le donne coprono i capelli con parrucche, siedono separate dagli uomini con cui non possono avere alcun contatto fisico, e nel matrimonio esistono indicazioni molto precise sui rapporti tra marito e moglie, anche rispetto alla sessualità.

Rispetto al senso di oppressione evocato da questo mondo, l'esplosione di vitalità che travolge le due protagoniste finisce per scuotere anche la coscienza di Dovid. L'abbraccio che alla fine unirà i tre sarà per ciascuno di loro la rivendicazione della propria identità e della propria libertà di scelta.

Peccato per il doppiaggio in italiano, secondo me insopportabile, che non ho potuto evitare.

Voto: 4/5